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Pronto Soccorso

Pronto Soccorso: Quando lo vidi, non sapevo che cosa pensare. È caduto dalle scale, ha detto suo padre. È scivolato, il pavimento era ...

Quando lo vidi, non sapevo che cosa pensare.

È caduto dalle scale, ha detto suo padre. È scivolato, il pavimento era leggermente bagnato, è lui che non sta mai attento. E quindi è caduto, ruzzolato giù per le scale. Ecco perché ha tutti quei lividi. No, noi l’abbiamo trovato così, steso per terra, tutto storto, sembrava dormisse in una posizione strana. E invece non respirava più. Cioè, respirava poco poco. Ma era già morto. Si vedeva. Un padre queste cose le capisce al volo.

Così diceva suo padre. Così giustificava quell’ematoma al centro della fronte, così come il grande bozzo che gli era cresciuto dietro la testa: è stata quella caduta, quella maledetta caduta, a causargli tanto dolore. È perché non sta mai attento, è un bambino molto attivo, non sta mai fermo, non sa quante me ne ha combinate. Ma gli vogliamo bene. È la nostra vita.

Era, la nostra vita, era.

La madre, la moglie di quell’uomo dagli occhi chiarissimi, mi guardava con uno sguardo fisso. Quasi come un automa. Quasi come un robot privo di anima, incapace di fare i conti con una realtà troppo straziante. Quella donna mi guardava, con i suoi occhi nocciola, sgranati, pieni di terrore. Mentre il marito parlava, giustificava, spiegava, quella donna rimaneva in silenzio, nonostante i suoi occhi stessero urlando.

L’abbiamo portato dallo psicologo, sa? Era un furfantello, non riuscivamo a farlo stare fermo. Non ubbidiva mai. Bisognava sempre gridargli dietro e obbligarlo a far tutto. Voleva solo giocare, sempre giocare, giocare, giocare. Non capiva che ci sono dei doveri nella vita, dei doveri che vanno rispettati e portati a termine, qualsiasi sia il prezzo. Non lo voleva capire e allora l’abbiamo portato dallo psicologo. Quello non ha voluto neanche guardarlo in faccia, ci ha detto che il suo era un caso troppo complicato, bisognava mandarlo al riformatorio perché era un delinquentello che ben presto sarebbe diventato un criminale. E così l’abbiamo portato da un altro psicologo, che nemmeno l’ha voluto. Siamo rimasti soli. E mi dica, lei sa cosa vuol dire rimanere soli con un figlio così?

No, non ne ho idea. Non ho idea della disperazione di un padre costretto a gestire un figlio difficile. Che non ascolta mai. Che non vuole fare i compiti perché è troppo stanco, che vorrebbe solo giocare con i suoi amici e sentirsi spensierato. Un ragazzino difficile, ma difficile in che senso? Che difficoltà ci può mai essere nel dare ascolto ai desideri di un figlio?
Non si trattava solo dei compiti a casa. Lui non voleva fare niente di niente, se non giocare. Ogni volta che gli chiedevo un aiuto, mi rispondeva che avrei dovuto pagarlo. Perché il lavoratore ha sempre diritto al salario, così diceva. Pretendeva addirittura delle ferie, per poter andare a giocare con il suo amichetto sotto casa, al pallone. Ma io naturalmente gli dicevo che doveva lavorare e basta, senza lagnarsi. Che ai soldi ci avrei pensato io, che sono il padre, sono io che ho un lavoro e lo stipendio. Lui è piccolo, che se ne deve fare dei soldi? Spenderli in figurine e caramelle, come fanno i suoi amichetti, non serve a niente. E sono i soldi miei che avrebbe speso così. E allora non glieli davo, non gli davo mai niente. Ma lo facevo per il suo bene, solo per il suo bene. Per fargli capire il valore del denaro.

Guardavo sua moglie, mentre lui diceva queste parole. Ma lei non mi guardava più. Sembrava interessatissima al bancone del Pronto Soccorso, come se su quella lastra di plastica lavorata ci fosse scritta una verità che solo lei poteva vedere. Una verità dalla quale dipende la sua vita e quella di tutto il creato. Non riusciva più a staccare quei meravigliosi occhi nocciola dal bancone, e io non riuscivo a fargliene una colpa.

