Perché recensire un saggio sulla conoscenza, profondamente filosofico e antropologico, nella sezione della nostra webzine che si occupa di fantascienza?
I motivi sono diversi. Potrei dirvi che non siamo razzisti nei confronti della saggistica, che amiamo spaziare e lasciarci ammaliare dalle visioni marginali rispetto al genere di cui ci occupiamo, perché in fondo è sempre la realtà che influenza la fantasia. Ma il motivo centrale di una scelta del genere ve lo svelerò tra poco, a tempo debito.
Edgar Morin è un filosofo e sociologo francese. Ha quasi cento anni e ha praticamente vissuto (nonché parlato di) tutti i più grandi cambiamenti a cavallo degli ultimi due secoli. È noto soprattutto per la sua lucida analisi dell’atteggiamento dell’uomo nei confronti della morte (L’uomo e la morte, 1951), ma la sua opera è praticamente sconfinata e tratta dei temi più disparati, dalla morale al cinema, dalla scienza all’umanesimo.
Questo suo ultimo libro, pubblicato originariamente lo scorso anno e riproposto da Cortina agli inizi di quest’anno, sembra essere una concreta quanto pregna riflessione sulla conoscenza umana e su quanto essa abbia il bisogno di essere consapevole della sua ignoranza e del mistero perpetuo che l’uomo, conoscendo, genera. Per Morin, così come era per Socrate nel V secolo a.C., non esiste conoscenza senza ignoranza, e l’unica vera spinta della conoscenza è il mistero del nuovo sconosciuto. “Il fiammifero che accendiamo nel buio non solo rischiara un piccolo spazio, rivela anche l’enorme oscurità che ci circonda”.
Fin qui Morin sembra quindi inserirsi in quella tradizione “che sa di non sapere”, che parte dagli antichi e arriva a Schlegel, passando per Cusano e le filosofie orientali. Tuttavia il suo pensiero ha delle solide basi scientifiche. La sua rassegna coinvolge i più diversi campi del sapere, la fisica quantistica, la biologia, la psicologia, l’astronomia, le neuroscienze, pur senza essere mai troppo tecnico, né mai superficiale, anzi lasciando trasparire sempre un delicato umanesimo dalle tinte (poco) esistenzialiste. Insomma, da persona che conosce molto, appunto, dà conto del filo rosso che lega insieme tutte le cose dell’universo, anzi, sarebbe meglio dire dei tre fili rossi: conoscenza, ignoranza e mistero.
Tornando alla domanda iniziale, e la fantascienza?
La si può ritrovare all’interno del quadro catastrofico che fa non tanto del nostro mondo in quanto pianeta, ma quanto della nostra umanità intesa come condizione di esistenza, e soprattutto all’interno del monito che lancia contro le derive disumane (e transumane) a cui stiamo andando incontro. Nell’ultimo capitolo, intitolato Post-umanità, l’autore delinea quello che potrebbe essere il nostro immediato futuro: catastrofi naturali, uomini-robot o quanto meno tecnicizzati, virus e batteri sempre più forti, morti violente, raffreddamento del Sole, nonché la fine della civiltà occidentale tradizionalmente concepita. Insomma tutta la riflessione precedente si trasforma in un appello contro la società tecno-economica, a favore di una profonda riforma intellettuale e morale e le immagini evocate nelle ultime diciotto pagine sono forse più efficaci di qualsiasi altro romanzo post-apocalittico, probabilmente perché incredibilmente plausibili.
Vi consiglio quindi di regalarvi questa piacevole lettura, per continuare a riflette in modo intelligente sull’attuale e sul destino dell’essere umano, anche e soprattutto in giorni come questi in cui la realtà aumentata sembra essere ormai un’orizzonte vicinissimo. “Un umano non dovrebbe essere piuttosto migliorato qualitativamente (‘aumentato’) invece che modificato quantitativamente?”
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