“Forse cercavi: MOON“.
“Risultati per “moon“.
No no, “cari” pseudo-sapientoni motori di ricerca che a volte reindirizzate su altri termini ad minchiam, non avevo digitato la suddetta parolina con due “O” (che inevitabilmente fa confondere l’algoritmo con Keith Moon, o la Luna) ma cercavo volutamente un moniker composto da tre vocali, quelle che determinano la ragione sociale dei MOOON, un terzetto di giovani olandesi composto da due fratelli (come nel caso dei Lemon Twigs, ma molto meno celebrati rispetto ai colleghi statunitensi) Gijs (batterista e polistrumentista) e Tom De Jong (basso e voce) e da un loro cugino, Timo van Lierop alla chitarra e voce.
Un family affair che, però, ci fa guardare per una volta al “nepotismo” in maniera positiva, vista la qualità della proposta che i nostri ci offrono sin dalla loro fondazione nel 2013: “Making sixties pop, psychedelic and beat music” è il loro scopo e, a giudicare da “III“, terzo studio album del trio orange (che arriva a cinque anni dal precedente Lp, “Safari“) si può dire che riescano piuttosto bene nell’intento di proiettare questi generi-mondi sonori nel nuovo millennio, suonandoli con la mente e il cuore rivolte al quinquennio 1963-1967, periodo di massimo splendore di questi universi musicali e, per loro stessa ammissione, gli Who, i Monkees, gli Small Faces e Strawberry Alarm Clock sono radicati nel DNA della band (ma anche Byrds, Cream, Standells, Move, Tomorrow, Creation, Kingsmen e senza dimenticare la scena del Dutch blues dei Sixties e la lezione dei loro connazionali Q65 e Outsiders).
Ascoltare “III” – disco uscito in febbraio su Excelsior Recordings e Soundflat Records – è come fare un viaggio in una macchina del tempo che ci catapulta tra le pieghe soniche, le atmosfere e l’estetica della golden age della pop music (nella sua accezione più alta e nobile possibile) quella che si sublimò in quella commistione tra garage rock, beat e psichedelia che fu omaggiata dalla compilation “Nuggets” nel 1972, poco dopo il riflusso della sua ondata più prolifica e fulgida. Dal beat dell’apripista “Rainbow flowers” al frizzante singolone freakbeat/fuzz “Richard has a racecar” che sprizza Swinging London da tutti i pori, dai Beatles rievocati in “Mr. Abelicity“, “Living in the night“,”G.A.S.” (e nella ballad McCartneyana “If I only knew“) al grintoso garage/beat organistico di “How you really are“, dalle divagazioni psych/folk pop della lunga “You cannot know” (che a un certo punto si perde nei meandri di un assolo di batteria) alle nenie Barrettiane in “Hurtin’ my heart“, dagli Who citati a piene mani negli stop-and-go di “I will get to you” allo psych/blues ben arrangiato di “Buy me a smile” e con le cupe dissonanze di “Toy Gun“, per quarantacinque minuti sembra di essere tornati indietro al 1966, cercando di captare le frequenze “pirata” di Radio Caroline o Wonderful “Big L” Radio London e di tenere la televisione accesa su “Ready Steady Go!” e “Shindig!“. Sonorità anacronistiche nel 2024? E chissenefrega, anzi: ben vengano queste ed altre giovani leve capaci di miscelare, sapientemente, piccoli (grandi) mondi antichi e riproporli alle nuove generazioni per educarle alla buona creanza di imparare ad ascoltare e amare seriamente una musica che non smette di riciclarsi e vi invita ancora a smarrire la percezione di tempo e spazio (e la vostra dritta via) nell’uggioso bosco lacustre della copertina di “III”.