Ho raggiunto via email gli Space Yantra nel bel mezzo del loro viaggio in Amazzonia per una chiacchierata, ecco cosa ne e venuto fuori. Di Andrea Parodi.
– Partendo dalla vostra biografia, si comprende facilmente quanto la vita spirituale e quella musicale per voi siano una sorta di entità complessiva, che si muove all’unisono. Mi viene spontaneo chiedermi di come vi siete incontrati e quali siano i vostri background musicali, quali esperienze passate abbiate fatto.
Nadeshwari è nata in Sri Lanka e originaria dell’India, ha studiato fra India e Italia le arti della danza e del canto. Il padre (noto maestro di yoga e ayurveda) e la madre, le hanno trasmesso una forte devozione per i mantra e la spiritualità indiana. Per 7 anni ha fatto parte di una formazione musicale multietnica che ha portato la sua musica in Europa (Banda di Piazza Caricamento). Negli ultimi dieci anni si è dedicata al “consciousness development” fondando una rivista transculturale (Matrika), scrivendo un libro sulla coscienza femminile (Macro Ed.) e incidendo un album di mantra allegato ad un libro sulla guarigione (Mondadori).Ismail è un polistrumentista world music/fusion. Ha iniziato il suo percorso musicale come bassista metal per poi immergersi nello studio della musica classica indiana e del sitar per dieci anni, tra India e Italia. Ha collaborato con diverse band metal (tra cui Necrodeath) e folk italiane come bassista e sitarista. Attualmente bassista e throat singer presso In Vino Veritas. Si occupa inoltre di musicoterapia in ambito riabilitativo. Il canto armonico è un altro aspetto importante della vita musicale e spirituale di Ysmail: tiene seminari e formazioni sui principi universali del suono, fondendo la meditazione e l’esplorazione della voce. Siamo nati come band nel 2015: Ysmail stava tenendo dei concerti di sitar nell’ashram (comunità spirituale) del padre di Nadeshwari. Lì gli è arrivata l’intuizione di contattarla, per creare un progetto musicale che aprisse una breccia verso la multidimensionalità. Lei si trovava in Sri Lanka a curare il profondo divario che sentiva tra il suo essere orientale in un mondo occidentale. Nella richiesta di Ysmail ha sentito la possibilità di esprimere in musica una spiritualità incarnata. Ha avuto inizio così un periodo di sperimentazione sonora con la quadrifonia, momento che ci ha visto impegnati in una serie di concerti, principalmente al museo delle culture del mondo di Genova. In questi appuntamenti davamo vita a un ambiente sonoro tridimensionale (Mandala Sonoro) che aveva l’obiettivo di trasportare il pubblico nella vibrazione in movimento di sitar, voce, armonici e suoni campionati di pianeti e natura. Dopo una pausa di qualche anno, Nadeshwari ha proposto ad Ysmail di dare vita a una nuova esplorazione artistica insieme, con l’idea di musicare Devi Kavacham, un lungo mantra dedicato alle diverse forme della Dea. In questi momenti di intensa creatività tra elettronica, melodie classiche indiane e pulsazioni tribali, è emerso il nostro primo album (Space Yantra), che uscirà con il videoclip ufficiale il 16 febbraio.
Dare vita a questo lavoro musicale è stato per noi un intenso percorso di scoperta interiore, dove rispecchiandoci profondamente nelle nostre aspirazioni, da quelle primordiali a quelle cosmiche, abbiamo sviluppato una comunione d’intenti e direzione così forte da unirci anche in una relazione sentimentale. Ogni brano di questo album è il frutto di un processo creativo che affonda le radici nella terra e nello stesso tempo si apre al cielo. Inevitabilmente questo percorso artistico ci ha portato a incontrare insieme le nostre ombre più profonde. Trovandoci scaraventati nella nostra oscurità siamo stati invitati dalla vita a trovare un modo per riemergere e rinascere nella connessione con la natura. La musica è stata la nostra nave cosmica (da qui il nostro nome) per arrivare insieme a un’espansione vitale che si è fatta linfa per i nostri corpi come la linfa delle piante, una pulsazione universale che si fa corpo e esperienza di vita.Questo passaggio ci ha portati da un ambiente sonoro prevalentemente indiano alle musiche delle culture tribali, in particolare quelle sudamericane e amazzoniche.
