Il Dive, a New York, è stato un mitologico club assurto a Mecca del garage punk, o “garage revival”, ossia quel (sotto)genere nato, agli albori degli Eighties, unendo in un matrimonio distorto e fuzzato il garage rock pre-1967 (anno in cui ci fu l’avvento del disco-monolite “Sgt Pepper’s” dei Beatles, evento considerato come una sorta di “perdita dell’innocenza” del beat/rock da ragazzini teenager scapestrati e l’inizio della stagione dei concept albums seriosi e della “istituzionalizzazione” dell’album pop-rock concepito alla stregua di un’opera d’arte e musica a cui prestare attenzione in maniera impegnata) e la furia iconoclasta del punk ’77, una riscoperta e rivalutazione (iniziata, già nel 1972, con la nota compilation “Nuggets“, e poi proseguita con la varie serie di “Pebbles“, “Back from the grave” e affini) delle sonorità del rock ‘n’ roll dei gruppi di metà anni Sessanta più oscuri (spesso semiamatoriali e quasi tutti composti da adolescenti) che registravano la propria musica – specialmente i singoli, come meteore a 45 giri – nei propri garage casalinghi, in modo volutamente sgraziato e con suoni grezzi, con l’idea di deturpare il pop smielato da hit parade. E, tra le punte di diamante di questa febbre “Neo-Sixties” che agli inizi degli anni Ottanta contagiò la Grande Mela (e non solo, leggasi la parabola degli sfortunati prime movers californiani Unclaimed) ci furono sicuramente i newyorchesi Fuzztones, tra i massimi esponenti di quel magma incandescente underground animato da zazzere, occhiali scuri, pantaloni di pelle nera, minigonne, go-go dance, riverberi, pedali Fuzz-Tone Maestro Gibson (ma anche Danelectro e Arbiter) organi Vox Continental (e Farfisa Combo Compact e Ace Tone) chitarre Rickenbacker (e Vox Starstream e Fender Mustang e Phantom Mark Iv) amplificatori Vox AC30, acidi, “funghi”, stivaletti e camicie Paisley, il tutto filtrato attraverso l’ottica del punk rock (le cui ceneri della prima ondata erano appena state sparse sul palco del CBGB’s, ma anche in Inghilterra e in Europa).
La band, ancora oggi capeggiata da Rudi Protrudi, e sempre viva e attiva a suonare in giro per il mondo (con quaranta anni di percorso, fresca di un album celebrativo fatto di cover e inediti, e in procinto di realizzare un docufilm, oltre a un garage album solista di Protrudi) sin dagli esordi è stata tra i maggiori – e più noti – catalizzatori di questo movimento-culto che, come ogni “dogma” che si rispetti, aveva i suoi rituali (la vita notturna, i concerti a notte fonda, gli happening neopsichedelici di “Mind’s Eye”) e il suo tempio, che a New York fu appunto il Dive, un locale che poteva contenere fino a un massimo di cento persone, e frequentato assiduamente da weirdos, freaks e misfits (non il gruppo!), che ha visto esibirsi tutta la crema della scena garage punk di NY (The Vipers, Mad Violets, Tryfles, Outta Place, Cheepskates, Mosquitos) un luogo di perdizione oggetto del disco dal vivo che andiamo a trattare, “Live at the Dive ’85“, incisione di un concerto tenuto dai ‘Tones quasi quattro decenni fa, e pubblicato dalla benemerita label pisana Area Pirata, etichetta fieramente indipendente che ha fatto del DIY il suo credo etico e che continua a perseguire, da un lato, il presente delle uscite delle band del suo roster (in continua espansione) e a rinnovare, dall’altro, la sua meritoria opera di ripescaggi di chicche del passato come questo full length.
Registrata a New York nel 1985, poco prima della chiusura dello stesso Dive, e alla vigilia del loro primo tour europeo (a supporto del loro secondo Lp, “Lysergic emanations“, tra i capisaldi del genere) questa esibizione cattura(va) su nastro i nostri in azione nella loro line up classica (con Rudi frontman/chitarrista e líder maximo del progetto, seguito da Deb O’ Nair alle tastiere e voce, Elan Portnoy alla chitarra, Michael Jay al basso e Ira Elliot alla batteria e voce) e perfettamente a loro agio nel relazionarsi con disinvoltura con un giovane e (si percepisce chiaramente) caloroso pubblico di appassionati, smaniosi di ballare e saltare e cantare con Rudi, rendendo l’atmosfera (già gonfiata da alcool, sesso e droghe) ancor più elettrizzante. Ma ciò che fa di questa gig una rarità è sicuramente la presenza, in scaletta, di cover di brani di ensemble contemporanei “rivali” come i Lyres (“Help you Ann“) i Cheepskates (“Run better run“) e i Chesterfield Kings (“She told me lies“) oltre al rifacimento di un pezzo garage rock 60’s (accanto a “1-2-5” degli Haunted e “Cinderella” dei Sonics, poi diventati classici del repertorio live) “Numbers” (Terry Knight & The Pack) mai più riproposto in seguito. E sono degne di essere menzionate anche le versioni di “Me Tarzan, you Jane“, “It came in the mail” e “One girl man“, tre canzoni all’epoca ancora non incise e inedite. La qualità lo-fi delle registrazioni, invece di penalizzare il risultato finale, enfatizza l’energia e la genuinità della prestazione on stage, e si possono avvertire nitidamente l’eccitazione e il divertimento che sprigionavano dalla serata, con la band galvanizzata dal responso entusiasta ricevuto dai Fuzzfreaks accorsi al concerto per godersi un gruppo nel pieno della sua teenage lust, che sciorina una setlist in bilico tra l’omaggio ai maestri (gli Shadows of Knight di “Bad little woman“, gli Human Expression di “Love at psychedelic velocity“, “Journey to Tyme” di Kenny & The Kasuals o nel singolone “We’re pretty quick” delle meteore Chob) e pezzi propri in cui dimostrano di aver assorbito la lezione del garage rock in maniera impeccabile (come in “She’s wicked“, divenuto negli anni un altro evergreen).
Direi che ci sia abbastanza materiale per infiammare la vostra curiosità e voglia di R’N’R, quindi fate vostri questi solchi (a proposito, Protrudi ha detto che ha ancora conservati tanti live tapes degli anni Ottanta che magari, in futuro, vedranno la luce) e, se ne avete l’opportunità, andate a vedere i Fuzztones in concerto anche oggi, perché vale sempre la pena, l’età è relativa quando c’è ancora l’ardore e la volontà di mangiarsi i palchi e, nonostante le quattro decadi sul groppone (e le settanta primavere abbondanti di Rudi) il garage rock non presenta nemmeno un capello bianco, perché è una musica che suonerà sempre fresca, in quanto essenziale, esuberante, ricolma di quel nettare adolescenziale che ci farà sentire per sempre sbarbi e cool.