‘‘io e il generale, così vicini, così lontani’’
luglio quasi agosto duemilaventiquattro
Ho scoperto, solo di recente e non senza disgusto, che l’emblema del patriottismo dei giorni nostri, il generale più – tristemente – famoso d’Italia, riciclatosi in politica con la lega e da poco eletto al Parlamento Europeo, e il sottoscritto, sono stati vicini di casa. Ma non è tutto. Purtroppo. Con buona probabilità abbiamo frequentato le stesse scuole e gli stessi spazi sociali, negli anni che ci hanno portato dai settanta agli ottanta.
Me lo ha confidato mio padre, non più di qualche mese fa. Colti dalla solita, implacabile e fastidiosa noia che ci assale dopo i pasti, quando l’alcool è in circolo ma fatica a far decollare la conversazione, abbiamo dirottato, ancora una volta, i nostri pensieri alienati su quegli esseri umani che riescono sempre e costantemente a dare il peggio di loro stessi. È stato lì, tra i fumi dell’alcool, che ho scoperto che il nostro illustre generale non solo è nato a Spezia come me, ma che ha anche abitato nel mio stesso quartiere.
Ok, è vero, ci sono tre anni di differenza tra noi. Lui del ’68 e io del ’71, ma ciò non annulla in modo definitivo le possibilità di contaminazione tra le nostre esistenze. Per di più, in una realtà popolare e di periferia come la nostra, in cui tutti sapevamo perfettamente tutto di tutti, grazie ad una vita sostanzialmente ”di strada”, il rischio di aver passato insieme del tempo è davvero concreto.
Si parla degli anni settanta, epoca in cui gli spazi a disposizione, i luoghi di aggregazione, al di fuori del proprio comprensorio di residenza, erano pochi e comuni a tutti. Erano anni in cui ci si divideva non solo a seconda del quartiere, ma anche a seconda della via di provenienza all’interno del quartiere stesso, in nome di un campanilismo davvero radicatissimo.
Ci guardavamo quasi in cagnesco, inconsapevoli di essere figli di un dio minore, pronti però a seppellire l’ascia di guerra ogni domenica, quando finivamo per ritrovarci gomito a gomito in curva a tifare per lo Spezia. O, in alternativa, durante le ore passate sui banchi di scuola, territorio dichiaratamente neutrale, ove erano aprioristicamente proibite le diatribe, fossero anche solo verbali. Al tempo, pur non brillando per rendimento, eravamo consapevoli di trovarci in un luogo da rispettare. La scuola, ingrata maestra di vita, era però un qualcosa a cui guardare con rispetto, secondo gli insegnamenti delle nostre famiglie. Per le nostre cose c’erano tempi e luoghi alternativi ai corridoi della scuola.
Tutti coloro che, per i motivi più diversi, erano esclusi da questo contesto, venivano immediatamente catalogati alla voce ”emarginati”. Categoria, a sua volta, suddivisa in due sottogruppi. Emarginati di prima e di seconda classe. Gli appartenenti alla prima erano quelli che venivano resuscitati dal loro invisibile torpore solo nei momenti in cui la noia era talmente opprimente che serviva un diversivo, un qualcosa che ravvivasse le giornate. E quale diversivo poteva esservi che non prendersela con quelli incapaci di reagire a dovere alla nostre idiote provocazioni? In un certo periodo delle nostre vite, anche non volendo, ci si ritrova a far parte del branco. Sono momenti che attraversiamo indistintamente tutti. Momenti di cui, poi, crescendo, non si resta fieri, e che si ricordano malvolentieri. Ma che ci hanno visti tutti, o quasi, protagonisti. A quell’età è difficile, soprattutto se abiti in un quartiere ai limiti come il mio, avere una coscienza di classe che sposti la natura del problema, e ti porti a ragionare in modo critico e difforme. .
Gli emarginati di seconda classe invece, sono quelli messi ancora peggio. Categoria in cui non fatico a inserire il nostro generalissimo. Costoro rappresentavano il gradino sociale più basso, quello fatto da figure che nemmeno in occasione della noia incipiente riuscivano ad avere le luci della ribalta. Nascevano e morivano assolutamente invisibili. Non c’erano cazzi, non li vedevamo proprio. Non c’erano, e basta. Stop.
Credo, stando a tutto quello che sono, nel frattempo riuscito a raccogliere su di lui – a volte la noia fa ancora danni nelle mie giornate – che la possibilità che rientri, a pieno titolo, in questa seconda sottospecie, sia davvero alta, per non dire certa.
Rebocco al tempo era un esempio di edilizia periferica ”ragionata”. Le case popolari, a ridosso delle quali abitavo io, erano solo una manciata, e ben inserite nel contesto sociale, sia da un punto di vista logistico, che di impatto visivo. Quattro piccole palazzine, ognuna di tre piani, per un totale di una cinquantina di nuclei famigliari. Niente a che vedere con le sterminate periferie che si allungavano a partire da via Parma, per me al tempo estremo checkpoint della civilizzazione, in un dedalo di palazzoni e caseggiati molto simili a immensi alveari.
La nostra era una periferia dignitosa, dove, a parte l’eroina, tutto scorreva liscio e tranquillo.
