La sesta edizione di Frequenze Disturbate ha inizio nel tiepido tardo pomeriggiodel primo venerdi di agosto.Essendo un neofita di questo festival, rimango innanzitutto colpito dalla location:un prato che si distende su tutta la superficie del cortile interno della Fortezza Albornozsituata nel cuore del borgo antico del paese, alberelli di mele e pere ai lati del palco,dai quali chiunque ha attinto voracemente ( tra i vari soundcheck pomeridiani, il sabato sia Erlend Oye, che Chan Marshall si sono dilettati in prolungate degustazioni frutticole!!) e un’ atmosfera generale molto rilassata e a misura d’ uomo, rara cosa da trovare in giro per i festival.
Di contorno al tutto anche varie bancarelle, da quella del negozio musicale Tasti Neri( ottimo sia per qualità, che per varietà del catalogo), a diversi stand alimentari ( crepes, birre, panini), dalla vendita di accessori etnici, a quella di abbigliamento vintage e usato.Unica grande pecca, da questo punto di vista, la consistente limitatezza del merchandising, con gadgets e magliette di solamente due o tre gruppi presenti alla tre giorni di concerti.Venerdi 4 agosto.Arrivo leggermente in ritardo con la mia compagna di lavoro Nuvola ( principale artefice delle fotografie del festival) alla Fortezza, causa il traffico stradale che ci ha tormentato per la maggior parte del viaggio, durante l’ esecuzione dell’ ultimo pezzo dei Montecristo.Dalla brevità di tempo che ho avuto a disposizione per valutare il gruppo che ispira il proprio nome al seguito de “ i Tre Moschettieri” di Dumas, non me la sento di dire molto,tranne che il loro è un rock ‘n’ roll bello spedito e “ sporco”, niente a che vedere con i soliti gruppi contemporanei che attingono da questo genere con una verve totalmente estranea ad esso e troppo ripulita.Una ventina di minuti di pausa ed ecco sul palco gli schizzoidi Forward Russia,combo iperadrenalinico tutto birra e sudore.Fanno davvero divertire, buone canzoni, grande spettacolo ( che culmina con rotolamenti oltre transenna del frontman) e bel vedersi.La voce di Tom è davvero potente, a tratti vicina a quella di Kele Okereke dei Block Party e non viene mai compromessa dalla convulsa e sclerata danza che anima tutto lo show, mentre il resto della band fila dritta e convinta fino alla fine dei quaranta minuti a loro disposizione.Tempo di una birra e un panino e col crepuscolo attaccano i Calla.Il trio guidato da Aurelio Valle combina un set che principalmente è formato da brani provenienti dagli ultimi due album, “Televise” e “Collisions”.Dimostrano di avere un suono quadrato e convinto, colorito dalla presenza scazzata di Valle, molto dandy, che visivamente aiuta non poco la performance del gruppo, così come la penombra che accompagna gli americani durante l’ intera prestazione. Bravi.Purtroppo, la mia continua ricerca di obiettività, va a farsi benedire con l’ ingresso in scena degli Afterhours.Mi spiace, ma non riesco a parlare bene di questo gruppo, se non per l’ effetto che ha sul pubblico, che come spesso mi è capitato di notare ai loro concerti, era in visibilio e cantava in massa le liriche delle canzoni, emozionandosi tantissimo.Agnelli e soci, comunque in buona forma ( oggettiva), fanno brani solo in italiano tralasciando l’ album “reloaded” di “ Ballate per la mia piccola Iena”.Ma sono davvero troppo modaioli/milanesi nell’ approccio, supponenti e pieni di loro stessi per essere presi sul serio. Egopatici all’ ennesima potenza.La prima serata volge quindi al termine, tra buoni propositi per il giorno a venire e buoni ricordi di quello già vissuto.Sabato 5 agosto.Dopo un pomeriggio passato tra bighellonaggi vari in quel di Urbino e alcuni momenti passati in loco al Frequenze Disturbate a curiosare tra le prove varie dei gruppi ( oltre a prendermi un po’ di fresco sotto i già decantati alberi), giunge la sera.A sorpresa, apre le danze tale Ramona Cordova, un ragazzotto del quale mai prima avevo sentito fare il nome.A dire il vero neppure ero a conoscenza della sua