Come è solito fare Alessandro Borghese nel giudicare un ristorante, l’ispezione comincia dalla cucina, e dal controllo della cappa.
Che poi il mio sogno sia che il ristoratore di turno faccia cozzare violentemente la fronte di Borghese (assurgendo ad imperitura memoria televisiva) contro l’angolo vivo della cappa mostra, forse, il mio lato più livoroso , nulla toglie al mio voler parlare di There’s No Sorrow, partendo dal pregio dei dettagli, ossia dalla bellezza della copertina, che anticipa la bellezza del lavoro nel suo insieme.
Una copertina, diciamolo con franchezza e rendendole l’onore che merita, capace di farvi acquistare il disco a scatola chiusa. Ma siccome non è solo di cappe e di copertine che si può vivere, andiamo a vedere il menù.
Si comincia con il ritmo caracollante dell’ariosa Love Doesn’t Ask una canzone che sintetizza da subito l’amore inveterato del gruppo per i sixties, la segue il beat frizzante di There’s No Sorrow – potenziale hit per il Cantagiro del 1966, mentre con Joseph i ritmi si fanno più robusti, lambendo l’hard rock degli Amboy Dukes o le cose più affilate dei Music Machine; chiude il tutto la languida filastrocca psychedelica contenuta in Lexotilla.
Che dietro questo progetto si celino dei vecchi marpioni della scena garage tricolore lo si intuisce dallo spettro dei temi trattati e dalla estrema competenza con cui questo viene fatto.
There’s No Sorrow dei Project V è qui a confermarci che il garage punk, in Italia, è splendente ed in ottima forma.