Anche i nostri tossici erano diversi. Forti del fatto che alle spalle del comprensorio delle case popolari si erigeva un collinetta ricchissima di vegetazione, lontana dal via vai delle persone, delle mamme coi bambini, e degli anziani, gli eroinomani scelsero, in modo quasi immediato, il verde pubblico più defilato come luogo deputato alla sperimentazione dei paradisi artificiali. Scelta di tutt’altro tenore, e classe, rispetto agli scantinati umidi che si aprivano sottoterra a ridosso delle cantine condominiali, di cui potevano disporre gli altri quartieri.
In tutto questo, noi ragazzetti eravamo visti come delle risorse. Eravamo in grado di riconoscere a vista chiunque non facesse parte del quartiere, ed eravamo pronti a riferirlo ai più grandi in tempo reale. Come a guardia di un fortino, chiunque si avvicinasse era squadrato a distanza. Non che fosse un compito particolarmente edificante, ma alla nostra età tutto o quasi era visto come un gioco. Fare qualcosa per ”quelli più grandi”, e venire apprezzati per la nostra intraprendenza, rappresentava uno stimolo non da poco, nel nulla delle giornate passate in strada a inventare come far passare il tempo.
In pratica avevamo un archivio visivo impiantato nel cervello, in grado di inquadrare immediatamente chiunque transitasse in via Monfalcone. Oggi di questo archivio non resta moltissimo. La droga ha devastato anche il nostro di cervello, in modo più o meno indiretto. Ma di certo, nei dati a disposizione il generale non compare. Facile quindi pensare – questa volta razionalmente – che lui, figlio di militari in carriera, adottasse stratagemmi alternativi a quelli popolari, per alienarsi dall’angoscia del tempo libero. In altre parole, le cose erano due. O non usciva mai di casa, in nome di una educazione rigidissima, di stampo appunto militaresco. Oppure passava le sue giornate al Circolo Sottufficiali di viale Italia, a ridosso del molo.
È proprio qui, nell’assenza – forzata o voluta non è importante – dai piccoli grandi drammi di strada, che individuo il motivo del suo mancato sviluppo intellettivo. Non conta quanto tu possa aver accresciuto la tua cultura, quanto didascalicamente tu pensi di aver appreso, se poi, però, non sai stare in mezzo alle altre persone, rispettandole e trattandole da pari. Solo chi non ha mai vissuto la vita dando del tu, non solo alla povertà, ma anche all’emarginazione, alle difficoltà in genere, può avere una visione così ottusa del mondo. Rebocco rappresentava una realtà caleidoscopica in cui trovare tutto il campionario delle difficoltà di inserimento sociale. Le diversità rappresentavano la regola e non l’eccezione. Per cui, oggi, rileggendo le sue parole, non posso non essere portato a pensare che se ha vissuto lì, non c’è modo che non abbia toccato con mano queste dinamiche e che non sia stato in grado di trarne i giusti e ovvi insegnamenti. A meno che non sia davvero limitato da un punto di vista intellettivo. E, stando alle sue uscite, più o meno recenti, qualche dubbio in merito confesso di averlo. Anche perché quelle che per molti sono ”provocazioni”, per me sono segnali di incapacità cognitiva. Facile seguire gli stereotipi perché non si è in grado di formulare un pensiero proprio, alternativo, spacciandoli per attacchi al politicamente corretto. Meno facile argomentare con intelligenza le proprie idee. Credo da sempre che – oggi come ieri – nell’attaccare le minoranze non ci sia assolutamente nulla di politicamente scorretto, ma solo dell’idiozia e dell’opportunismo. Resto infatti dell’idea che tutto quello che non si è in grado di capire finisca per spaventare solo quelli che sono, purtroppo per loro, meno dotati a livello cognitivo.
Non fraintendiamoci, non mi sogno nemmeno di raccontare una favola secondo cui Rebocco è stata fucina di personalità geniali. Tutto il contrario, c’era anche un postulato negli anni scorsi secondo cui ‘‘se sei scemo ti mandano a Rebocco, e se ti mandano a Rebocco ma non sei scemo, lo diventi’’. Il fatto è un altro. Saremo stati tutti dei disadattati, dei reietti, o chiamateci come volete, ma nessuno di noi, oggi a distanza di anni, si sogna di fare politica in modo così squallido sulla pelle dei più deboli. La mia è stata una generazione sfortunata, soprattutto, o anzi, quasi esclusivamente, dal punto di vista economico, ma ne siamo usciti con dignità, senza vergognarci dei giorni difficili e delle privazioni con cui abbiamo condito le nostre giornate. Ma proprio per questo nessuno si è mai sognato di avvalorare bieche posizioni filofasciste come le sue. Sempre che siano veramente le sue, e non il tentativo di schierarsi coi ”cattivi” per tornaconto personale.
Che cosa sia oggi Rebocco non lo so. Cerco di passarci il meno possibile, è cambiato tutto e non mi ci ritrovo. È molto più facile viverci, ho visto un quartiere più dinamico, più pulito, più moderno. Ma preferisco ricordarlo com’era, in bianco e nero.
Per quello che riguarda invece il generale, non so. Era il nulla, ma non è cambiato poi di molto.
Date un’occhiata a tutte le confession!
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