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Recensione : LIZ LAMERE – ONE NEVER KNOWS

Avvocatessa, boxeur, manager, producer, amante dell’arte ma anche, e soprattutto, musicista, collaboratrice artistica e compagna (e poi vedova) di Alan Vega: tutto questo è Elizabeth “Liz” Lamere, per quasi un trentennio partner in crime del compianto visual artist e frontman newyorchese – mente del pioneristico duo elettronico avanguardistico dei Suicide – contribuendo alla realizzazione dei suoi lavori solisti (dall’album del 1990, “Deuce Avenue“, fino a “It“, uscito postumo nel 2017, dopo la scomparsa di Alan, avvenuta l’anno prima) e del quale cura, da otto anni a questa parte (insieme a Jared Artaud) le uscite dei dischi postmortem che stanno vedendo la luce sotto la sigla “Alan Vega Vault Project” – oltre ad averne scritto (insieme a Laura Davis-Chanin) la biografia, in uscita, “Infinite dreams: the life of Alan Vega“.

Nel 2022 però, dopo una vita passata “dietro le quinte” a forgiare/sperimentare/decostruire il sound di Alan Vega, Lamere prese consapevolezza sul fatto che i tempi fossero maturi per fare un grande salto e iniziare una avventura solista in prima persona (sempre spinta e caldeggiata da Vega) facendo così uscire un full length di materiale completamente suo, “Keep it alive“, incentrato su un pulsante synth-pop elettronico e algido che, inevitabilmente, si poneva in una scia di continuità con l’opera sonica dell’ex compagno e le atmosfere dei Suicide. E, dopo due anni, Liz torna a pubblicare un nuovo long playing a suo nome, “One never knows” (che era una delle espressioni preferite di Alan Vega riguardo all’imprevedibilità della vita e del destino mortale riservato a ciascuno di noi) uscito il mese scorso su In The Red Recordings.

Registrato e prodotto insieme al figlio Dante Vega Lamere e al fidato Jared Artaud al Dujang Prang (lo studio in cui Alan Vega assemblava le sue sculture), “One never knows” conferma, grosso modo, gli stilemi dell’Lp di debutto, con sette brani che si muovono in territori sonori cari all’ex master of minimalism, tra loop, layer e drumbeat reiterati e desiderosi di insinuarsi nella psiche dell’ascoltatore, a cominciare dall’opener “King city ghost” (il cui videoclip è stato ottenuto utilizzando i disegni di ritratti disegnati da Vega) passando per “Strike” e il groove funky/dance del singolo “Vibration” che trasuda di trasgressione nei vicoli lerci di una serata alcoolica nella Grande Mela, e poi “Mind” che sembra uno di quei pezzi fatti per essere ascoltati di notte, a luci spente, amplificati nelle cuffie per far viaggiare la mente (appunto), l’agile “Moment“, l’art-pop kraftwerkiano di “If only” e la conclusiva “No regrets” che arriva quasi a rievocare suggestioni Nineties IDM.

A onor del vero, va detto che lo stile vocale della Lamere risulta essere forse un po’ troppo “pulito” e manca di quel feeling apocalittico ed enfasi sciamanica che sono stati uno dei punti di forza del suo compagno. Si resta in attesa, ma non arriva il colpo del K.O. – per usare una metafora della boxe – quello pronto a stenderti definitivamente sul ring/dancefloor, ma resta comunque un disco che si lascia ascoltare con piacere, preservando l’eredità musicale e spirituale di Alan Vega.

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