Eccoci nuovamente di fronte all’eterno dilemma : cosa pensare di una band che, nel realizzare un disco, si rifà in maniera oltremodo evidente a qualcun’altro che ha lasciato un’impronta profonda nella scena musicale contemporanea?
Se da una parte, i fan dell’oggetto di tanta devozione potrebbero trovare un lato positivo in tutto questo, dall’altra è probabile che l’originalità del lavoro che si andrà a commentare sarà molto vicina allo zero.
Come sovente accade, la verità si colloca nel mezzo, specie se i devoti, nello specifico i russi Alley, svolgono il loro compito con la necessaria competenza e la band-icona, che risponde al nome di Opeth, viene omaggiata riproponendo le sonorità che ne hanno fatto la fortuna all’inizio del secolo (epoca “Blackwater Park” – “Deliverance”, per intenderci).
Appare evidente, quindi, che da Amphibious bisogna attendersi brani molto lunghi e altrettanto intricati, all’insegna di un progressive death vario ma, spesso, inevitabilmente dispersivo e che solo a tratti riesce realmente ad avvicinare i livelli della band di Mikael Akerfeldt.
A proposito dell’eccessiva estensione delle tracce, probabilmente una maggiore sintesi avrebbe giovato aumentando l’efficacia complessiva del lavoro: infatti, gli ottimi spunti presenti in ogni singolo brano, finiscono spesso per essere fagocitati dalla sequela di cambi di tempo, di alternanza tra clean vocals e growl, che seguono il modello originale in maniera piuttosto fedele senza però possederne la necessaria profondità.
Così, al termine della title-track, terzo brano in ordine cronologico (sicuramente il migliore del lotto) sono già trascorsi quaranta minuti di musica impegnativa per l’ascolto e ci attendono ancora altrettante tracce, più o meno con un simile minutaggio, prima d’arrivare al termine del disco.
Il fulcro della questione sta proprio nell’oggettiva impossibilità di riprodurre con la stessa efficacia un modello compositivo così peculiare, che trova la sua ragione d’essere solo nella forma originale e, al tirare delle somme, è proprio questo che penalizza in maniera determinate l’operato, anche apprezzabile , degli Alley: se nei primi Opeth (gli ultimi, ordinari episodi li tralascerei) la genialità compensava alla grande la difficile assimilazione della musica, lo stesso inevitabilmente non può verificarsi con gli epigoni, per quanto dotati.
Il giudizio finale va abbondantemente oltre la sufficienza proprio perché la band originaria di Krasnoyarsk è ben lungi dall’essere una banale cover band e lo sforzo compositivo fornisce comunque un risultato che merita d’essere preso in considerazione; è altrettanto evidente, però, che un salto di qualità potrà verificarsi solo liberandosi, anche parzialmente, dell’ingombrante paragone con la creatura di Akerfeldt.
Tracklist :
1. Lighthouse
2. Weather Report
3. Amphibious
4. Skulls & Bones
5. Time Signal
6. Washed Away
Line-up :
Sergey Lednikov – Bass
Egor Moskvichev – Guitars
Valery Kuzmin – Drums