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Recensione : Hollow Bone

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Credo che non si possa prescindere dalla figura di Carlo Garof nel momento in cui ci si pone all’ascolto con il debutto dei suoi Hollow Bone. Leggendo la sua biografia come musicista sono portato a pensare che le sue esperienze tra Mali, Senegal e Burkina Faso abbiano modificato il suo approccio sonoro, allargandolo a dismisura. Risento infatti in questo album omonimo tutto quell’immaginario ritualistico di questi popoli che risuona in lontananza, portandomi all’interno di un’esperienza sciamanica, tra silenzi dilatati e percussioni avvolgenti.

Poi, leggo le note del disco e scopro che la mia idea dello sciamano era tutto tranne che campata in aria. Gli Hollow Bone infatti devono il loro nome al concetto di “osso vuoto” di Frank Fools Crow, uomo medicina della tribù Lakota Sioux Teton. È come se i suoni dell’Africa andassero a fondersi con quelli delle pianure polverose ed assolate del Sud Dakota, in una sorta di rito collettivo.

“Hollow Bone” è un album ovviamente strumentale che fa della ritmica ossessiva il suo punto focale. C’è grande spazio per la componente improvvisata [nel senso jazzistico del termine ovviamente] soprattutto nelle sue parti sperimentali che volgono verso un sentimento decisamente ipnotico che avvolge e rassicura. Contestualizzandolo al nostro quotidiano di isolamento obbligato, l’album è un ottimo modo per fermarsi in questi giorni di emergenza sanitaria mondiale. Non sarà la cura dei nostri mali, ma di sicuro aiuta a guardarsi dentro in cerca di quell’anima che abbiamo smarrito cercando il superfluo. Ci porta verso la consapevolezza di poter essere sciamani di noi stessi ed aspirare ad un salto di qualità mentale.

Perchè anche concettualmente siamo alle prese con un album che va oltre l’aspetto puramente sonoro. La sonorizzazione delle idee del trio va verso il recupero di noi stessi e la ricerca del senso che la nostra presenza sul pianeta sottintende. Non è un percorso facile, ma non mi sono mai piaciute le sfide vinte in partenza. Cimentarmi con un album di questa profondità concettuale è stato tanto stimolante quanto soddisfacente, soprattutto nel momento in cui mi sono reso conto di essere parte del loro viaggio e di avere voglia di ricominciare una volta arrivato a fine, rimettendo l’album da capo.

Rendiamo però giusto merito anche a chi accompagna Carlo Garof nel suo percorso di ricerca sonora. Compongono infatti il terzetto anche Claudio Giuntini e Giona Vinti [rispettivamente chitarra e synth/ electronics] che con il loro contibuto permettono al suono di acquistare in profondità, aggiungendo quelle sfumature più dissonanti che avvolgono l’ascoltatore impedendogli di dedicarsi ad altro durante lo scorrere dei brani. L’idea è quella di un terzetto perfettamente amalgamato che ha le idee chiarissime su cosa voglia e come fare per ottenerlo.

L’album è ulteriormente impreziosito dalla presenza di tre ospiti di tutto livello come Jochen Arbeit [chitarra su “Sacred Skull” e “Sequoia”], Matteo Bennici [violoncello su “Nontime”] e Bruno Germano [wurlitzer piano su “Badlands”], a dimostrazione che l’apertura mentale porta sempre lontano. Non solo nella musica.

Il disco, che esce nella sola veste CD grazie alla collaborazione tra Hellbones Records e Dreamingorilla Records, è già disponibile negli spazi online delle etichette dalla fine di marzo.
Il primo brano tratto dal disco NoNtime lo trovate invece già su youtube.

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