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Confessioni di una maschera “580” Febbraio MMXXIV

Recentemente ho scelto di portare sulle pagine di Libroguerriero “La vita di chi resta”, il romanzo di Matteo B. Bianchi dedicato a chi si ritrova catapultato in quell’inferno terreno conseguente al suicidio di una persona cara. Nonostante l’argomento mi tocchi molto da vicino, non ho pensato nemmeno per un istante alla possibilità di chiedere a qualcun altro della redazione di farlo al mio posto. Non ci si libera del dolore di queste dinamiche mettendo la testa sotto la sabbia, fingendo che non sia toccato a noi, illudendoci che riempiendo la nostra vita di mille altre cose, si possa dimenticare la sofferenza. Finiremmo per fare come chi colleziona acciacchi immaginari, pur essendo sanissimo, convinto che questo possa in qualche modo proteggerlo dalle malattie reali. L’oblio non serve a nulla. Nella mia vita, priva, o quasi, di certezze, uno dei pochi punti fermi è rappresentato dall’impossibilità – e dall’inutilità – di evitare il confronto con il passato, ostentando sicurezze irreali.

Esacerbare il dolore può, razionalmente, non essere la via maestra per venire a patti con la vita. Ma è senza ombra di dubbio il modo migliore per iniziare a conviverci. Fingere che non sia toccato a noi, o semplicemente allontanarne il ricordo, possono, nell’immediato, farci star meglio, ma alla lunga dovremo esser pronti a fare i conti con noi stessi. Come dice anche Bianchi nel suo romanzo, questo è un dolore da cui non è semplice affrancarsi. Affermazione incontrovertibile, cui però sento di dover aggiungere che ce lo porteremo dietro per sempre, e, anche quando penseremo di essere riusciti a metterlo in quell’angolo del cuore più nascosto, in cui può farci meno male, ce lo ritroveremo davanti, forte e fiero come se fosse successo tutto il giorno prima, e il tempo passato non fosse mai esistito.

Il suicidio non è un dolore qualunque. È un qualcosa che uccide sia chi lo mette in atto che chi resta. È uno spartiacque nelle nostre vite, e che sancisce, in modo inappellabile, che non saremo mai più quelli di prima. Quello che ero un tempo non esiste più, è morto in quel sabato di settembre del duemiladiciannove, e non tornerà. Ora sono “altro”. Un qualcosa di indefinito che non ha preso la sua forma definitiva, che si sta modellando sotto i colpi di un incontro scontro con me stesso che non mi lascia tregua, ricondizionato da tutto quello che il destino mi mette tra le ruote in questa nostra corsa verso l’estinzione.

Secondo Bianchi “Il dolore è un anestetico. Avvolge, protegge. Mi rende inattaccabile anche dalle cattiverie del mondo. Possono dirmi, farmi qualunque cosa, non reagisco, non mi importa Sono già passato attraverso il peggio. Non può succedermi nient’altro.” Io invece credo che al peggio non c’è mai fine. Il ricordo di quei drammatici momenti non serve per anestetizzare tutto il male del mondo con cui mi devo confrontare quasi quotidianamente, in ogni sua forma e manifestazione. Sono due dolori diversi, figli di due dinamiche contrapposte. La prima ci ha ucciso, la seconda ci tiene vivi.

Quando ripenso a DR capisco che quello che oggi mi manca di più sia la sua voce, intesa come capacità di analisi e di giudizio. In un mondo in cui è sempre più difficile trovare qualcuno che abbia davvero qualcosa da dire, e che sia soprattutto capace di ascoltare, anziché specchiare il proprio ego in conversazioni unidirezionali, DR rappresentava la mia necessità di confronto. Non fatico a individuarlo come la persona da cui abbia tratto i maggiori (e migliori) insegnamenti, quella che non solo mi ha ridato la voglia di fare, ma che mi ha anche ricordato l’importanza dei sentimenti, e della necessità di rallentare mentre tutti corrono sempre più velocemente incontro all’estinzione.

L’unico mio rammarico sta nel non esser riuscito a intercettare il suo pensiero in quei giorni. Avrei voluto che avvisasse della sua intenzione di scendere in corsa prima dello schianto finale cui siamo destinati. Non lo avrei giudicato per la scelta. Non avrei cercato di disilluderlo dal suo progetto. Mi sarei limitato ad abbracciarlo sapendo che sarebbe stata l’ultima volta in cui ci avremmo sorriso insieme. È fin troppo ovvio che qualunque cosa gli avessi detto non sarebbe servita a nulla, men che meno a farlo desistere dalle sue intenzioni. Mi sarei accontentato di parlarne insieme, cercando il modo più indolore per evitare di ferirci ulteriormente, perché, come sottolinea il romanzo, il problema è tutto per “quelli che restano”.

L’avrei fatto. E potendo tornare indietro lo farei. Consapevolmente incurante di andare a infrangere l’articolo 580 del Codice di Procedura Penale, “Istigazione o aiuto al suicidio”, che recita testualmente: Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, e’ punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, e’ punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima.

Non mi sono mai preoccupato della legislazione. In tutte le occasioni in cui ho ritenuto di doverla infrangere l’ho fatto, consapevole dei rischi e delle conseguenze, ma fermamente convinto dei miei propositi. Non è mai stata, e non sarà, una legge che considero iniqua il freno alle mie intenzioni. Le ho infrante e continuerò a infrangerle. Pagherò quello che ci sarà da pagare, in nome di un reato che lo Stato considera tale, ma che non solo non riconosco, ma che inquadro come l’unica strada per esercitare il mio libero arbitrio.

Rileggendo quest’ennesima “confessione” sorrido pensando che sono oltre trent’anni che sono pagato per tenere in vita le persone, e stavo per aiutarne una a morire. Un paradosso, ma solo per chi ragiona in modo unilaterale e superficiale. Non per me, e non per chi, come me, tocca il dolore e vede spegnersi gli occhi delle persone a cui tiene, e non può nemmeno immaginare la disperazione che si cela dietro a freddi sorrisi di circostanza, e routine che mascherano l’attesa per il gesto liberatorio.

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