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Recensione : The Dictators – s/t

The Dictators: col loro proto-punk del debut album "Go girl crazy!" e dischi come "Manifest destiny" e "Bloodbrothers", e capeggiati dal frontman Handsome Dick Manitoba, sono stati tra le band che, nella prima metà dei Seventies, hanno inaugurato (e anche chiuso, trent'anni più tardi)

E’ sempre brutto quando avventure musicali e amicizie finiscono per questioni di soldi e beghe legali che fanno separare i membri di una band (soprattutto quando queste sono state seminali per lo sviluppo di un movimento musicale nel rock ‘n’ roll) che poi danno vita a due o più progetti nati dallo stesso background sonoro, purtroppo è sempre accaduto, e la vita va avanti nonostante l’amarezza. Esistono però vicende in cui una reunion, monca di importanti protagonisti di un gruppo, può dare ancora buoni frutti se si hanno idee e cose da dire, e di certo questo è il caso dei newyorchesi Dictators.

La storia è nota: i nostri, col loro proto-punk del debut album “Go girl crazy!” e dischi come “Manifest destiny” e “Bloodbrothers“, e capeggiati dal frontman Handsome Dick Manitoba, sono stati tra le band che, nella prima metà dei Seventies, hanno inaugurato (e anche chiuso, trent’anni più tardi) i concerti di un locale aperto sulla Bowery, a Manhattan, nel malfamato (all’epoca) quartiere del Lower East Side, ossia il mitologico CBGB, che in breve tempo sarebbe diventato il tempio del rinascimento del rock ‘n’ roll più ruspante e degli impulsi artistici più stravaganti, che tra le mura di quel luogo si sarebbe sublimato nella nascita della prima scena ufficialmente etichettata come “punk” (ma, in realtà, multidimensionale) che, oltre a ospitare i Dictators, annoverava band diverse tra loro come sonorità proposte, ma accomunate da una urgenza espressiva, senza fronzoli, e una spiccata attitudine diretta e senza compromessi (Ramones, Dead Boys, Johnny Thunders and the Heartbreakers, Suicide, Wayne County, Richard Hell and the Voidoids, Talking Heads, Blondie, Patti Smith Group, Television e altri) volta ad epurare il rock ‘n’ roll dal superfluo e dai pomposi barocchismi che avevano caratterizzato la scena progressive rock e il divismo dello star system musicale.

Arrivando ai giorni nostri: nel maggio 2020 il bassista, songwriter e producer Andy Shernoff, colui che ha fondato il combo nel lontano 1972, annunciò la reunion della storica formazione proto-punk, che aveva in cantiere la lavorazione a nuovo Lp (e possibili date live) insieme all’altro membro fondatore e chitarrista Ross “the boss” Friedman, in una line up che vede anche il batterista Albert Bouchard e il vocalist Keith Roth, e quindi senza il frontman originario Handsome Dick Manitoba, che nel frattempo aveva formato i “suoi” Dictators (con, in aggiunta, NYC) che, dopo una iniziale riluttanza, ha dovuto concedere agli ex compagni i diritti per sbloccare le royalties, sancendo così l’inizio di questa nuova incarnazione.

Gli ex membri Stuart ‘Stu Boy’ King (batterista originario), Richard Teeter (batteria) e Scott “Top Ten” Kempner (chitarra) intanto sono passati a miglior vita e non hanno visto concretizzarsi la realizzazione di questo sesto album complessivo dei veri Dictators, omonimo, uscito nel settembre di quest’anno sulla label DEKO. Ma guai a chiamarli anziani, perchè i Dittatori sanno ancora scrivere canzoni convincenti di solido e graffiante rock ‘n’ roll come la Shernoffiana “Let’s Get The Band Back Together”, non a caso posta come opener dal titolo simbolico, o “My imaginary friend” (che percula i cospirazionisti e chi vede “gombloddi” ovunque) le granitiche “Scared cow“, “All about you” e “Wicked cool disguise” e, tra un anthem hard rock – “God damn New York” – dichiarazione dolce/amara d’affetto per la Grande Mela, che si lascia andare a una critica sociale in ricordo di tempi più selvaggi, oggi soffocati dalla gentrificazione scientifica della metropoli statunitense, voluta dall’establishment – e un omaggio a Joey Ramone nella conclusiva “Sweet Joey” (che non è il solo aspetto Ramonesiano, in quanto l’album è stato prodotto da Ed Stasium, ovvero lo storico collaboratore che ha elaborato il suono di tanti dischi dei Fast Four) c’è spazio anche per una cover rienergizzata di “Transmaniacon MC” dei Blue Öyster Cult (ensemble in cui ha suonato Bouchard, e con cui i Dictators hanno condiviso diversi palchi nei Seventies). Non mancano anche momenti più melodici (come in “Really good“) o liriche taglienti: “It’s such a stupid time to be alive“, cantano i Dictators in “Thank you and have a nice day“, e come dargli torto?

Now the oligarchs shop for bling where the junkies used to sing/Tech titans in limousines, a million lawyers, a million schemes/Every street looks the same, ‘cause every business is a chain/Politicians fall in line ‘cause every fortune hides a crime/Someday a rain will come and wash away all this scum“, si augura la band, un po’ alla stregua del Travis Bickle di “Taxi driver” (e “Red Angel Dragnet“) e se un giorno arriverà mai questa “pioggia purificatrice”, speriamo che ci siano ancora i Dictators a guidare il Rinascimento del rock ‘n’ roll e indicare la via ai party boys (and girls) per fare ancora tanto casino.

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