– So che siete attualmente proprio nella foresta amazzonica per un periodo di tempo abbastanza lungo, vi va di raccontarci cosa state combinando?
ll singolo in uscita con il videoclip ufficiale è YANYA (You Are Not You Are). Girare il video è stata un’esperienza di tale sincronicità e forza da spingerci ad andare in Amazzonia per incontrare chi non ha mai interrotto la relazione tra cielo e terra: gli indigeni Noke Koi della foresta pluviale. Il video di Yanya tratta proprio questi temi, esprimendoli attraverso la storia di un’esperienza psichedelica con le piante sacre. Il giorno stesso delle riprese abbiamo scoperto che il parlamento italiano aveva respinto la richiesta di rendere legale l’Ayahuasca in Italia. Questa infausta sincronicità ci ha spinto ulteriormente a partire verso la foresta. Attualmente ci troviamo nello stato brasiliano di Acre, nei pressi del confine con il Perù, nel mezzo della giungla. La prima città dista 60 km da dove ci troviamo. Siamo ospiti della tribù nella loro riserva, un paradiso immerso nella natura selvaggia, senza molte delle comodità a cui siamo abituati in occidente, a partire dal bagno. Per lavarci ci bagniamo nel fiume che scorre vicino al villaggio; a ogni pioggia monsonica il livello dell’acqua sale così tanto da modificare completamente l’ambiente e la vita degli indigeni, e quindi anche la nostra in questo momento. Siamo qui per curare il nostro corpo, la nostra mente e il nostro spirito con le cerimonie di piante sacre, con il veleno della rana Kambo, e con i canti sacri nell’antica lingua Noke Wana. Stiamo anche seguendo un percorso di apprendimento dei canti cerimoniali e dell’utilizzo della voce, molto peculiare e con una timbrica specifica. Ci sono canti di diversi tipi: i canti sciamanici sono cantati solo dallo sciamano e servono all’inizio della cerimonia per condurre i partecipanti, attraverso la vibrazione, nel viaggio interiore. Poi vi sono canti corali in cui si danza in cerchio che avvengono durante la cerimonia, e per finire canti corali accompagnati dalla chitarra e dalle percussioni. Sulla base di queste esperienze sta prendendo forma il nostro secondo album in collaborazione proprio con gli indigeni, in particolare con il loro cantore sacro e il fratello maggiore apprendista sciamano, entrambi figli dello sciamano capo tribù. In questi giorni stiamo effettuando delle registrazioni vocali dei due fratelli e dei field recording che saranno il corpo principale del nostro prossimo lavoro musicale. Nella nostra permanenza nella foresta sono già emersi anche alcuni nostri brani nuovi in connessione con la Madre Terra. Nei prossimi mesi Ysmail si dedicherà alla produzione musicale di questi nuovi elementi musicali, mentre Nadeshwari continuerà fino a marzo il viaggio di apprendimento vocale e cura tra Brasile e Perù.
– Veniamo all’album. Si avvertono una pulizia sonora di insieme ed una delicatezza nel mix quasi insoliti per un genere come il vostro, una patinatura piacevolmente pop se vogliamo (la stessa ripresa dalle vostre immagini e dalla copertina). Ogni disco ha una sua genesi ed un suo sviluppo, quali scelte avete fatto nel costruire l’intelaiatura di Space Yantra? Chi si è occupato del mixaggio? Quanto ci avete messo a realizzarlo?
