Sono tornati gli Strokes! Dopo un non propriamente indimenticabile terzo album (“Room on fire”), una pausa di riflessione durata qualche anno e un conseguente debutto da solista del frontman Julian Casablancas (“Phrazes for the young”) torna la band che, nel bene o nel male, ha collaborato a scrivere la storia dell’indie rock internazionale degli ultimi anni (quello più commerciale, per la precisione). Che li si ami o li si odi, è innegabile come questo sia uno dei dischi più attesi e importanti del 2011. Almeno per curiosità dunque, l’ascolto è d’obbligo.
Con Angles, la band newyorkese ci riprone essenzialmente gran parte degli stessi ingredienti, ampiamente già utilizzati per i lavori precedenti, che li hanno resi una delle band più famose della scena musicale internazionale: solo una decina di tracce (per una durata complessiva che supera a stento la mezz’ora), una variegata commistione di pezzi malinconici e strascicati con tracce catchy all’inverosimile e la voce di Casablancas (sempre coinvolgente, questo è innegabile) a dare il tocco inconfondibile della band. Qualche elementò di novità lo possiamo trovare invece in una ricerca di sonorità nuove, che strizzano molto l’occhio agli anni ’80, pur comunque non discostandosi troppo da quanto fattoci già sentire fin’ora.
Visto il successo strepitoso ottenuto nella loro carriera, non mi stupirei del fatto che il loro pubblico spazi dai fan sfegatati agli ascoltatori occasionali. Io, personalmente, mi annovererei nella lista di quelli che, di ogni loro album, salvano i quattro o cinque pezzi più orecchiabili (che immancabilmente si ritrovano poi in film, telefilm e pubblicità varie) e seduta stante butta nel dimenticatoio tutto il resto. Se siete tra i fan sfegatati dunque non prendetevela a male se in questa recensione non si esamineranno a menadito tutte e dieci le tracce del disco.
Visto nella sua totalità, Angles risulta comunque piacevole e accettabilmente coinvolgente (soprattutto se paragonato a “Room on fire”) ma deludentemente scarso dei momenti, se non memorabili per lo meno divertenti, dei primi dischi. Insomma, niente ‘Last nite’, addio ‘You only live once’, scordatevi ‘The end has no end’ questa volta. Dimenticate quelle tracce da compilation estiva che, a distanza di anni, si ascoltano ancora con piacere in macchina o lasciando l’ipod in shuffle. In Angles ce ne sono veramente poche e, a dire il vero, quelle che ci sono non sono neanche così interessanti.
In modo un po’ illusorio, la traccia inziale, “Machu Picchu”, risulta molto orecchiabile ed entra in testa facilmente. Curiosamente, è proprio la prima traccia quella che si rivelerà poi una delle migliori del disco. È seguita subito da un altro dei pezzi più interessanti, “Under cover of darkness”, in cui la voce più echeggiante à la ‘Hard to explain’, ricorda i vecchi cari Strokes che ci erano piaciuti tanto, anche se, malgrado questo, la traccia non è di certo un capolavoro. Da qui in poi la situazione si fa piuttosto tragica, sono solo due infatti i momenti memorabili fino alla fine del disco: “Call me back”, molto malinconica e anche un po’ prolissa con un lento cambio di sonorità a metà traccia, e “Gratisfaction”, che dà il commiato all’ascoltatore con melodie allegre e trascinanti.
Accettando i limiti del gruppo e prendendo il disco con il giusto livello di serietà (o meglio, forse, superficialità) la valutazione globale risulta tutto sommato positiva. Il disco, di per sé, non è noioso ma, anzi, risulta piuttosto coinvolgente. Il suo difetto maggiore è, forse, il non riuscire ad aggiungere niente di significativo a quanto già detto dagli Strokes nei lavori precedenti. La pausa di riflessione (durata ben cinque anni) non sembra aver giovato particolarmente al gruppo che, anzi, si richiude sempre più in formule già sperimentate, propinandoci la proverbiale ‘minestra riscaldata’.
01 “Machu Picchu”
02 “Under Cover Of Darkness”
03 “Two Kinds Of Happiness”
04 “You’re So Right”
05 “Taken For A Fool”
06 “Games”
07 “Call Me Back”
08 “Gratisfaction”
09 “Metabolism”
10 “Life Is Simple In The Moonlight”