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Offensiva di primavera

Offensiva di primavera: esplora il nostro rapporto conflittuale con la tecnologia e come influisca sul nostro sviluppo cognitivo e sociale. Scopri di più!

Crediamo di non inventare niente, nel momento in cui apriamo questa nostra prima confessione di primavera, con la facile, e crediamo condivisibile, considerazione che il nostro rapporto con la tecnologia diventa ogni giorno sempre più difficile da gestire.

Nessuno dovrebbe stupirsi, o, ancor peggio, offendersi.

A noi però piace andare oltre. Per cui rilanciamo, aggiungendo che, a nostro avviso, questo rapporto conflittuale sia da considerarsi come uno di quei fattori che più stia negativamente incidendo sul nostro sviluppo cognitivo, sociale e culturale.

Nel momento in cui, una parte di chi legge, si sente istintivamente chiamata in causa, e, come strumento di difesa sta scegliendo tra la negazione e l’abbandono della lettura, il nostro incipit vuole essere la chiave di volta per guardare (e guardarci) con onestà intellettuale.

Mentire è la strada più facile. E immediata. Non siamo qui per accusare nessuno, ma solo per chiedere di approcciare il problema evitando di sottostimarlo, come abbiamo, probabilmente fatto finora. È capitato, capita e capiterà ancora, a tutti quanti noi, di mentire nel momento in cui ci viene chiesto quanto tempo restiamo connessi sui nostri dispositivi mobili. Così come accade che, quando ci si senta attaccati, si sia portati a negare la portata del problema.

Anche se la “dipendenza da internet” non viene citata nei testi sacri dove si trattano le problematiche legate alla sanità mentale, vale a dire il DSM-5 (Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali 5th revision) e l’ICD 11 (International Classification of Diseases 11th Revision), ciò non significa che non esista, e che non si stia velocemente diffondendo.

Del resto, possiamo negarlo quanto vogliamo, ma la sintomatologia, riassumibile nei tre quadri sottostanti, parla chiarissimo.

  • costante preoccupazione di non essere in grado di connetterci in ogni istante, che vede nella spasmodica attesa del momento in cui potremmo finalmente tornare online, l’unica via per ridurre l’ansia.
  • aumento del tempo che passiamo connessi, con conseguente incapacità di ridurlo e totale indifferenza e insofferenza verso tutto ciò che non ci interessa visualizzare (in pratica è come se quello che non visualizziamo non esistesse)
  • crescita esponenziale del nostro isolamento sociale, a cui preferiamo la costruzione di rapporti fittizi, online, con soggetti che, per assurdo potrebbero anche non esistere.

Il quadro è di estrema gravità. E si accentua nel momento in cui emerge come il fenomeno non sia da associare esclusivamente alle nuove generazioni, ai “nativi digitali”, ma vada allargato a fasce di età antecedenti la digitalizzazione di massa. Compresa la nostra.

Guardiamoci allo specchio, con sincerità. Siamo costantemente con le mani, ma soprattutto gli occhi e la testa, sugli smartphone, in attesa di quelle notifiche che possano finalmente placare l’ansia che ci attanaglia. Si tratta di una serie di gesti che ormai possiamo considerare come automatici, e che poniamo in essere in modo quasi meccanico, senza starci a pensare. Ma soprattutto, a qualunque ora e in qualunque circostanza o contesto sociale/lavorativo.

Non ho mai amato rifarmi alla cultura statunitense. Ma dobbiamo convenire che, in questo caso, un buon modo per riassumere il tutto, sia considerare come veritiera quella che chiamano FOMO (Fear of Missing Out). La paura inconscia di restare disconnessi, dalla rete, dagli eventi, da tutto quello di cui pensiamo di aver bisogno per star bene. Una dipendenza a tutti gli effetti, che negli USA è esplosa, ma che si sta diffondendo nel resto del pianeta, con un impatto che, per quanto si voglia minimizzare, cercando così di chiamarcene fuori, è assimilabile a quello della dipendenza da sostanze stupefacenti.

Sì, siamo dei tossici, prima ce ne rendiamo conto e meglio sarà.

Un punto fondamentale, su cui ci piace ragionare, nell’utopica ricerca di contromisure, è quello che ruota intorno alle conseguenze della nostra stasi produttiva. Restando quasi costantemente connessi anche sul posto di lavoro, abbiamo determinato un rallentamento, se non un arresto del processo produttivo impostoci dal nostro ruolo. Fin qui, niente da obiettare, normale rapporto tra causa ed effetto. Quello però che avrebbe dovuto essere un punto di svolta non è stato colto.

In un mondo che guarda alla produttività come strada maestra, in cui occorre sempre essere al massimo, in cui le performance richiesteci devono sempre ambire a livelli di standard eccelsi, la carenza di produttività avrebbe dovuto essere vista come un atto politico, di rivolta, una ribellione allo stato delle cose. Anzi, forse, non ci siamo neanche resi conto della potenzialità della situazione, che avrebbe realmente potuto determinare una reazione a catena. È come sempre la coscienza di classe che abbiamo archiviato in un cloud nell’etere la carenza sostanziale che influenza negativamente il nostro agire. Avremmo potuto (pensare di) sabotare il sistema che ci vuole mentalmente piatti, senzienti e non pensanti. Ma è andata diversamente. E oggi è forse troppo tardi per provare a rimediare.

