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Recensione : The Anomalys – Down the hole

Make rock ‘n’ roll dangerous again. No, non è un endorsement verso quel parruccone fascista di Trump(et) appena rieletto (sigh… del resto gli italiani hanno sempre avuto fiuto nello scegliersi i propri colonizzatori) ma è la missione che anima l’esistenza degli Anomalys, trio di Amsterdam che suona “psychotic, unpredictable and primitive rock ‘n roll” e ha incendiato i club di mezzo mondo da un ventennio a questa parte, arrivando all’Lp di debutto (omonimo) nel 2010.

I tre giovinastri (Bone, già nei Sex organs, alla voce e chitarra; Looch Vibrato alla chitarra; Remy Pablo alla batteria) fanno a meno del basso e quest’anno hanno pubblicato il loro terzo lavoro sulla lunga distanza, “Down the hole“, uscito su Slovenly Recordings (e registrato in Francia, agli Swampland studios, con Lo’Spider) due anni dopo il precedente “Glitch“.

E, come sempre, non fanno prigionieri: dall’opener strumentale “Anxiety” e proseguendo con “Despair” e “Go away” che, già dai titoli, catapultano l’ascoltatore nell’angoscia dei liquami del caos urbano metropolitano odierno, dove il genere umano è sempre di corsa come macchine impazzite, e ansia, burnout psicofisico e depressione sono accettate come condizioni esistenziali “normali” e non più come patologie perché il mondo capitalista non ha più tempo da perdere coi soggetti fragili e vulnerabili e predica la fretta per “ottimizzare” e produrre (e consumare, di conseguenza) freneticamente merci e profitti sempre di più; e l’altro pezzo strumentale, “Flat top“, accentua il senso di paranoia e alienazione che fa scivolare l’individuo e la collettività “giù nel buco” (sia esso quello del rifugio nelle droghe, reali o virtuali, come mezzo per evadere dalla realtà, autodistruggendosi perché ci si annoia facilmente e si vuole provare qualcosa di diverso dalla routine quotidiana, sia il buco nero della ragione che porta ad altre atrocità come le guerre, che sono quasi sempre generate dalla sete di potere e dalla avidità della summenzionata società capitalista); a tutta questa follia, i nostri cercano di rispondere combattendola con un esorcismo sonoro garage/lo-fi, anche se non sembra esserci redenzione né speranza riposta negli esseri umani, come pare confermare il mood schizofrenico senza via di uscita di “On my way” e “Coke head“, e se “Innocence” pare concedere ancora un barlume di luce verso un futuro migliore, la disperazione più buia raggiunge il culmine nella conclusiva “Slaughterhouse“, assolutamente fuori di testa nel suo incedere bipolare, a metà tra una punkavalcata e una melma rallentata di fuzz e distorsione, che scende a spirale in un profondo oblio garage/psych.

In poco più di venti minuti, gli Anomalys sparano fuori otto brani in cui ognuno può dare la sua interpretazione al “buco” del titolo, ma di certo non è musica gioiosa da periodo natalizio e, anzi, sembra essere una sorta di bignami sonico, più efficace di tanti pipponi e papiri interminabili di sociologia/antropologia, che fotografa nitidamente la follia umana infognata in un marciume morale che dilaga nel mondo moderno (soprattutto nel cosiddetto Occidente globalista elitista, dove contano solo il denaro, l’apparenza borghese finto bigotta e l’ingordigia del potere economico/finanziario/militare) e che, lungi dal trovare alternative di pace/giustizia sociale universale, sta trascinando un intero pianeta in un vortice di distruzione. Nessuno ne uscirà vivo da questi solchi.

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