Qualche mese fa vi ho parlato di quanto il pensiero filosofico ed epistemologico di Edgar Morin fosse profondo. Di quanto la sua analisi sulla conoscenza e sulla ignoranza fosse attuale e allo stesso tempo coerente con la tradizione. In questo Maggio ’68. La breccia, emerge invece un altro aspetto dell’autore francese, altrettanto interessante: quello del sociologo che passa al setaccio un importante evento storico e ne mette in luce gli snodi fondamentali.
In occasione dei cinquant’anni da quel maggio del 1968 che ha visto emergere una serie di movimenti rivoluzionari, giovanili e operai insieme, Cortina raccoglie quattro articoli che mostrano quale sia stata la posta in gioco durante quei giorni e cosa vi è rimasto a distanza di anni. Infatti, mentre i primi due articoli sono stati scritti durante il maggio stesso, e pubblicati su Le Monde, il terzo uscì nel maggio del 1978 e il quarto nel 1986 sulla rivista Pouvoirs.
Il punto di vista di Morin è fortemente condizionato da ciò che è avvenuto in Francia. Le occupazioni delle Università di Nanterre e della Sorbona sono le prime dichiarazioni d’intenti del movimento. Nel primo articolo Morin scrive che “l’università è contemporaneamente il bastione più forte della società borghese (forma i quadri) e il suo anello più debole, perché in essa gli studenti sono la maggioranza e possono diffondervi lo spirito rivoluzionario”. È chiaro quindi perché la rivoluzione poteva e doveva partire da lì per poi, eventualmente, diffondersi nelle fabbriche, nella politica e nella società.
A chi parla però semplicemente di rivoluzione, nel senso di scardinamento della società e ribaltamento del potere, Morin oppone un’altra visione. Questa è da ricercarsi nel sottotitolo eloquente del libro: la breccia. I movimenti del maggio ’68, almeno in Francia, non hanno costituito il sovvertimento della società, un colpo di stato o il diffondersi del comunismo, ma hanno semplicemente avvertito il mondo di quello che sarebbe potuto accadere; hanno dimostrato che gli strumenti per portare al ribaltamento ci sono, che “la breccia” nel sottosuolo della comunità è ormai aperta, e “la diga” può crollare da un momento all’altro.
Il maggio del 1968 si esaurisce nel giro di un mese. Quando a distanza di dieci anni Morin tornerà a parlarne, lo farà con un tono forse polemico, quasi deluso. “Alla principale domanda: ‘Quale fu l’effetto più importante del maggio ’68?’, si può rispondere: “Fu innanzitutto la cancellazione e la rimozione del maggio ’68”. Le ideologie hanno tagliato, ritagliato, tagliuzzato l’evento a loro somiglianza. Tutto è rientrato nell’ordine leninista, nell’ordine maoista, nell’ordine dei partiti, nell’ordine delle istituzioni, nell’ordine borghese”. Ma ciò non è bastato a ripristinare i vecchi valori, non totalmente, almeno. Non è cambiato nulla, afferma, eppure tutto è cambiato. La breccia è ancora aperta.
Nell’ultimo contributo, Morin smussa ancora di più le sue idee. Può farlo grazie a una maggiore distanza da quegli eventi. Descrive il maggio ’68 come un movimento di rottura, ma allo stesso tempo lento, che ha avuto bisogno di anni prima di effettuare un reale cambiamento nei costumi e nei valori, al di là di tutte le ideologie, al di là della destra e della sinistra.
Quella del filosofo e sociologo francese è un’analisi impeccabile, pochi dubbi a riguardo. Resta solo da chiedersi, e oggi? Cosa rimane di quel mese di speranza e contraddizioni? Lascio rispondere a lui.
“Oggi, il maggio ’68 esce dalla memoria, dall’immaginario, dalla sfera mitica e diventa storia, con la continuazione di una polemica sorda tra coloro che si ostinano a pensare che il maggio ’68 non abbia niente di rivoluzionario e abbia permesso l’adattamento alla nostra società e coloro che pensano che abbia invece avuto importanza per la liberazione nei costumi, e io mi colloco tra questi”.