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Recensione : Kula Shaker – K 2. 0

Dopo vent'anni i Kula Shaker tornano con un nuovo attesissimo album: una storia musicale unita da un K, una tradizione ricca e consolidata che si ripete senza mai risultare banale. L'indie rock elegante è tornato.

Correva l’anno 1996 quando i Kula Shaker pubblicavano il loro album d’esordio K; nello stesso cielo brillavano allora molte altre stelle della scena rock, britannica ed internazionale.

Quel medesimo anno, infatti, vedeva l’uscita di dischi quali Aenima dei Tool, Coming Up dei Suede, Odelay di Beck e Placebo dei Placebo; il 1995, d’altro canto, aveva visto l’uscita di album storici come What’s the Story Morning Glory? degli Oasis, Mellon Collie & The Infinite Sadness degli Smashing Pumpkins, The Bends dei Radiohead e To Bring You My Love di P.J. Harvey.
Rispetto ad una tale compagine musicale, il gruppo di Crispian Mills si mostrava fin da subito carico di un’eterodossia che lo rendeva una sorta di corpo estraneo rispetto al rock più peculiare degli anni novanta.
In questo senso, un primo aspetto riguardava l’influenza forte, chiara e dichiarata che il rock classico degli anni ’60 e ’70 esercitava su alcuni brani del gruppo: Deep Purple, Beatles, Led Zeppelin, Jimi Hendrix, The Who, Greatful Dead; il frontman di questi ultimi, Jerry Garcia – scomparso nel 1995 – è stato omaggiato in uno dei singoli più interessanti e riusciti di K, Grateful When You’re Dead/Jerry Was There.
Un tale ritorno al passato si legava indissolubilmente al secondo elemento pregnante, quello della sonorità indie ma soprattutto indianeggiante, che è divenuta il vero e proprio marchio di riconoscimento dei Kula Shaker.
La cultura indiana filtra in ogni strato della produzione artistica del gruppo londinese trasmettendosi da quello musicale a quello del testo sino a dar vita ad un vero e proprio impianto concettuale; questo si conferma all’ennesima potenza nel secondo, raffinato album, Peasants, Pigs & Astronauts (1999).
La critica si è mostrata tuttavia impreparata di fronte ad un simile fenomeno: non è esattamente folk, non è esattamente rock, non è solo psichedelico, non è solo indianeggiante; quindi vi ha appiccicato frettolosamente l’etichetta di brit-pop/rock psichedelico e fine della storia, rinunciando ad approfondire la complessità di un gruppo che, peraltro, ha spesso sfoderato dei testi di alto valore poetico – si vedano Hey Dude, Great Hosanna, Mystical Machine Gun, Last Farewell od Ophelia, tratta dall’album Pilgrims Progress (Strangefolk, 2010) -.
Tali fattori, uniti ad un non sempre apprezzato utilizzo del sanscrito e ad un’intervista poco felice rilasciata da Crispian Mills nel 1997 al New Musical Express – in cui trattava l’ostico argomento della svastica, da lui inteso nel suo primario valore filosofico indiano – hanno contribuito a far tramontare gradualmente l’astro Kula Shaker.
K 2.0, a vent’anni di distanza, riconferma le linee guida della band britannica, apponendovi una sorta di sigillo. Pubblicato nel febbraio 2016 tramite la label indipendente Strangefolk e seguito da un intenso tour europeo che ha visto varie tappe anche in Italia, il disco raccoglie tutti i frutti della tradizione firmata Kula Shaker; non assistiamo ad un moto di rinnovamento o di reinvenzione di se stessi ma ad una riconferma delle proprie radici e delle proprie influenze musicali e concettuali portata avanti con mano ferma e sicura.
Il mélange, ancora una volta, riesce; riesce perché i quattro componenti della band sono in grado, per mezzo di una formula vincente, collaudata e quasi sempre invariata, di dar vita a qualcosa che è sempre, allo stesso tempo, coerente e nuovo, fuori dal coro.
L’intro della prima traccia, Infinite Sun, ci introduce immediatamente in una dimensione di folk indianeggiante con forti rintocchi di rock anni ’70; essa è una sorta di antica preghiera che la band usava suonare fin dall’adolescenza, come ha dichiarato lo stesso Mills all’Artist Direct Interviews: «“Infinite Sun” is actually one of the first ever little jams the band played when we were still teenagers. So we went back to this old favorite and made it a song». Si prosegue con Holy Flame, brano per il quale le sonorità orientali vengono del tutto abbandonate e dai tratti più decisamente folk-rock; è una canzone d’amore ma emerge limpidamente un senso di sacralità tipicamente “kulashekeriano” quasi sconosciuto alla musica occidentale di oggi.
Death of Democracy riprende le sonorità dominanti dell’album Strangefolk (2007) mentre sul piano del testo ritroviamo quelle posizioni sullo status quo politico che Mills ha sempre espresso piuttosto apertamente nel corso della sua carriera («We know that democracy doesn’t work» , aveva dichiarato al Melody Maker nei primi anni duemila).
Let love be (With U) si presenta forse come una delle poche tracce davvero ascrivibili alla sfera del brit-pop, anche se la profonda diversità del timbro vocale di Mills rispetto a quello dei fratelli Gallagher o di Damon Albarn rende ad ogni modo assai arduo il paragone.
Segue Here Come my Demon, traccia malinconica puramente rock blues e di alto pregio alla quale Crispian Mills si è dichiarato molto legato «[…] that actually came from my five year old son, who was chuntering something and I said ‘what are you singing?’ and he said ‘that’s my song.’ and I said ‘what is it?’ and he said ‘it’s called here come my demons. ’And I thought this is such a brilliant title and I was inspired to write that».
Alla traccia n.6, 33 crows – che risuona come una canzone popolare e richiama il Bob Dylan delle canzoni d’amore – segue Oh Mary, la quale sembra traghettare l’ascoltatore verso le atmosfere rockeggianti dei primi due album.
High Noon risulta una delle tracce più interessanti dell’intero album; miscelando giri di chitarra dal sapore latino-americano e folk da far west ad una solida impalcatura di rock classico, appare come il tipico brano ballata che caratterizza ogni singolo album dei Kula.
L’India fa di nuovo capolino in Hari Bol e nel brano di chiusura Mountain Lifter, nel quale viene sfumata con passaggi heavy rock; il tutto retto su un doppio utilizzo di inglese e sanscrito.
A questo punto non si hanno dubbi, i Kula Shaker sono tornati senza essere cambiati: precisione, creatività, ricchezza di influenze e di risorse non sembrano essere state intaccate dal tempo. Certo, non troviamo più l’energia di Hey Dude (dopotutto, allora, avevano 23 anni…) ma troviamo un bagaglio artistico consolidato, coerente senza risultare ripetitivo, non sperimentale ma musicalmente ineccepibile, ad alta potenza poetica.

TRACKLIST
1. Infinite Sun
2. Holy Flame
3. Death of Democracy
4. Love B (with U)
5. Here Come My Demons
6. 33 Crows
7. Oh Mary
8. High Noon
9. Hari Bol (The Sweetest Sweet)
10.Get Right Get Ready
11. Mountain Lifter

LINE-UP
Crispian Mills – Voce, chitarre, armonica
Alonza Bevan – Basso
Harry Broadbent –Tastiere
Paul Winterhart – Batteria

KULA SHAKER – Facebook

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