Ti ringraziamo per il tuo feedback. Ysmail si è occupato interamente dell’incisione, arrangiamenti e mixaggio, salvo il mastering per il quale ci siamo affidati allo studio di un amico, El Fish studio di Genova. La produzione tecnica di Space Yantra ha comportato molto studio da parte nostra, e anche molto impegno in termini di tempo proprio perché abbiamo scelto di auto-produrci: dall’inizio delle incisioni abbiamo impiegato circa dieci mesi per arrivare alla fase di mastering. Questa scelta nasce principalmente da una necessità artistica: in questo ambito musicale crediamo sia molto importante avere diretto controllo anche degli effetti, dei volumi e di tutti i parametri ad essi collegati, che crediamo parte integrante del processo creativo, e nella nostra visione ancora connessi alla parte compositiva. Come dicevamo all’inizio dell’intervista, l’album è nato con gli ultimi quattro brani, di stampo decisamente più psichedelico e orientati alla musica indiana classica, sono infatti tutti e quattro parte del lungo mantra Devi Kavacham. Successivamente abbiamo sentito il bisogno di avvicinarci di più a una dimensione tribale, per quanto contaminata, che ci ha necessariamente messo nella condizione di esplorare nuove possibilità di comunicazione tra generi musicali. Per fare questo abbiamo sentito anche necessario semplificare l’aspetto compositivo, per poter dare maggiore rilievo all’arrangiamento e alla struttura, e maggiore respiro agli elementi tribali. Per fare un esempio, nella parte finale di Ritualise Your Roots c’è una progressione di synth che esegue un poliritmo in 9 su un tempo di 4: questo è un elemento direttamente ispirato ai Pigmei africani; allo stesso modo in Invisible Spheres tre strumenti seguono ciascuno una suddivisione ritmica diversa, incontrandosi ciclicamente sull’uno; anche questa forma trae ispirazione dall’Africa. Yanya è invece un brano di stampo Calypso, il reggae caraibico, in uno stile che crediamo sia molto vicino agli ultimi lavori di Calypso Rose. Per finire, in Ambrosial Mandala abbiamo provato ad esprimere la nostra affinità con il Dub, che sentiamo un ottimo ponte tra la dilatazione di una percezione espansa e la necessità di creare in essa un movimento ritmico che rispetti la sua natura fluttuante.
– Parafrasandovi, l’album spazia tra varie dimensioni di folk, in una geografia del suono globalizzata. Quanto pensate che il vostro album possa riflettere la società contemporanea e le sue tecnologie (vedi la rete)?
Anche qui sentiamo una dinamica delicata simile a quella del “veleno/medicina” di cui parlavamo prima. Qui sentiamo il rischio che si corre di incappare in un consumistico e superficiale “mischione” New Age, che aborriamo e cerchiamo attentamente di evitare. La consapevolezza è anche qui lo strumento più utile: cerchiamo di scegliere con attenzione i nostri passi e vivere una dimensione musicale che sia il più a contatto possibile con le nostre esperienze dirette. Facciamo un esempio: ispirarsi a elementi di una tradizione può essere un movimento molto superficiale se non si conoscono né le necessità artistiche, né quelle espressive, né gli aspetti culturali o ambientali della tradizione o genere a cui ci si sta riferendo. Per noi, nel nostro bisogno di esplorare il mondo e nella nostra aspirazione a percorrere un filo conduttore profondo tra i popoli, è importante sviluppare il più possibile consapevolezza delle loro caratteristiche, su più livelli possibili. Parlando in termini geografici, siamo stati in India, in Amazzonia ma mai ai Caraibi o nell’Africa dei Pigmei. Sappiamo che incontriamo il rischio dell’appropriazione culturale e di conseguenza di un contatto superficiale con queste realtà, ma cerchiamo di mediare tra le nostre aspirazioni creative e gli strumenti che abbiamo a disposizione per trarre più comprensione possibile dalle tradizioni musicali a cui ci ispiriamo. L’influenza amazzonica che stiamo integrando per il prossimo disco in “costruzione” ha, crediamo, un buon livello di consapevolezza, dato il fatto che siamo stati introdotti a questa tradizione direttamente dagli indigeni, che ci hanno illustrato i motivi profondi delle caratteristiche dei loro canti: ne abbiamo fatto esperienza direttamente sulla nostra pelle, per quanto non sarà mai l’esperienza che può farne un indigeno. Nonostante non abbiamo avuto la stessa esperienza, ad esempio, con i Pigmei, abbiamo provato a integrare quello che noi abbiamo sentito essere il “senso” dei loro poliritmi, alla luce della conoscenza che abbiamo sviluppato con lo studio approfondito della musica indiana classica e occidentale rock e jazz, che sappiamo bene aver tratto grande ispirazione dalla musica tribale. In un processo umano davvero ampio tale osmosi musicale è avvenuta nel corso di un secolo con il Jazz e il Blues. In questo contesto c’è stato ampio spazio sia per un’integrazione davvero umana e orientata all’unione dei popoli, che per l’appropriazione culturale, com’è avvenuto nel caso dei primi dischi jazz di bianchi letteralmente rubati alla musica nera per meri motivi di profitto. Chiaramente non è questa la nostra direzione, la musica è una professione e crediamo che possa essere esercitata nella direzione dell’unione dei popoli piuttosto che del superficiale consumismo globalizzato.
