L’I – day festival 2010 giunge alla sua decima edizione e festeggia l’evento presentando al suo pubblico un cast d’eccezione nella prima serata di spettacoli, giovedì 2 settembre. La scaletta prevede l’alternarsi degli attesissimi canadesi Arcade Fire, dei veterani dell’indie rock Modest Mouse, oltre che gli svedesi Fanfarlo, i Chapel Club e i Joycut.
Purtroppo l’atmosfera all’arrivo del parco nord è a dir poco disarmante: nessuno capisce dove sia l’entrata (si deve infatti attraversare la tangenziale di corsa, fare una passeggiata attraverso enormi stand che poi si scopriranno della festa dell’Unità), e, piatto forte, all’arrivo si viene accolti da una barriera di forze di polizia francamente inspiegabile per questo tipo di eventi. Le ho contate, le tre camionette blindate e i due fuoristrada. I poliziotti invece sono decine, alcuni tengono i manganelli per mano. Gli italiani come al solito appaiono indifferenti, gli stranieri si guardano sbalorditi. Bisognerebbe ricordare al prefetto che un festival è prima di tutto una festa della città e della gente, e che all’interno l’ordine dovrebbe essere garantito dagli addetti alla sicurezza, non dalle forze di polizia. Ma meglio pensare alla musica, onde evitare di rovinarsi il fegato anzitempo.
Alle cinque di pomeriggio i nostrani Joycut attaccano a suonare seguiti dai Chapel Club. Per loro sfortuna l’arena è deserta, se non fosse per le poche decine di fedelissimi che già presidiano la zona antistante le transenne. Lo spettacolo non è dei più intensi, ma fortunatamente inizia a migliorare nel tardo pomeriggio, quando sul palco salgono i Fanfarlo, band indie pop che mescola delicate atmosfere folk ad una sezione ritmica che strizza l’occhio ai Talking Heads, comunque dando la sensazione di non restituire dal vivo quanto ascoltato su album. Forse un po’ ripetitivi, decisamente intimoriti dalla grandezza del palco, potrebbero rendere molto di più in un piccolo club che valorizzi l’intimità di alcune soluzioni, in particolare l’esemplare uso di viola, mandolino e clarinetto.
Alle 19 fanno il loro ingresso i Modest Mouse, che dopo due brani letteralmente devastati da problemi tecnici (nessun volume nelle voci e nel basso), riprendono in mano il palco anche grazie alla scelta di sfiorare gli ultimi due lavori da studio privilegiando alcuni brani storici, come le riuscitissime “Third Planet” e “Paper Thin Walls”. Se l’uso della doppia batteria appare superfluo, è sicuramente la personalità del cantante / chitarrista Isaac Brock a mettere i brividi. Un vero animale da palco, che sopperisce alle lacune in fatto di estensione vocale con un cantato tagliente e isterico, quasi teatrale, che culmina nella più famosa “”Float On”. Il pubblico apprezza, ma è chiaro a tutti che il momento più atteso della serata deve ancora arrivare. Sono esattamente le 21.30 quando Win Butler, fratello, moglie e soci si presentano sul palco dell’arena parco nord.
La sensazione che perdura in tutta la durata dello spettacolo, circa novanta minuti, è quella di trovarsi davanti a qualcosa di unico, in ragione soprattutto della coesione ed energia che gli otto canadesi riescono a trasmettere nella loro esibizione. Otto polistrumentisti che si alternano in un fluire di vecchi congegni a manovella, Hammond, xilofoni e violini, un Win Butler ispiratissimo quanto impeccabile in ogni esecuzione, una meravigliosa Régine Chassagne, vestita da sposa, che si divide tra moog, batteria, fisarmonica ed un infantile cantato che ricorda tanto Bjork. I pezzi meno recenti non sono rivisitati, alcune soluzioni sono forse prevedibili e già conosciute da chi macina video su youtube (lo split “Haiti”/ “Neighborhood #3” e la chiusura con “Wake Up”), ed è forse l’impatto live dell’album appena dato alle stampe che stupisce ancora di più, con la title-track “The Suburbs”, la catartica “Modern Man,” e l’iniziale “Ready to Start” su tutte. La scaletta è perfetta anche perché con tre dischi di tale fattura sbagliare concerto sarebbe ardua impresa. Una vertiginosa “Keep the Car Running” precede “Rebellion (Lies)”, il manifesto “No Cars Go” fa esplodere il pubblico, appena prima della toccante, deliziosa “We Used to Wait”.
Win Butler assicura che tornerà, ma la sensazione che essere stati presenti, per citare Norman Cook, “right here, right now”, sia sembrata una benedizione a molti degli ottomila astanti presenti nell’arena. Gli Arcade Fire sono uno dei migliori gruppi rock in circolazione, non c’era bisogno di scomodare Bono Vox o David Bowie per capirlo. E’ bastato aprire le orecchie e chiudere gli occhi davanti ad un’alchimia musicale a tratti inspiegabile, mai banale, mai stucchevole, un incantesimo degno dei migliori live degli ultimi anni. Anche le forze dell’ordine, alla mia uscita, avevano capito che era il caso di riporre i manganelli.
Arcade Fire
(2 settembre 2010, Bologna)
• Ready to Start
• Month of May
• Neighborhood #1 (Tunnels)
• Crown of Love
• Sprawl II
• The Suburbs
• Suburban War
• Intervention
• Modern Man
• No Cars Go
• Haïti
• We Used to Wait
• Neighborhood #3 (Power Out)
• Rebellion (Lies)
• Keep the Car Running
• Wake Up