Bob Accio vive nella freddofosca provincia di Brescia, dove tra contorni sfumati dalla nebbia e sguardi appannati sul metrò, ci si scruta un po’ tutti come se ci si fosse già visti mille volte e più senza riconoscersi mai, un indefinibile flusso di anime che avanzano guardandosi le scarpe, le ginocchia, le mani tese sulla borsetta o sulla tasca a controllare il portafogli, che non si sa mai quanti malintenzionati possano esserci nei dintorni, pronti ad approfittarsi dei più ingenui. Guardarsi in giro senza prestare attenzione se non al cellulare è buona norma e regola qui come dappertutto, ormai.
Avanti corrono i pensieri odiosi verso la grigio stanca università maledetta, che ruba e fotte momenti, forse si forse no, dolcissimi e sognanti.
Bob incontra faccine smorte con dispense sotto al braccio, visi adombrati persi nel ripasso automizzato, a cercar la media per un’esistenza da notaio, manager, banchiere, macchina con targa diplomatica e dorati vernissage il primo festivo di ogni mese. Le ragazze le più agguerrite, suorine votate allo studio, per Bob piccole sconfitte sentimentali infilate una dietro l’altra come perline su di un filo troppo corto, piccole e innocue se prese una ad una, ma spaventosamente grevi se adocchiate tutte insieme.
Gli si offusca lo sguardo, gli vien meno il sentimento. Un dolore qui e qui. Urge una trasfusione, subito!
Si infila nel chiosco submetropolitano a gustarsi un Fernet che possa sciogliere il piombo cittadino che gli si schianta dentro.
“Bevi pure ma bada di tacere Bob, che qui il tuo fare zen secca gli avventori!”
La speranza di un mondo migliore? Ti prenderanno in giro se continui a cercarla, ma non darti per vinto, perché chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle, forse è ancora più pazzo di te.
All’ottavo Fernet, il barista lo scaraventa fuori su pezzi di cartone, riviste e libri ammuffiti.
Sembra un barbone intellettuale.
Si avvicina una tipa, Bob le guarda subito le gambe e le scarpe, fresche le prime, pulite e rosa cipria le seconde. Fiuta aria di volontaria. Lei siede al suo fianco in modo disinvolto, né troppo vicino né troppo distante. Non parla di alloggi comunali o di case di accoglienza. Raccoglie il libro per terra, tra i tanti, e parla di Emile Zola, di come si era immaginata la protagonista del romanzo. Dice che si era affezionata a Nanà, che alla fine le voleva bene per davvero e avrebbe voluto essere lì, nella storia, a curarla quando si era ammalata.
Anche Bob aveva pianto per Nanà.
Parla solo lei, lunghi monologhi sui libri. Bob Accio ascolta e basta. A volte si appisola di un sonno ebbro di dolcezza fino a che si lascia andare a un sonno bifolco.
È così che Bob è diventato barbone part-time: dalle otto alle dodici, studente universitario, mentre dalle quattordici alle diciotto torna all’ angolo del chiosco nella speranza che si ripeta il miracolo di scarpe lucide; ci va saltellando, con il sorriso stampato nella testa e l’amore nei bassifondi dei calzoni appesantiti dai minuti, dalle ore, dalla stanchezza e dalla voglia di questi attimi di speranza rubata che spesso fa più male che non una pedata nello stomaco, ma insieme, come dire, è una delizia. Perché la vita è fatta di regole, sovrastrutture, costruzioni logiche, ma la speranza scava dentro, è carsica, trova comunque i suoi percorsi ed in essi produce splendore.
Illustrazione di Kendra
Una risposta
Maria Grazia e Bob si sono incontrati e si sono scambiati
un’idea. Questa idea è adesso un racconto, cioè, due! Il prossimo uscirà a breve 🙂
I due autori hanno tirato un paio di linee narrative
comuni e poi sono andati ciascuno per i fatti suoi nella
scrittura; Maria Grazia ha preso le veci di un ragazzo e Bob quelle di una ragazza.
Un piccolo confronto stilistico e di vedute. Buona lettura.