– Visto che avete fatto un cenno, come vi ponete nei confronti delle sostanze che comunemente, nel gergo generalista , vengono banalizzate come droghe?
Crediamo, o meglio sentiamo, che il termine droga non si riferisca tanto a sostanze e molecole specifiche, quanto all’uso più o meno consapevole che si fa delle piante, delle sostanze e dei loro principi attivi. Basti guardare all’origine della medicina per comprendere questo punto: il veleno è spesso stato utilizzato nella storia per curare, dunque bisogna chiedersi qual è il confine tra cura (medicina) e dipendenza (veleno/droga). I popoli indigeni che abbiamo visitato chiamano l’Ayahuasca “medicina” e noi, facendo esperienza diretta delle loro cerimonie, abbiamo avuto modo di comprenderne il motivo: il punto per loro non è viaggiare o sballarsi, ma curare su tutti i piani dell’esistenza. La cura sul piano fisico comporta spesso una purificazione intensa che si manifesta nella forma della sensazione fisica (dal dolore al piacere); la cura sul piano mentale si manifesta attraverso la purificazione e la trasformazione del pensiero e dei concetti che orientano la nostra quotidianità; la cura sul piano spirituale si manifesta nella forma di visioni e nell’esperienza delle diverse dimensioni della realtà (noi viviamo in 3d, ma ci sono molte altre dimensioni che possono essere sperimentate se, in un modo o nell’altro, si riesce ad ampliare e purificare la percezione). Inoltre le cerimonie di Ayahuasca sono guidate da sciamani esperti che hanno ereditato la conoscenza dei vari aspetti della cura dai loro antenati, in una tradizione che viene mantenuta probabilmente da millenni. Dunque c’è immensa consapevolezza nell’approccio indigeno alla sostanza, laddove invece spesso manca nell’approccio occidentale alle sostanze sia naturali che chimiche. Questo perché, tornando alla risposta precedente, in occidente abbiamo perso una connessione consapevole con la terra e il cielo, ovvero con la nostra consapevolezza di essere una realtà organica multidimensionale e non individui separati dal resto che vivono a compartimenti stagni. Questo nostro vivere la realtà a compartimenti stagni ci conduce a subire la spinta disperata inconscia a rompere il senso di separazione ad ogni costo e con qualsiasi mezzo, ma questa spinta, non essendo consapevolizzata, sfocia in dipendenze talvolta fatali. Tuttavia stiamo in questi anni assistendo, in occidente, allo sviluppo di una nuova visione delle sostanze, ispirata appunto alle diverse tradizioni sciamaniche del mondo, orientata alla cura, e persino alla cura della dipendenza.
– Non è quindi forse innanzitutto un problema culturale? Come fa una società consumistica e pragmatica, nella quale con il denaro si acquistano anche le esperienze, una società che bada al personale tornaconto e che poco ha di comunitario, a sorreggere concettualmente e comprendere eticamente quello che avete raccontato voi per esempio sull’Ayahuasca? Non rischia di diventare un’ennesima pratica elitaria, costosa e magari approssimativa estrapolata dal contesto originario?
