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Recensione : Antimatter – The Judas Table

II settimo album in quindici anni degli Antimatter è il classico evento che dovrebbe meritare spazi ben più ampi di quelli in cui, abitualmente, lavori di questo genere vengono confinati dai media nostrani.

II settimo album in quindici anni degli Antimatter è il classico evento che dovrebbe meritare spazi ben più ampi di quelli in cui, abitualmente, lavori di questo genere vengono confinati, almeno nella nostra misera italietta musicale.

Già, perché non è da tutti i giorni poter ascoltare un album così ispirato, toccante ed eseguito in maniera impeccabile da una band come quella guidata da un musicista che, nonostante la sua modestia e ritrosia, si eleva di innumerevoli spanne al di sopra della concorrenza come Mick Moss.
Dopo un disco toccante e dolorosamente ripiegato su se stesso come “Leaving Eden”, era stato necessario un lustro prima di poter ascoltare nuovo materiale inedito dagli Antimatter, e “Fear Of A Unique Identity” era arrivato per mostrare una nuova propensione ad aperture melodiche ariose e ad una forma più rock affidata a canzoni che, nel suo splendido predecessore, avevano per lo più le sembianze della ballata acustica (per la cronaca, dovessi scegliere un brano in tutta la discografia degli Antimatter, mi prenderei proprio uno di questi, “Ghosts”).
The Judas Table si colloca esattamente a metà strada tra queste due espressioni musicali, mostrando entrambi i volti, sia separatamente in alcuni brani, sia contemporaneamente in altri: il risultato finale è quello che, forse, era facile attendersi da parte di chi adora questo magnifico musicista, pur essendo nel contempo tutt’altro che scontato.
Quanti sono oggi, infatti, quelli in grado di toccare in maniera altrettanto emozionante le corde più recondite dell’anima solo con la propria voce ed una chitarra acustica, come Moss riesce a a fare più volte in questo lavoro ? Giunti a Comrades sono già state quasi esaurite le lacrime e non siamo neppure a un terzo del cammino; questa canzone, figlia legittima di “Leaving Eden”, è preceduta in scaletta dalla magnifica Black Eyed Man e dalla più movimentata e potenziale singolo Killer.
Stillborn Empires riparte da dove l’opener aveva preso l’avvio, ovvero da quei suoni malinconici rivestiti di una ritmica più accentuata, in grado di valorizzarne i perlacei passaggi per poi aprirsi in un finale semi-orchestrale che ne esalta l’impatto dolorosamente solenne.
Little Piggy riporta ai toni acustici di Comrades, rivelandosi un altro dei picchi emotivi dell’album, mentre con Hole si resta sempre su un piano introspettivo ma leggermente meno coinvolgente, rivelandosi però l’ideale introduzione alla sfolgorante Can Of Worms, canzone dotata di un chorus che farebbe invidia persino agli Alter Bridge.
L’orecchiabiità di Integrity, arricchita da un bellissimo assolo di chitarra e da altrettanto valorizzanti vocalizzi femminili, anticipa la title track, un altro dei numerosi gioielli disseminati in un album che si piazza saldamente in cima alla mia playlist annuale, con moltissime possibilità di restarci.
Mick Moss riesce nuovamente a commuoverci e meravigliarci, questa vota prendendo spunto a livello tematico dal tradimento, visto dalla parte di chi l’ha subito, certo, ma senza dimenticare, aggiungo io, anche chi l’ha perpetrato agendo con leggerezza e ricevendo in molti casi, come giusta nemesi, il dover continuare a vivere con il peso del dolore irrimediabile che ha provocato.
The Judas Table si chiude con un’altra traccia acustica intitolata Goodbye, il commiato perfetto per un disco che rafforza lo status di Mick Moss quale supremo cantore dell’introspezione e del melanconico scorrere dell’esistenza.

Tracklist:
1. Black Eyed Man
2. Killer
3. Comrades
4. Stillborn Empires
5. Little Piggy
6. Hole
7. Can of Worms
8. Integrity
9. The Judas Table
10. Goodbye

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