partecipazione al festival, scoprendo all’ ultimo istante la sua presenza, ma al di la di tutto, la sua esecuzione mi convince a pieno.Suona poco, una mezz’oretta che passa in un attimo.Il cantautore si fa ben volere, sorride e comunica con gli spettatori, li delizia con dolci arpeggi di chitarra classica fusi con armonie vocali di distinto livello. Profondo.Dopo poco, è il momento degli “ storici” Rother & Moebius, duo dedito ad un agglomerato sonoro in bilico tra techno e progressive.Suonano avvalendosi di un set-up formato da una chitarra, un lap-top e macchinari vari.La loro esibizione non si può dire malvagia, ma balza all’ orecchio l’ abisso concettuale che separa la loro generazione elettronica da quella attuale.I suoni sintetici e davvero troppo digitali; gli effetti sfruttati dalla chitarra infatti arrivavano direttamente dal computer: freddi, implodenti; le digressioni tra un frangente più “battuto” ed uno più di ambiente troppo dispersive: ammirevoli per gli intenti di oggi e la memoria collettiva che hanno generato dal passato, ma purtroppo tanto distanti ( per lo meno dal sottoscritto).Passata la canonica ventina di minuti per il cambio palco, on stage ci sono The Veils.Non nascondo che tra le varie band presenti i Veils erano una di quelle che suscitava in me l’ interesse maggiore, perchè dopo aver consumato l’ esordio “The Runaway Found” del 2004, non ho mai avuto la chance di vedere cosa questi bei figlioli facessero dal vivo.Dopo aver rischiato di perdere la fidanzata totalmente “ partita” per Finn ( voce e chitarra dei Veils, nonchè figlio di Barry Andrews tastierista degli XTC), inizio ad immergermi nell’ ascolto dei pezzi che propongono.Suonano bene. E’ la prima impressione che mi sovviene.Mi rendo conto che quello in questione è un gruppo maturo e preciso, capace di giostrarsi il palco molto bene.La formazione dai tempi del disco di debutto è cambiata totalmente, Andrews a parte,e il sound risulta più avvolgente e caldo.The Veils propongono non solo pezzi dell’ unico disco uscito finora, ma distribuiscono pureuna discreta quantità di brani che andranno a far parte della prossima uscita“ Nux Vomica” ( prevista a fine estate), sensibilmente diversi dalle composizioni precedenti, che accentuano una enfasi vicina ai Bad Seeds di Nick Cave e che avvicinanoper metodologie di espressione, la voce del cantante addirittura a certe frequenze inerenti a Jeff Buckley. Posa in certi spezzoni troppo bohemienne ed eccessiva forse, che offusca parzialmente la qualità del concerto, ma a parte questo, notevoli.Tempo di cambiare pellicole e recuperare da bere e The Whitest Boy Alive stanno cominciando.Sono in parte quello che mi aspettavo ed in parte no.Sapevo che Erlend Oye aveva ormai “ strumentalizzato” il progetto elettronico di partenza,ma non mi aspettavo un live totalmente analogico con band vera e propria, come quello al quale ho assistito.Lo show è un danzereccio prodotto al quale sarebbe potuto assistere mia madre in un dancefloor nei primi ’80.Rigorose ritmiche in levare che si intersecano con melodie schiettamente riconducibili alla dance a cavallo tra gli anni settanta e la decade successiva. Nerd-Funk-House?Boh, trovare una descrizione più adeguata mi risulta complicato.Capaci di gestirsi in maniera ottima, cadono di stile in certi momenti per il troppo accademismo. Comunque capaci. Molto.Ormai non sono più reale parte dell’ evento perchè fremo all’ idea di assistere al live di Cat Power.Me l’ aspetto accompagnata da una band in carne ed ossa ed invece l’ istrionica Charlyn Marshall si presenta sul palco in compagnia della sola borraccia fuxia e nera ( a dir poco invidiabile per kitcheria e spavalderia).Parte seduta al pianoforte.Poi imbraccia la sua inseparabile Dan Electro.Suona e parla, strimpella e canta, spezza le canzoni e le cambia, le riprende e le svuota.Disorienta gli ascoltatori come pochi altri artisti sono in grado di fare.Tra ripetuti “ I’m sorry” e “ Fuck it!”, costituisce un concerto intenso, in bilico