Trovo che il concerto di ieri sera dei canadesi Godspeed You Black Emperor a Vicenza non si presti granché a commenti, e men che meno ad osservazioni artistiche, estetiche e tecniche, quanto piuttosto sia una potenziale sorgente di riflessioni. La cosa è singolare, dal momento che il gruppo è notoriamente schivo e correda le proprie uscite discografiche di comunicati assai scarni, ma il fatto che non introduca le proprie composizioni prima di eseguirle sul palco non implica che non ne offra delle chiavi di lettura.
Mi soffermerei, anzi, sul fatto che il silenzio (al pari della dinamica) costituisca una parte ingombrante all’interno dell’opera complessiva del gruppo. Altra osservazione: pur non offrendo collegamenti filosofici espliciti o didascalie, la musica del gruppo ispira un forte senso di appartenenza. Dei sette/otto a cui ho assistito in questi anni, quello di ieri sera a Vicenza è stato il loro concerto più morbido e appassionato. Potrebbe essere per una parte responsabile l’acustica del teatro, davvero notevole: non c’è stato bisogno di amplificazione se non della strumentazione base di palco, e dalla platea si sono potute cogliere sfumature sottili e definitissime (una su tutte l’attrito leggero dei crini dell’archetto sulle corde del contrabbasso di Thierry Amar, roba da brividi).
La serata si piazza a metà del tour europeo della primavera di quest’anno, tre settimane piene con due soli day off, e anche questo potrebbe influire sulla fluidità complessiva della corrente sonora che i sette irradiano dal palco – quella della set list di stasera è paragonabile all’energia di un acquazzone tardo estivo di due ore. Viene proposto il loro ultimo lavoro uscito l’ottobre scorso: mancano le parole nel senso che non ci sono testi (a parte un breve intervento registrato) ma questo è un silenzio che fa rumore, che pesa e schiaccia l’anima, e che continua a protestare, a divincolarsi, a urlare, a denunciare, a sperare. Pioggia dura che cade, e tutt’intorno un buio implacabile strappato solo da quella scritta proiettata sullo sfondo, speranza, graffiata via dal nero, attraverso cui si riversano in sala lampi improvvisi di luce bianca.
Marco Pandin – stella_nera@tin.it