Io non sono un critico perché il mio giudizio è influenzato inevitabilmente dal gusto: ho sempre accolto con piacere l’idea che tutto quello che dovesse essere di provenienza australiana, in caso specifico la new wave, debba contenere qualche cosa di blues, che ricordasse il blues; le migliori cose uscite da quel posto hanno in minima percentuale il blues. Ci sono stati casi di riferimenti palesi alla Regina o per gli Stati Uniti, come i Died Pretty, e indovinate un po’ cosa avevano anche se pur poco.
I Bloodhounds suonano pressappoco come i Replacements depressi, pieni di pedali. C’erano gruppi che hanno saputo interpretare con dovizia aspetti dello “shoegaze”, all’esplorazione di mondi loureediani di bordoni (Spacemen 3, Jesus & Mary Chain); altri, come i Foreign Resort, dopo poco ricordano a me stesso come difficilmente potrei porre i Joy Division ai primi posti di un’ipotetica e impossibile classifica post-punk. Per via del discorso di cui sopra: un dito nemmen così piccolo dietro il quale poter dire che Places Like This ci sta come ci stanno tante cose nella vita per le persone pigre. L’ho messo su e ho fatto: “Mh.” In effetti, a prima botta, apre con qualcosa di raga come i Catherine Wheel, e poi il pezzo è uno strumentale di due minuti che esplode e si tronca, un coito interrotto, poi inizia Over The Wall: starebbe bene in qualche film di Aronofsky.
Quei riff del Paisley sovraccarichi appaiono ciclicamente come cuscini elettrici dai quali, a capo appoggiato, diversi musicisti invitano gli ascoltatori ad apprezzarne la mirabolante resa sonica che poi è sempre il solito brodo di canzonetta pop immersa in euro ed euro ed euro di warps e whammys e loops: accontenta ma non basta, volendo pur bacchettare una band praticamente agli esordi, perché pare che le tappe siano già state tutte incendiate. Quando un disco suona come un approdo, con la poco velata intenzione della band di voler lasciare lì l’ancora, ci si fa prendere dal tedio e dal giramento, come un automatico di palline rimbalzanti che scarica sempre la stessa, identica: funzionante e divertente e rimbalzante.
Le lande oniriche evocate dai giornalisti di Revue o Impose sconfinano nei territori dell’onanismo psichedelico: basta fare del bordello col fuzzbox e il trip è bello che fatto, ma non funziona esattamente così.
Esistono innumerevoli appassionati di rock, parecchi estimatori e poi qualche critico qua e là, sicché il sottile velo di spocchia che ricopre Places Like This ne fa prodotto certamente per i primi e in qualche caso per i secondi; ad erompere dopo qualche ascolto è l’altezzosità cacofonica poco stemperata, un paté di cliché che farebbero riporre il disco dopo poco tempo con la certezza sul ripensamento del non esser praticamente “partiti” quando, per la prima volta, avete acceso lo stereo, perché i Bloodhounds non rimpinguano né mozzano: eseguono.
TRACKLIST
1. Gallows
2. Over The Wall
3. Loop
4. Sink
5. Places Like This
6. Words Like Weapons (Bonus Track)
LINE-UP
ohnny Green – voce, chitarra
Chris Donaldson – chitarra
Nik Donaldson – batteria
Che Walden – basso
Annemarie Duff – voce in ‘Words Like Weapons’
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