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Recensione : Goatpsalm – Downstream

Uno dei lavori più convincenti ed impressionanti tra quelli usciti in quest’ambito nel corso del 2016.

Proviamo a pensare a qualcuno che, pur proponendo una forma di funeral doom dalla ampie connotazioni ambient ed infarcendola persino di elementi etnici, riesca ad inchiodare per un’ora alla poltrona il malcapitato ascoltatore offrendogli qualsiasi tipo di sensazione ad eccezione di quella più deleteria, la noia.

Un’impresa, quella appena descritta, che è prerogativa di pochi audaci tra i quali si possono annoverare i Goatpsalm, band russa che, con questo suo terzo full-length, Downstream, sposta molto più in là i confini conosciuti delle forme musicali maggiormente disturbanti dando alla luce (si fa per dire …) un’opera magnifica, che annichilisce ed opprime senza alcun cedimento.
Oltre alla capacità di rendere funzionale alla resa conclusiva ogni singolo passaggio, muovendosi in un territorio in cui il rischio di dispersività è, invece, elevatissimo, va notato che i Goatpsalm sono una band “vera”, in quanto annovera quattro musicisti di spessore in grado di erigere un involucro sonoro di qualità sconosciuta alle frequenti uscite di analogo tenore, soprattutto se opera di un singolo musicista.
Proprio questo, assieme ad una certa cura dei particolari che include, ovviamente, una produzione all’altezza, fornisce un quadro d’assieme che rende il lavoro costantemente pervaso da una tensione oscura che, però, nei suoi rarissimi slanci melodici o dalle sfumature folk, riesce a raggiungere picchi emotivi non indifferenti.
In Downstream talvolta pare di ascoltare dei Dordeduh (e, quindi dei Negura Bunget pre-scissione) votati al funeral piuttosto che alla matrice black (che, comunque, si manifesta anche qui, con richiami alla scena avanguardista francese), ma ogni accostamento è volto soprattutto per inquadrare in qualche modo il sound dei Goatpsalm senza necessariamente voler individuare un’influenza specifica.
I primi 25 minuti, che vedono succedersi Grey Rocks e Flowers Of The Underworld, sono già in grado di produrre sgomento, con la traccia iniziale che in dieci minuti racchiude ambient, impulsi sperimentali e funeral senza che tali componenti appaiano mai disgiunte tra loro, mentre un’impronta etica, sorretta da vocalizzi femminili di stampo “galasiano”, domina quella successiva, autentico brano capolavoro dell’album.
Ciò che resta è ugualmente tantissima roba, con il soffuso tappeto elettronico di White Sea, il rumorismo a tratti efferato di Orphan, il black avanguardista di Of Bone And Sinew, il lungo delirio ambient della spaventosa The Waylayer e la conclusione affidata alla title track, a chiudere un cerchio emozionale dal quale, alla lunga, diverrà pressoché impossibile evadere.
Uno dei lavori più convincenti ed impressionanti tra quelli usciti in quest’ambito nel corso 2016, e lo dice uno che, di norma, predilige forme di funeral molto più lineari e strappalacrime rispetto a quella irrequieta e soffocante espressa dai Goatpsalm.

Tracklist:
1.Grey Rocks
2.Flowers Of The Underworld
3.White Sea
4.Orphan
5.Of Bone And Sinew
6.The Waylayer (A Great Spring Hunger)
7.Downstream

Line-up:
H. – bass, noises, keyboards, backing vocals, clay bells, mouth harp
Vaarwel – vocals, guitars, sanshin, clay flutes, acoustic guitar
Kim – drums
Sadist – backing vocals, acoustic guitar

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