Siamo d’accordo, è un problema culturale, e ci appelliamo proprio per questo a una visione organica e bioenergetica della psiche umana, quale può essere la visione junghiana o ancora meglio bioniana: non siamo, come dicevamo, esseri finiti e a compartimenti stagni, ma sistemi e sistemi di sistemi organici, interdipendenti e in continua trasformazione. La trasformazione è una legge di natura, è inevitabile. Il nostro inconscio non può che prendere nota del minimo cambiamento o nuovo elemento che si presenta e inizia un processo metabolico che in qualche modo modificherà la visione conscia della realtà. Questo è sempre vero, in una visione appunto bioniana, ma è chiaro che il vero punto non è se, ma quanto questi elementi che noi, apparentemente “quattro gatti”, stiamo cercando di portare a noi stessi e conseguentemente al nostro mondo in quanto parti attive di esso, incidano in questo processo. Noi crediamo che da un punto di vista culturale ci sia un certo movimento globale e interesse alla questione, anzi potremmo dire che dalla beat generation in poi questo tipo di visione olistica ha sempre dato e ricevuto colpi e contraccolpi nel nostro sistema occidentale. Con alti e bassi, anche molto bassi come sappiamo. Crediamo che ci sia un certo interesse globale nella questione, che potrebbe esponenziarsi in un futuro prossimo o lontano nelle condizioni idonee. O potrebbe anche non accadere e spegnersi con le nostre speranze. Chi lo può sapere? Ad ogni modo non sento che il centro della questione sia l’Ayahuasca per noi, ma una visione della realtà sostenuta dalle culture amazzoniche che ne fanno uso. L’Ayahuasca può essere un importante supporto, ma la sua funzionalità è strettamente connessa ai luoghi da cui proviene, dove è davvero una medicina indispensabile alla sopravvivenza degli indigeni (si, ha proprietà terapeutiche molto importanti anche da un punto di vista fisico oltre che mentale). Un ideale, un orientamento di senso all’esistenza non è elitario per definizione, può essere trasmesso e vissuto in molti modi accessibili, come la musica che facilmente possiamo reperire online. Com’è accaduto anche a noi, che guardando un video di Hendrix e Ravi Shankar suonare a Woodstock, o ascoltando gli Asian Dub Foundation, abbiamo sentito un fuoco creativo, ribelle e libero accendersi dentro. Poi come decidiamo di gestire questo fuoco è storia personale che segue le possibilità e aspirazioni di ciascuno, ma intanto si è acceso… speriamo anche noi, nel nostro piccolo, di accendere qualche fuoco.
– In un’epoca in cui vi è una polarizzazione tra culture neo positiviste e culture neo sciamaniche, in cui il valore dell’esperienza, come nel vostro caso, va oltre la contemporaneità, vi siete chiesti quale sia l’impatto ambientale di un viaggio come il vostro?
Siamo grati di questa domanda, che consideriamo un’ottima opportunità di riflessione su una tematica più attuale che mai e delicatissima: l’impatto sia ambientale che culturale, e quindi il tipo di influenza che la presenza occidentale esercita più o meno consapevolmente nella riserva indigena, e nel pianeta in generale. Innanzitutto analizziamo l’impatto ambientale: siamo consapevoli dell’inquinamento che comporta lo spostarsi, in aereo soprattutto, verso questa zona della terra. Tuttavia non reagiamo attraverso il senso di colpa ma attraverso una, per noi più costruttiva, analisi della questione, per poi consapevolizzarne i vari aspetti. Potremmo scegliere di non muoverci verso l’Amazzonia per non generare un impatto da un punto di vista ambientale, ma crediamo che dall’altra parte muoverci verso questa terra e apprendere le conoscenze dei suoi popoli, possa aiutarci a partecipare nell’interdipendenza a un cambiamento in atto nel nostro angolo di mondo, a dare il nostro contributo alla nostra società di origine per sviluppare nuovi punti di vista orientati a un tipo di esperienza di vita più conscia della natura “olistica” dell’essere. Ciò nelle nostre possibilità e limiti, e naturalmente intendiamo farlo utilizzando soprattutto il linguaggio musicale. Poi c’è l’aspetto dell’impatto culturale, anch’esso molto delicato. Nadeshwari spesso riflette sul tema dell’appropriazione culturale, sentendo di essere non solo srilankese e non solo italiana, e quindi talvolta subendo tale appropriazione, a volte invece teme di metterla in atto. Facciamo l’esempio del canto dei mantra: Nadeshwari può percepire un non-rispetto della sua tradizione da parte di