Siamo ormai preda di quelli che per certi versi possiamo considerare come Bias Cognitivi, e che identifichiamo come errate percezioni della realtà. Tra le tante ci vengono in mente sovrastima delle nostre capacità cognitive e delle nostre competenze tecniche in materia, sovradimensionamento delle nostre idee rispetto agli altri, ipertrofia del nostro ego. Giusto per citare le prime e più diffuse.

Non siamo quindi più in grado di discernere tra che cosa sia reale e che cosa non lo sia. Ci siamo confinati in un limbo in cui pensiamo di poter applicare le regole della vita reale alle dinamiche interne ai social network. Non ci rendiamo conto che sono due cose distanti, differenti, inconciliabili, e che questo sia l’ennesimo sintomo di un disordine mentale.

In particolare l’uso smodato dei Social Network assume un ruolo preponderante nell’Internet Addiction Disorder ci ha condizionato al punto che non siamo disposti a disconnetterci dalla rete nemmeno quando andiamo a letto, quando dovremmo concentrarci esclusivamente sul riposo, fisico e mentale. Nel momento in cui le notifiche si affacciano nella notte, illuminando il comodino dove abbiamo riposto il cellulare, non perdiamo tempo e scattiamo a vedere di che cosa si tratta, come se la sorte del mondo intero dipendesse da noi e dalla velocità con cui visualizziamo. Se non sono segni di dipendenza questi, non sappiamo più veramente che dire. In pratica cerchiamo di ridurre l’ansia attraverso l’unico meccanismo che contribuisce ad accrescerla. La continua attivazione del cervello, anche in fasi di mancata veglia, come la notte, aumenta il livello del Cortisolo (ormone dello stress che causa aumento di ansia, irritabilità, dolori, insonnia, stanchezza cronica e assuefazione alle tossicità) nel sangue, con la conseguenza che, alla lunga, il cervello a forza di questa contrastante e ripetutamente ravvicinata interazione bidirezionale, finirà per “scaricarsi”.

Lo abbiamo già detto anche in passato. I Social Network non sono la fuga dalla realtà che ci opprime. Non è online che possiamo trovare quelle contromisure che ci permettano di allentare la tensione, anzi, così facendo alimentiamo il circolo vizioso, immergendoci in dinamiche da cui poi non siamo in grado di distaccarci. Siamo pesci caduti nella rete grazie ad algoritmi che modellano le nostre emozioni proponendoci esattamente quello che abbiamo (di)mostrato di apprezzare. Online non ci si muove a caso, per tentativi ed errori, ma seguendo percorsi personalizzati appositamente studiati per noi, e per renderci schiavi. Si tratta di un percorso che guarda alla gratificazione immediata rispetto ad ogni nostra necessità, vera o presunta che sia, reale o indotta, attraverso un meccanismo dopaminergico innegabile che si caratterizza per il suo carattere esponenziale.

Se il problema è la dipendenza, cosa di cui siamo certi, e che vediamo ulteriormente evidenziata dal primo meccanismo di difesa che siamo soliti porre in atto, vale a dire la negazione, crediamo che si debba partire, per cercare di ristabilire un ordine delle cose eticamente tollerabile, dall’educazione all’uso dello smartphone e di tutti i dispositivi mobili. In modo che la Fear of missing out si trasformi in Necessity of missing out.

Vale la pena, in chiusura, ricordare come nel documentario “The Social Dilemma” di Jeff Orlowski, in cui si affrontava la denuncia sociale sulla dipendenza che generano le app inventate al fine di sfruttare le nostre vulnerabilità psicologiche, e renderci così dipendenti da internet, una delle frasi che più colpirono fu quella che sentenziava come fossero “soltanto due industrie che chiamano i loro clienti User, e cioè quella delle droghe illegali e quella dei software”. L’utilizzo compulsivo dei Social Network da un punto di vista comportamentale ricalca in modo impressionante il rapporto dei tossicodipendenti con le sostanze stupefacenti.

Siamo stati trasformati in un prodotto da vendere online.

Per cui dobbiamo quanto più a lungo possibile restare online, in modo da essere preda degli attacchi di tutti gli squali che ci gravitano attorno. Il mercato è cambiato. Online noi pensiamo di essere gli acquirenti mentre in realtà siamo la merce che viene venduta. Siamo le vittime di un quadro più grande, che spesso non riusciamo a inquadrare. Veniamo profilati proprio per questo motivo. Diventare carne da macello. E ancora una volta Orlowski centra perfettamente il punto quando afferma che “se il prodotto non si paga, vuol dire che il prodotto sei tu”.

Ed è qui, che ci poniamo la domanda più importante in merito: la dipendenza da Social Network (o allargando il discorso, da internet) è un sintomo o una causa? Domanda che riformulata meglio potrebbe suonare come: l’Internet Addiction Disorder è la causa dei nostri mali, o la conseguenza di altro tipo di disturbi psicologici? La risposta non è per nulla scontata. Di certo c’è soltanto che l’iperconnessione, con lo sdoppiamento della nostra personalità, e la nascita di un nostro “gemello” virtuale che opera esclusivamente online, non può che condizionare il nostro sviluppo intellettivo, determinando un ritardo che prima o poi si renderà manifesto, che lo si voglia accettare o meno.

 

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