Sa che cosa faceva quel mascalzone quando gli chiedevo di aiutarmi al laboratorio? Faceva finta di farsi male. Ogni giorno era così: andavamo al laboratorio, di pomeriggio, che la mattina lui c’aveva la scuola. Ci andavamo subito dopo mangiato, quella sbobba rognosa che ci fa mangiare questa mia inutile moglie, ci andavamo insieme e gli dicevo quello che doveva fare subito. Così c’aveva il tempo di organizzarsi il lavoro, pensavo io. E invece sa che cosa faceva, quel furfante? Faceva finta di farsi male. Veniva da me dopo soli dieci minuti e mi mostrava un graffio, uno nuovo ogni giorno. Se li procurava da solo, uno al giorno. E se non era un graffio, era un livido, grosso e violaceo, come se qualcuno l’avesse voluto picchiare. Tutti i giorni se ne veniva dopo dieci minuti di lavoro, mostrandomi i segni del duro lavoro che io volevo fargli imparare per renderlo autonomo. Per fare in modo che, appena avuta la giusta età, non rientrasse tra tutta quella marea di giovani senza futuro, senza lavoro, senza nessuna prospettiva. Volevo dargli un lavoro, insegnarglielo, dargli un senso nella vita. Ma lui non lo voleva. Voleva solo giocare e non capiva quanto fosse importante imparare il mestiere. È per questo che non gli permettevo di tornare a casa finché non finiva di lavorare. Quello che gli dicevo di fare, lo doveva fare. Altrimenti rimaneva lì, in laboratorio, pure tutta la notte. Finché non finiva il suo compito.

Quanto può essere profondo il dolore di questa donna?, mi ritrovo a pensare. Quanto può soffrire una madre, vedendo il cadavere viola del proprio bambino?

E quando tornava a casa, diceva che era troppo stanco per fare i compiti che gli davano a scuola. Mi chiedo come sia possibile che un ragazzino, nel pieno delle sue forze, tornasse a casa lamentando una stanchezza che nemmeno io, nemmeno io a cinquant’anni, mi sento addosso! Era tutta una finta, questo l’ho capito subito, dal primo giorno: non aveva voglia di fare un cazzo. È questo il suo problema. Ed è per questo che è morto. Avrebbe dovuto stare attento a quelle scale. Avrebbe dovuto asciugare quella chiazza di acqua, per non scivolarci dentro e fare una fine così ignobile. Morto perché era troppo stanco di vivere.

La donna inizia a singhiozzare, fissando senza pietà il bancone del Pronto Soccorso. Inizia lentamente, silenziosamente. Una cascata di acqua sgorga dai suoi occhi nocciola, lucidi, pieni, in preda all’esondazione. Piange in silenzio. Mi accorgo delle sue lacrime quando noto una chiazza sul bancone. Una chiazza che non smette di allargarsi, fin quando non oltrepassa il bordo del bancone andando a infrangersi contro la terra sterile del Pronto Soccorso.

Ma che cosa piangi, stupida? Lo vuoi capire che Mario è morto perché era troppo pigro? Ed è successo solo per colpa tua. Questa spina dorsale inesistente che hai, quest’anima senza il minimo scopo, senza nessuna forza, né desiderio da realizzare, né aspirazione da rincorrere. Questa è la tua eredità, solo questo sei stata capace di insegnare a tuo figlio: la passività. La pigrizia. La mancanza di carattere. Il nulla. Tu gli hai insegnato il nulla. Tu gli hai insegnato a essere nulla! Tuo figlio è morto perché non valeva niente, proprio come te. Tuo figlio è morto ed è solo colpa tua! È colpa tua se io che sono il padre adesso sarò costretto a pagare il funerale. E piangere sulla sua tomba.

La donna trema, forse per la rabbia, forse per il dolore represso che non sa ancora in che modo uscire fuori. Non sa affrontare la situazione, non riesce neanche a resistere in piedi: a breve dovrò chiedere un’altra barella. Per questa donna svuotata, che perdendo il figlioletto ha perso tutto. Che scopo può avere la sua vita adesso? Con un marito violento, verbalmente violento almeno in questo momento, senza più un figlio su cui convogliare tutto l’amore che suo marito non merita, e che forse non ha mai meritato?

Ora come faccio a pagare il funerale, me lo dici tu? Come faccio a consegnare i lavori che avevo promesso di finire questo mese? Non ho più l’aiuto di Mario, che comunque era inutile e bisognava sempre obbligarlo a fare il suo dovere. Questo figlio che dal primo momento della sua vita ci ha causato solo problemi e sofferenze. Ma te lo ricordi, tu, quando eravamo in ospedale, che avevi appena partorito e questo tuo figlio non voleva saperne di respirare da solo? Te lo ricordi che lo lasciammo in ospedale per due settimane, che da solo non riusciva neanche a fare la cosa più semplice del mondo e i medici dovevano lasciarlo attaccato ai macchinari per insegnargli come si respira? Già dal primo giorno della sua vita avrei dovuto capirlo, che sarebbe stato solo un peso per noi, che non ci avrebbe aiutato neanche un poco ma che avrebbe causato solo problemi e preoccupazioni? Non era buono nemmeno a respirare, non era buono.

