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Recensione : OSEES – INTERCEPTED MESSAGE

A quanti album sfornati siamo arrivati? Ventisei in ventisei anni di percorso, tra un moniker e l’altro? Minchia. Ma, seppur a un ritmo più “umano” rispetto ad altre prolifiche creature come i King Gizzard & The Lizard Wizard (su questi ultimi confesso di fare fatica a star dietro a tutte le loro uscite discografiche) con gli OSEES raramente ci si annoia e, a un anno di distanza da “A Foul Form“, recentemente è stato pubblicato “Intercepted Message“, il nuovo disco della band californiana multiforme nata dal munifico talento creativo del frontman e chitarrista John Dwyer.

E così, in questo torrido agosto in cui la nostra Italietta è sospesa tra il delirio di un “ufficiale generale” raccolto in un libro diventato best seller (solo da noi accadono certe cose…) santificazione a reti unificate di Mastro Lindo da Arcore (aka il fu gran capo Antenna Pazza) screenshots raffiguranti tragicomici annunci di lavoro (ma parlare di salario minimo è un’eresia, per carità…) fotografie di scontrini che a loro volta fotografano la solita indole “furbetta” che abbonda nel DNA di questa “nazione”, piagnistei governativi sulla denatalità (eh, ma i “sovranisti” non capiscono che a causa di questo insostenibile carovita, generato dall’inflazione fuori controllo, oggi è diventato un lusso donare nuovi figli alla “patria”…) l’evergreen della “minaccia anarchica” (buona per tutte le stagioni, e che ormai ha sostituito quella del pericolo comunista) paragonata alle mafie, l’indignazione a furor di “popolo” contro l’ex commissario tecnico della nazionale (“reo” di averne lasciato la panchina… il calcio è sacro per gli italioti) e pseudo-telegiornali che mandano in onda servizi per informarci delle vacanze dei “vip” nelle nostre famose località balneari (esticazzi?) a salvarci dalla più cupa depressione arrivano gli OSEES, che ci regalano undici nuove canzoni e sono lì a tenderci una mano e a farci illudere, almeno per una quarantina di minuti, che possiamo venirne fuori da questi anni di ignoranza e conservatorismo oscurantista raccapriccianti.

John Dwyer, attraverso la In The Red Recordings, descrive “Intercepted Message” (registrato ai Discount Mirrors Studio a Los Angeles) come “un disco per questi tempi stanchi, un pop zuccherato con pezzetti di vetro infrangibile, dove il garage pop di prima qualità incontra il proto-synth punk anti-suicidio” e ne consiglia l’ascolto soprattutto ai fan del synth-punk teutonico, a chi soffre di amnesia politica e a chi è venuta a noia la sbobba pop generata dalla controversa AI, la cosiddetta intelligenza artificiale. I nostri, recentemente, lo hanno suonato per intero dal vivo. Sì, sempre con DUE batterie.

Dwyer e soci cambiano ancora una volta le carte in tavola e, dopo l’omaggio, in “A Foul Form”, ai gruppi (proto)punk/hardcore con cui il combo si era formato in gioventù, in questo nuovo full length si diverte a contaminare il rock ‘n’ roll e a sporcarlo con tastiere ed effettacci elettronici from another planet al fine di rimescolare il sound della band ed espanderlo nella sua freak attitude che pervade tutta l’opera, a cominciare dal brano apripista “Stunner“,col suo groove pop/new wave a fare da contraltare al loro classico attacco garage rock/punk, passando per “Blank Chems” e la title track col loro feeling à la DEVO e testi al vetriolo contro l’autorità e la manipolazione distopica dei cervelli operata dal sistema mediatico mainstream, recuperando la vecchia formula (cara anche a formazioni come i Gang of Four) del raccontare storie impegnate e denunciare i mali della società narrandoli tramite ritmi psicotici ma orecchiabili e addirittura ballabili. In “Die Laughing” si sconfina persino nel free jazz, mentre brani come “Unusual & Cruel” e “Chaos Heart” sono rivestite di fragranze Bowiane. La sciccheria è l’omaggio alla avanguardistica sperimentale post-punk/no wave band britannica dei Blurt, dei quali hanno coverizzato “The Fish Needs A Bike“, e l’asciutta new wave di “Goon” , “Submerged Building” e “Sleazoid Psycho” prepara il terreno alla sorprendente chiusura del long playing, affidata a “Always At Night” una spiazzante ballata atmosferica e confidenziale, sette minuti fluttuanti che, in una maniera inaspettata, suggellano il termine dell’Lp, ma da quei mattacchioni di Dwyer e compagni è lecito aspettarsi un po’ di tutto. Ah no, aspettate: c’è anche un colpo di scena finale: una canzone non menzionata nella tracklist, e quindi una ghost track, “Ladwp Hold“, una cover di “Opus number one“, strumentale inciso da Tim Carleton e Darrick Deel e utilizzato dalla multinazionale statunitense di networking Cisco come sottofondo musicale di default per i telefoni mentre si è in attesa (e infatti verso la fine del divertissement si ascolta anche un’operatrice scoglionata o stonata di un customer service che avvisa che “a breve” un funzionario avrebbe risposto alla nostra “chiamata”).

Lo ribadiamo: questa NON è Ibiza. E meno male. Il popolino si tenga le “Italodisco”, i “balli latinoamericani” con le mossette tutte uguali e gli altri demenziali tormentoni estivi del cazzo, ché noi ci teniamo stretti gli OSEES.

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