Per iniziare questo libro ha un grande merito secondo me: quello di riportare le vicissitudini della lotta di Resistenza in un contesto spesso poco esplorato nella letteratura e non solo. Il contesto è il luogo dove il proletariato ha cominciato a intendere in maniera netta le dinamiche di lotta di classe: la fabbrica. In fabbrica ci si scontra decisamente con le discrepanze tra padrone/proletario e qui vi si trova il posto idoneo per alimentare la fame di conoscenza politica, aderendo quasi in maniera istintiva a un’idea di collettivismo. Quindi la fabbrica come crogiolo di idee in cui il proletariato si addensa e si unisce, dove si rafforzano unità d’intenti, perché quale miglior collante del sudore?
Il romanzo non è solo questo, è la storia di una città, Torino, attraverso i due protagonisti principali, Silvio, bambino di dieci anni detto il biund, e il padre Eugenio detto Genio, partigiani e indefessi antifascisti in quel periodo di fame, guerra e paura che va dal ’40 al ’45. Il padre operaio della Lancia, il figlio che lo segue nel suo ideale nelle scorribande urbane con la sua banda del quartiere operaio di borgo San Paolo. Non è solo fabbrica la storia ma la fabbrica dal mio punto di vista risalta come scuola di rigetto dalla dittatura e, come poi ci insegnerà negli anni a venire, i ’70 in particolar modo, la fabbrica sarà il nucleo pulsante della ribellione dura e pura, col nascere in seno dei movimenti extraparlamentari, officina degli scioperi che avvolsero quell’Italia dai nuovi rigurgiti fascisti.
Ecco, “Una fame instancabile”, tra le altre cose, possiede questa filigrana storiografica che fa della fabbrica il nocciolo da cui si irradia la fame di rivolta, luogo propulsivo per idee libertarie, sito idoneo per autoalimentare il bisogno di ribellarsi a un regime fascista che diviene all’approssimarsi della sua fine sempre più sanguinoso e inebetito dal conflitto, nemico di un popolo affamato che è preso dai due fuochi delle camicie nere e brune da una parte e dall’altra dai bombardamenti alleati. Olio di ricino, manganello e moschetto a destra e le devastanti incursioni dei bombardieri dall’altra.
Protagonista del libro è certamente anche Torino, città che nel libro viene descritta nei muri, le vie e le piazze, nelle case del quartiere San Paolo e non solo, nelle gesta della gente abbattuta nelle vie, trincerata nella resistenza, strizzata dalla fame ma mai sconfitta.
Si percorrono le gesta del ragazzino Silvio come condotto per mano dal padre Eugenio, nel rincorrere la pace dentro la guerra. Allora Silvio comincia con la sua banda di quartiere a scrivere sui muri inneggiando alla liberà, a rubare la legna per spartirsela coi vicini, ad attuare agguati ai fascisti, nel farsi il portavoce dei partigiani. Silvio finisce nel carcere minorile e qui forse la narrazione prende le sue pieghe più singolari, raccontando fatti grotteschi e fantastici proprio perché sicuramente reali da risultare quasi tarantiniani nella loro visione shoccante, filmica, epica. Come quando nei campi a lavorare quasi a turno i ragazzi tentano di scappare improntando una gara con il carceriere nazista velocista, una sfida quasi goliardica all’interno di una cornice drammatica, e allora vediamo il ragazzone ariano pronto a rincorrere Silvio come fosse una preda umana, raggiungerlo in uno strappo atletico che sa di gara surreale, di crudele metafora di un popolo allo stremo, in cui la recita/farsa si mescola al dramma. O, in altro frangente, i ragazzi reclusi per potersi cibare ricorrono all’espediente di rubare le ossa sopra le quali resta un po’ di carne per scoprire che le stesse ossa sono forse il frutto di cadaveri umani. Scena pulp, iperrealista alla Malaparte.
Un libro di epoca e di epica.
Un libro che serve contro ogni sempre nuovo germoglio distorcente di revisionismo storico.
Scritto da Silvio Borione, il Silvio bambino del racconto, insieme a Giaka, edito dalla casa editrice romana militante Red Star Press, è un romanzo di storia e di vita di resistenza, quella che auspichiamo sia sempre vivida, per capire chi sta da una parte e chi dall’altra della barricata, ieri come oggi.