Non è nell’indole della nostra webzine pubblicare puntualmente articoli commemorativi quando viene a mancare un grande personaggio del mondo musicale ma, nel caso della morte di una delle ultime vere icone del rock/metal, quale è stato Lemmy Kilmister, non ci siamo potuti tirare indietro.
L’ultimo “coccodrillo” lo scrissi in occasione della tragica scomparsa di Francesco Di Giacomo, un uomo e un musicista che, istintivamente, è da considerarsi agli antipodi del leader dei Motörhead: eppure, a ben vedere, entrambi sono stati accomunati dall’aver vissuto fino alla fine dei loro giorni calcando i palchi senza diventare neppure per un attimo la caricatura di sé stessi, con la differenza che l’artista inglese è stato quasi “condannato” a farlo dalla sua stessa indole, avendo in qualche modo consacrato la sua intera esistenza alla vita on the road.
Ma è chiaro che la morte di Lemmy assomiglia molto alla dipartita di un amico che ci ha accompagnato nel corso della nostra esistenza, con le proprie canzoni semplici, essenziali ma dannatamente efficaci e capaci di veleggiare nel tempo senza perdere un oncia della loro carica eversiva. Dico tutto questo, ci tengo a precisarlo, senza essere neppure mai stato un fan incallito dei Motörhead: per chi come me è approdato al metal con un retaggio progressive, è naturale prediligere le forme più emozionali e strutturate del genere rispetto al lineare “palla lunga e pedalare” che solo Lemmy e soci, però, dall’alto della loro grandezza, potevano permettersi di perpetuare all’infinito senza che nessuno avesse alcunché da ridire.
Ma più che sul musicista è interessante fare una riflessione sull’uomo Lemmy Kilmister: nella vasta aneddotica che sta monopolizzando la rete in questi giorni successivi alla sua scomparsa, emerge in maniera unanime l’immagine di una persona semplice, diretta e sorprendentemente colta, caratteristiche che fanno abbastanza a pugni con l’iconografia della rockstar selvaggia dedita a sesso, droga e rock’n’roll, alla quale è sempre stato inevitabilmente abbinato.
E, in effetti, credo che Lemmy sia stato uno dei pochi miti delle sette note ad essere amato in maniera incondizionata un po’ da tutti (dagli stessi colleghi in primis) e in maniera trasversale, indipendentemente dal gradimento specifico nei confronti della sua musica, proprio per il suo essere stato sempre sé stesso, senza abusare del proprio invidiabile status ed evitando di ridursi, come accaduto invece a molti altri, ad un semplice pupazzo manovrato dallo show business ad uso e consumo dei fans.
Persino il cancro, un mostro di solito impietoso nello scegliere e perseguire i propri obiettivi, ha deciso di presentargli il conto molto più tardi di quanto il suo stile di vita avrebbe fatto presagire, e gli ha pure risparmiato la penosa trafila di cure vane e devastanti , avvinghiandolo nelle sue mortali spire pochi giorni dopo essere stato diagnosticato.
Ci mancheranno la sua particolare postura sul palco, con il microfono collocato ad altezze improbabili, e la sua voce cartavetrata dall’abuso cinquantennale di Jack Daniels e sigarette, ma la sua eredità resterà negli anni a venire, con un brano come Ace Of Spades che continuerà ed essere ascoltato e suonato finché ci sarà musica su questo pianeta.
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