solo a momenti causa alcuni fischi di certi presenti ( che a parte il pessimo gusto a mio parere, non me la sento di mazziare, in quanto il live “tipo”, in ottica professionale, non può prendere in esempio quello di Cat Power come modello), ma che si erige senza se ne ma altrove, rapendo gli animi dei presenti ineluttabilmente,infrangendo schegge di poesia nei cuori altrui.La dolcezza con la quale la cantautrice riesce a trasmettere quel po’ di se che elargisce nelle sue canzoni è struggente e supera i limitidell’ emotività. Senza parole.Domenica 6 agosto.Arriva quindi la giornata conclusiva, che vede i Non Voglio Che Clara aprire i battenti.Purtroppo li perdiamo, perchè dopo aver avuto la brillante idea di infilarci in un ristorantevicinissimo al concerto per cenare, appena dopo aver ordinato, entrano nel locale circa una ventina di persone che hanno una prenotazione urgente.L’ allegra compagnia in questione è composta dai Tunng e dai We Are Scientists, con annessi tecnici, roadie e fonici.Ovviamente le direttive del titolare alla cucina è categorica: prima gli artisti, poi gli altri,senza guardare in faccia nessuno.Ricostruisco quindi il live di questa valida band italiana grazie a Rocco Spigno, bassista degli En Roco, che mi racconta di un live molto buono, corredato da una formazione di archi a sostegno del gruppo.Ecco dunque i Tunng, che dopo averli visti pasteggiare allegramente, li trovo sul palco a costituire un’ avvolgente atmosfera, con chitarre classica e chitarra acustica, con melodica e laptop a divulgare le basi elettroniche, e dove le voci si alternano e si sovrappongono con immacolato candore.Ottima impressione per questa band folk-tronica proveniente da Londra, che in totale informalità, scherza pure sul temporale abbattutosi su Urbino durante la loro esibizione, auto-accusandosi di aver portato in valigia, insieme ai vari strumenti, pure le condizioni metereologiche dall’ oltremanica. Calorosi.Finiscono i Tunng ed iniziano i We Are Scientist.Loro purtroppo, non sono quello che speravo: si rivelano un trio di persone che sembrano capitate sul palco per caso, incompetenti, snob e troppo star.Il probabile inaspettato successo del loro album di esordio li ha spinti laddove neppure loro stessi avrebbero immaginato e il “tiro” di esso, va a farsi benedire.L’ impressione è stata di vedere un gruppetto di bellocci e privi di esperienza, dediti ad escogitare stratagemmi per far defluire il tempo dedicatogli dagli organizzatori.Su disco 7. Dal vivo 4–.Senza contare che il gruppo in questione è stato l’unico ad avere un roadie di gruppo, purtroppo per lui unico, che si è accollato l’ incombenza di preparare la scena ai WAS e sprepararla, quasi schiavizzato, dovendo rispettare i tempi del cambio palco, premurandosi pure di stappare le birre alla band. Spero per lui che sia ben remunerato.Dopo questo evitabile episodio, gioisco vedendo Aidan Moffat degli Arab Strap salire sul palco in compagnia di una scatola di sproporzionate dimensioni contenente le birre da consumare durante il set.Sono ormai lontani i momenti minimali di “Philophobia” e di “ Elephant Shoe”, il gruppo è ormai gruppo nel senso più rock del termine, ma la compagine scozzese riesce ad essere davvero capace di proporre forse il miglior live del festival.E’ un piacere vederli suonare, Malcom Middleton continua ad essere un chitarrista encomiabile, il resto del gruppo un meccanismo in perfetta coesione ed Aidan il frontman per eccellenza: con la media di una birra a canzone, di una fuga in bagno a metà concerto per evacuare i liquidi in eccesso nel suo corpo, catalizza su se stesso l’ attenzione, anche senza volerlo, di tutti i presenti senza appello.Racconta le sue storie miste di sesso e sbronze degno di Charles Bukovski, distaccato ma coinvolto, ermetico ma eloquente.Gli Arab Strap, oso dire siano una delle più emozionanti realtà nel panorama indie mondiale.Torniamo a casa, provati ma felici, con le parole di Moffat che a me ancora rimbalzano nello stomaco.