chi, nonostante una evidente poca conoscenza del tema, esercita il canto e la trasmissione di mantra della tradizione vedica; d’altro canto lei stessa sente, nonostante pratichi il canto e la trasmissione dei mantra, che potrebbe suscitare lo stesso sentimento nei confronti di un brahmino (sacerdote vedico) che ha molta più conoscenza ed esperienza sul tema. Ci appelliamo dunque a un principio di soggettività che crediamo sia importante considerare. Per quanto riguarda gli indigeni, sappiamo che l’attuale contaminazione culturale che la presenza occidentale in Amazzonia comporta, può essere altamente rischiosa per la stabilità della loro tradizione. Ne abbiamo fatto esperienza noi stessi, attraverso le sessioni di registrazione vocale con il cantore della tribù. Per registrare in modo professionale è necessario rispettare un click, il metronomo, e lui non ne aveva mai sentito parlare, nonostante sia assolutamente in grado di rispettare il tempo e la velocità. Ma lui è abituato a farlo in modo più libero, con un percussionista attento alle fluttuazioni di velocità che le necessità espressive del momento comportano, e non attraverso un robotico click, tuttavia necessario per incidere un disco. Ebbene, senz’altro da una parte abbiamo fornito a lui uno strumento nuovo ed utile, dall’altra parte sappiamo che potremmo aver contaminato la sua visione millenaria del tempo musicale. Per tornare all’impatto ambientale, loro non hanno un sistema di smaltimento dei rifiuti, se non direttamente bruciarli, compresa la plastica. Ciò è ovviamente estremamente nocivo. Noi occidentali potremmo dare un apporto positivo in questo senso, introducendo nostri sistemi di smaltimento, possibilmente attenti alle loro necessità. Dunque non vediamo una risposta fatta e pronta, ma un processo di analisi che speriamo conduca alla possibilità di creare una consapevolezza collettiva di queste tematiche.
– Non era mia intenzione procurarvi ipotetici sensi di colpa, mi riferivo proprio ad un concetto semplice e privo di sfumature: in quasi duecento anni di antropologia si sono evidenziati vari modelli praticabili e non, presso popolazioni indigene; si sono succeduti metodi che hanno fatto sì che la disciplina si distaccasse dalla sua radice distorta colonialista e si sviluppasse in maniera sana. Penso al lavoro di Clifford Geertz a Bali. O Ernesto De Martino in Sud Italia. Osservazione partecipativa, riflessiva, un’osservazione diversa da quella che si può avere andando allo zoo per usare parole spicce. Riformulando: il valore dell’esperienza personale può essere più importante di quella condivisa collettiva? Perché per quanto si possa essere bravi, è impossibile condividere un’esperienza a livello astratto su questa terra. Bisogna viverla, quindi mi chiedo quanto questa esperienza di viaggio che avete fatto possa essere un valore culturale aggiunto per la società occidentale, dato per scontato che gli unici dati concreti sono che il cherosene inquina e che la plastica, nella foresta, qualcuno ce l’ha portata.
Sentiamo di aver già in parte dato elementi per rispondere a questa domanda nella risposta precedente, con il tema dell’inconscio e la citazione junghiana/bioniana. Tornando a questo punto riteniamo che l’esperienza personale sia di assoluta e primaria importanza, perché maggiore è l’impatto sull’individuo, maggiore è la sua capacità di trasmettere la trasformazione che ha vissuto anche a chi gli è vicino. Pensare che siamo esseri isolati nella nostra esperienza è semplicemente utopico, come pensare che un monte sia separato dal resto della terra solo perché noi lo isoliamo con lo sguardo per dargli un nome. Non siamo diversi dal monte, abbiamo un nome, ma non siamo separati dal sistema organico e unitario che ci accoglie: il pianeta, la nostra società, l’universo, gli esseri che lo abitano, sono porzioni di sguardo di un unicum che in realtà non può essere suddiviso in modo definitivo. La parola chiave è trasformazione, una trasformazione che avviene inevitabilmente come un processo spontaneo naturale, e non crediamo che ci sia solo il dato misurabile del cherosene, perché la coscienza non è misurabile. Ma non sottovalutiamo il dato misurabile, anzi lo rispettiamo e speriamo che nel futuro vengano alla luce modelli di integrazione davvero efficienti. Lo speriamo, ma abbiamo molti dubbi che davvero possa accadere. I dubbi però non sono un motivo sufficiente per noi per non dedicare i nostri sforzi creativi a questa aspirazione.
