Le leggende non muoiono mai, è vero, com’è anche vero che non si finisce mai di stupirsi. Chi l’avrebbe mai detto che il missing link tra Elvis e Johnny Cash (o, a scelta, fra Bob Mould e Roy Orbison, oppure fra Maschera Nera e TJ Johnson) potesse rappresentarlo addirittura un giovane sudafricano bianco di trent’anni, talento precoce emigrato per lavoro prima in Inghilterra e poi in Canada, ex-batterista di un gruppo punk?
Orville, gay dichiarato, nasconde al pubblico il suo nome vero e la sua faccia, come nasconde certi suoi innamoramenti di ragazzo dietro a questa raccolta breve di sette canzoni, tutti duetti, quasi tutte cover.
La più interessante delle sette esce dalla penna di Peck ed è “How far will we take it?”, storia di un amore che si spegne cantata in coppia con Noah Cyrus (ne è stato realizzato un videoclip molto suggestivo) ed il cui testo è leggibile e condivisibile in tutte le sfumature.
Un po’ meno interessante, ma senz’altro destinata a spalancare a Peck portafogli, patte e cuori messicani, è “Miénteme” – un country/mariachi sul ruffiano spinto in duetto con Bu Cuarón, cantautrice ventunenne rampante nonché co-autrice. Mi viene da ridere a immaginare se al suo posto la Warner avesse chiamato a cantare Espinoza Paz e/o Jessi Uribe.
Vecchia canzone altra cover altro duetto è “Saturday night is alright for fighting” eseguita assieme all’autore Elton John e purtroppo resa così innocua e carina che pare estratta da una di quelle trasmissioni inguardabili e precotte per famiglie tipo Io canto – Family.
Ma quella che sarà considerata il pezzo forte del disco è una versione eseguita insieme al leggendario Willie Nelson di “Cowboys are frequently secretly fond of each other”, una canzone di Ned Sublett di quarant’anni fa al tempo pubblicata dal poeta John Giorno su “Life is a killer” – una delle sue incredibili antologie. Peck e Nelson sembrano nonno e nipote che cantano orgogliosamente dell’ovvietà tenuta nascosta, della banalità dell’attrazione che non si può raccontare a voce alta né cantare in pubblico perché deturperebbe quei duecento anni di machismo e steroidi che sono la storia ufficiale a stelle e strisce.
Se trovate irresistibili stivali camperos e leather chaps indossati sopra ai jeans ma eravate rimasti appesi all’immaginario cowgirl con fondali posticci, ritocchi a colpi di photoshop e chitarre acustiche campionate del periodo “Don’t tell me” di Madonna, con Orville Peck vi si potranno aprire porte e finestre mentali, nonché sogni e polmoni – certe sue canzoni sembrano fatte apposta da cantare a squarciagola facendo finta di cavalcare e roteare il lazo sopra a praterie immaginarie.
Diciamocelo: tranne un paio di pezzi gustosi, “Stampede, vol. 1” non è onestamente granché se paragonato ai lavori precedenti di Peck: quel detonante esordio “Pony” (2019) pubblicato da Sub Pop e il successivo EP “Show pony” su major (2020) che hanno parecchio agitato le acque di un genere musicale rigido e conservatore quando non esplicitamente maldisposto alle novità – figurarsi ai coming out dei suoi alfieri. Molto bello e ben realizzato anche il doppio album “Bronco” (2022) con parecchi pezzi strappabudella.
Prendete quelli, e in attesa che esca un prossimo futuribile “Stampede, vol. 2” di questo guardatevi i videoclip, tutti perfettamente realizzati, calibrati e levigati come da disposizioni dell’industria dell’immaginario.
Orville Peck Stampede, vol. 1
di Marco Pandin