L’uomo dei giochi a premio (Time Out OF Joint), in Italia uscito inizialmente col titolo Il tempo si è spezzato e successivamente in Tempo fuori luogo e Tempo fuor di sesto, è il sesto romanzo di Philip Dick e a mio parere il primo col quale riesce a creare una storia veramente originale e che rientra in quella che poi sarà considerata la sua precisa cifra stilistica, cioè la fantascienza che attinge a piene mani nell’immaginifico paranoico (caposaldo esistenziale proprio dell’autore, nel bene e nel male), e che illustra in maniera geniale il proprio immaginario speculativo su cosa la realtà apparente ci può nascondere. Dick riesce a morderti le caviglie e a farti chiedere: sto vivendo una vita fasulla? Quello che faccio e penso è esattamente quello che vorrei fare e che penso veramente? Si vive sempre una specie di dissociazione della consapevolezza, con Dick, di dubbio angosciante, di straniamento dei codici della realtà, e con L’uomo dei giochi a premio l’autore inizia secondo me in modo veramente visionario e eccelso a dispiegare il vero valore della sua scrittura, della sua filosofia. Con i libri precedenti si era allenato, ora comincia a fare sul serio.
Sulla potenza visionaria del racconto, scritto nel 1959, basterebbe dire che il film del 1998 The Truman Show diretto da Peter Weir e interpretato da Jim Carrey vi si ispira profondamente, se non avete letto ancora il libro fatelo e ditemi se non troverete profonde similitudini, anche e soprattutto emozionali.
Come nella maggior parte dei libri di Dick egli trova l’ispirazione tramite gli accadimenti spesso strampalati e irrazionali che gli succedono in vita. Estremamente singolare è il fatto che gli accade un giorno andando in bagno, a casa sua. Entrandovi, inconsciamente stende la mano per tirare la cordicella della luce. Non la trova, la cordicella, semplicemente perché non c’è mai stata, in bagno ha sempre avuto solo un semplicissimo interruttore. Eppure istintivamente ha cercato la cordicella. Questo strano accadimento nella mente di Dick assume un connotato che lo fa elucubrare sulle diverse e infinite speculazioni filosofiche su quel che siamo e chi siamo veramente. Perché ha cercato una corda che in verità non c’è e non c’è mai stata? Cosa è stato a far sì che compisse quell’azione automatica? Che forse in realtà Philip ha sempre vissuto in un altro posto dove quella cordicella esiste e la usa quotidianamente, magari in un bagno in tutto simile a quello che usa ora? O forse gli hanno innestato i ricordi e una personalità che non è la sua? Ecco, questo piccolo ma affascinante fatto lo inserisce nel romanzo, lo fa accadere a un attore comprimario alla storia, l’accadimento che poi darà il là alle vicende del protagonista: Rugle Gum.
Ci troviamo nella solita e tipica cittadina della provincia americana di fine anni ‘50, tipico palcoscenico di molte storie dell’autore. Rugle Gum vive con la sorella, il cognato e il piccolo figlio di loro. Pacifica vita di provincia: il cognato che lavora in un supermercato, la sorella massaia infaticabile, i vicini amorevoli, il praticello fuori casa, le casette tutte uguali.
Rugle Gum si guadagna da vivere in maniera differente, partecipa a un concorso indetto dal giornale locale in cui deve azzeccare la casella in una scacchiera. Il gioco si chiama “Dove andrà oggi il nostro Omino Verde?”. Gum pratica un sistema studiato alla perfezione per poter arrivare alla soluzione, spedisce la risposta al giornale e vince sempre, piccole somme di denaro che comunque lo fanno vivere agiatamente.
La narrazione di Dick, sempre sobria e semplice, diventa incalzante col passare degli accadimenti, Gum si accorge che qualcosa non torna in quella piccola cittadina e nel gioco a premio che inevitabilmente vince, finché non arriverà a scoprire che la realtà è tutta una montatura, che “loro”, qualcuno da fuori, fa di tutto perché lui continui la sua solita vita, senza poter scappare da quel luogo, da quelle persone, dal giornale recapitatogli tutti i giorni fuori dalla porta di casa.
Il fattore che mi stupisce sempre in Dick, nella sua scrittura, è che seppur abbia uno stile minimale, spesso goffo, con uno stile asciutto forse troppo, riesce sempre ad essere incalzante, i suoi libri li leggi di un fiato. È uno di quei casi in cui la visione supera di gran lunga la manodopera. È la sua genialità che conta, il suo scrutare profetico nel buio, le sue allucinazioni tremendamente attuali, sempre attuali. Come ha detto anche egli stesso Dick non è uno scrittore di fantascienza, neppure uno scrittore, è un filosofo.
Come ho già accennato gli assiomi concettuali di Dick affiorano in questo libro prepotentemente. È il suo vero e proprio primo libro sulla paranoia, sul complotto. Ma la metafora intellettuale di Dick è profonda, non si esemplifica con slogan o semplici esempi, bisogna viverla tramite le sue sempre originali parole, il suo chirurgico attacco allo status quo.
Una risposta
Ho una trilogia di Dick a casa, è ora di vedere di che si tratta…