Non credo sia il caso di parlare in questi termini di un bambino, gli rispondo. Non è la mia famiglia, non è la mia storia. Io, in fondo, non so niente di loro. Non so quanti problemi abbia potuto causare questo bimbo, che ora è disteso su una lastra ghiacciata in obitorio, gonfio di lividi, il corpo che è una cartina geografica di escoriazioni e graffi. Ma come si può parlare in questo modo del proprio bambino? Sapendo che non tornerà mai più indietro, che niente e nessuno potrà mai abbracciarlo, baciarlo, sfiorarlo con il proprio amore? Come si fa a ricordare i problemi quando il proprio bambino giace, tremendamente violentato, su un letto ghiacciato, buono ormai solo per concimare la terra?

E tu che ne sai, me lo spieghi? Solo perché sei infermiere e vedi quanto male c’è nel mondo, tutti questi uomini che picchiano le proprie donne e maltrattano i propri figli, che cosa vuoi saperne tu di quello che ho passato io? Con un figlio inutile e pigro e una moglie che è peggio di una piaga vivente?

Suppongo che un padre voglia bene al proprio figlio. Per quanto problematico, per quanto pigro. Nonostante non voglia ascoltare, non voglia lavorare. Aveva solo cinque anni, suo figlio.

E tu credi che a cinque anni non si debba incominciare a lavorare? Tu credi che siamo tutti come te, con un mestiere in mano e una famiglia che ti mantiene finché non termini i tuoi bei studi universitari? Bisogna essere realisti, a questo mondo nessuno ti regala niente e ognuno di noi deve imparare il prima possibile a cavarsela da solo. A essere indipendente. Solo il lavoro ti rende libero. Sei giovane e ancora non puoi capirlo. Figli non ne hai, ne sono certo, altrimenti non parleresti così. Non sai niente. Non sai un bel niente di niente e te ne stai qui a giudicare la mia vita. Come ti permetti? Come ti permetti di pensare che quello sbagliato sono io, solo perché volevo dare un futuro sicuro a mio figlio?

La donna ha smesso di tremare. Ha smesso di piangere. Alza il viso, mi guarda fisso. Guarda nei miei occhi ma io nei suoi vedo solo il vuoto. Quel vuoto che suo marito attribuiva all’anima di suoi figlio, morto per le percosse, a cinque anni.

L’uomo si scalda sempre di più, urla, fa una sceneggiata al bancone, è irrefrenabile. Non sa come sfogare il suo dolore. Non sa neanche che dolore è costretto a provare. Se il dolore pesante della colpevolezza. O il fardello della consapevolezza.

L’uomo è colpevole di aver ucciso suo figlio. Forse non lo ha spinto dalle scale, forse ha tentato addirittura di salvarlo. Forse gli voleva bene. Forse tutti quei lividi e i graffi non glieli procurava lui, direttamente. Forse non lo picchiava, forse è vero che il bambino si feriva lavorando in laboratorio. Aiutando suo padre in laboratorio. Forse è vero che è disperato per la morte del suo bambino. Forse è vero che sua moglie è una donna inutile, passiva. Forse è vero che è stato costretto ad affrontare una vita difficile, piena di problemi. Forse è vero che è innocente.

Forse, però, i carabinieri che lo stanno ammanettando conoscono meglio di noi la verità.

Non c’era nessuna chiazza d’acqua sulle scale.

I lividi del bambino non corrispondono con la dinamica della caduta. Non se li è procurati così.

Non è vero che era un bambino pigro: alle maestre raccontava dei pomeriggi passati con suo padre in laboratorio. Raccontava di quanto era contento di lavorare fianco a fianco con suo padre, anche se spesso si faceva male. Perché non poteva raccontare l’orrore di avere un mostro, invece che un padre.

I carabinieri lo ammanettano, lo portano via tra imprecazioni e minacce. La donna rimane a guardare, poi mi guarda. Questo sguardo è un addio: è il suo addio.

Qualche giorno dopo, sul giornale leggo la notizia che rivela la verità agghiacciante.
Mario è morto a causa delle percosse. Suo padre picchiava il bambino di cinque anni e sua moglie. La donna, devastata dal dolore, dal senso opprimente di colpa per non aver salvato suo figlio da un destino atroce, ha scelto un’altra strada da percorrere. E l’hanno sepolta oggi, accanto al suo bambino.

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