– Le culture millenaristiche e le tradizioni religiose antiche hanno basamenti su società che non esistono più, che si sono evolute (non necessariamente in positivo) e hanno cambiato la loro stessa natura. Come vi ponete nei confronti delle tradizioni conservatrici che, viste da occidentali progressisti come me, risultano confuse e contraddittorie? Per esempio proprio in Sri Lanka, terra madre di Nadeshwari, da nemmeno un anno è stato finalmente depenalizzato il reato di omosessualita. Personalmente credo che viviamo in un mondo in cui per cambiare le cose non basta un gesto, serve un’analisi olistica se mi passate il termine, che lavori ad un cambiamento sistemico di un determinato paradigma, all’interno di un contesto allargato che a sua volta mutera.
Abbiamo “latitato” musicalmente in una tradizione conservatrice, almeno da un punto di vista filosofico, fino a questo album, in cui abbiamo provato a testimoniare una transizione da un ambiente tradizionale e conservatore come quello vedico, alla realtà tribale. Sentiamo di operare una distinzione tra i grandi sistemi religiosi e le realtà tribali, perché anche se condividono il fatto di essere millenari, hanno radici, risorse e obiettivi davvero diversi. Non siamo né sociologi né antropologi, ma proviamo a dare una nostra riflessione sul tema. Innanzitutto i sistemi sociali basati sulle tradizioni religiose, come ad esempio lo Sri Lanka poggia sulla tradizione buddista, sono contraddistinte da una tale rigidità ideologica da sfociare necessariamente in contraddizioni che poi si manifestano in modo violento nella società. Restando nello Sri Lanka, per citare proprio l’esempio di Nadeshwari: lei proviene da una famiglia Tamil, una minoranza etnica srilankese proveniente dall’India che è stata oggetto di un genocidio ad opera della maggioranza buddista. Vediamo chiaramente la contraddizione: una società buddista che opera un genocidio. Da questa esperienza di Nadeshwari possiamo anche giungere facilmente alla comprensione che il cambiamento, per chi ha subito le conseguenze drammatiche dell’ideologia, non è una mera aspirazione, ma una necessità vitale, legata alla sopravvivenza. Non è il giro di boa di una mente capricciosa, ma l’opera di trasformazione dell’unicum/realtà nel nostro stesso corpo, una trasformazione sempre dettata dalla necessità. Nelle realtà tribali non manca di certo un assetto ideologico, come non manca in occidente, ma la risorsa principale non è la società stessa, o un’idea filosofica (come ad esempio l’illuminazione), ma la foresta, che viene vissuta non secondo un sistema astratto e interpretativo, ma sulla base dell’esperienza diretta e dell’incontro con gli altri esseri (dai serpenti ai giaguari), del continuo processo d’integrazione tra le parti necessario per la sopravvivenza non tanto del singolo ma dell’intero sistema naturale, di cui l’uomo fa parte.
– Per concludere vi chiedo con molta curiosità gli ultimi dischi che avete acquistato e quali sono i prossimi step del vostro progetto.
Ecco alcuni dischi che ci hanno influenzato recentemente:
Enemy of the enemy (Asian Dub Foundation), Rebel Woman (Chiwoniso), Mezzanine (Massive Attack), Spirit Medicine (Vianney Lopez), Deus Arrakis e Kontinuum (Klaus Schulze), Aguas de Amazonia (Philip Glass, Uakti), Akhenaten (Philip Glass), Anastasis (Dead Can Dance), Jamm (Cheikh Lô), Mir (Ott), Hollow Bone (Ayla Nereo), Diamonds and Demons (Nessi Gomes). Per quanto riguarda i nostri prossimi step, stiamo mettendo le basi per un prossimo tour dopo l’uscita di Space Yantra e inizieremo già da febbraio a lavorare sul prossimo disco. Abbiamo in progetto di portare live la collaborazione con gli indios, ma questa è ancora solo un’idea.. Grazie!
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