Arrivato alla fine di Exchange Place, Belfast sono rimasto decisamente perplesso. Ciaran Carson ha uno stile di scrittura sicuramente attento ai particolari e ai dettagli, che tuttavia appaiono come dei copia e incolla messi insieme senza necessità. Ci si perde spesso in parentesi che non hanno molta importanza e risultano solo un esercizio stilistico.
Il racconto si svolge in due posti ben distinti, Belfast e Parigi, con attori molto simili, John Kilfeather e John Kilpatrick. Uno ha perso un taccuino, l’altro scrive guide turistiche. Ma oltre alla scrittura sono molte le cose in comune: entrambi hanno un amico pittore che risulta scomparso, entrambi hanno una passione per gli abiti eleganti, entrambi sembrano vivere la stessa vita.
E così accade che i sogni di Kilpatrick si manifestano come vita reale di Kilfeather, che l’immaginazione di Kilfeather si traduce nella vita reale di Kilpatrick. Mentre si legge si ha la sensazione di ritrovarsi in un gioco di scatole cinesi, una dentro l’altra, tutte all’interno di labirinti dove non si riesce più a distinguere finzione e realtà.
Un po’ come accade in “eXistenZ” di Cronenberg, tempo e spazio vengono fusi e deformati per dare origine a un multiverso dove le cose accadono diverse ed uguali, lasciando al lettore la continua sensazione di un “déjà-lu”, dove si perde la percezione sensoriale così come la conosciamo.
Exchange Place è un indirizzo in cui si smascherano fenomeni paranormali, ma è l’unico riferimento di un libro che lascia il lettore continuamente spiazzato e che in conclusione risulta troppo complicato e macchinoso.
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