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Recensione : Spain – Mandala Brush

Musica eroica per questi tempi sghembi, la fattura pregiata di ogni brano schizza eroina negli occhi, sembra di rivivere le leggerezze di droghe decantate in passato, ma quello che stuzzica il mio appetito è l'alone marcato che crea questa band 'out of time', riuscendo a farmi sentire intensi odori d'incensi, acredine, riti mitici, totalmente in spirito free, slegati dalla formula che il prodotto deve sfondare forzosamente, si percepisce l'attitudine amorosa per certa musica da jam, collettiva, adagiati su un tappeto persiano a piedi nudi: la pillola folk, la contaminazione etnica strumentale, i meravigliosi cori e i raddoppi vocali, sono invincibili almeno quanto la batteria e la chitarra. Sofisticatissimi nell'entrare in posti così datati alla perfezione, beh, credo che possano in assoluto fare ancora meglio.

Settimo disco per la band americana SPAIN, capitanata, in questo straordinario album di ‘indie psychedelic pop slowcore americana free jazz’,  dal membro fondatore Josh Haden (basso, voce solista) e dai collaboratori di lunga data Kenny Lyon (chitarra), Shon Sullivan (chitarra acustica, tastiere) e Danny Frankel (batteria); tra l’altro vi suonano anche due delle sorelle di Josh, Petra Haden [(violino, coro) Foo Fighters, Mike Watt, the Decemberists, Iggy & the Stooges] e Tanya Haden [(violoncello, coro) sessions con Silversun Pickups e Sea Wolf]: tutti e tre figli del leggendario bassista jazz Charlie Haden!

Nei credits troviamo anche i talentuosi Mike Bolger (fisarmonicista, tromba), Matthew DeMerritt (flauto, sassofono) e David Ralicke (clarinetto, flauto, trombone).

Tutti i musicisti sono abituali frequentatori presso il Love Song Bar (locale dove sono stati provati per mesi i pezzi) di Los Angeles, città dove Kenny e Josh hanno prodotto l’album. Tutte le canzoni sono state registrate dal vivo in studio e non sono stati utilizzati click track.
L’impostazione seria nell’affrontare il loro genere li fa apprezzare notevolmente ed è facile cadere ammaliati preda delle 11 tracce, riscoprendo un mood selvaggio, consolatorio, sofferto e gitano.

Maya in the Summer.
Basso liquido, ipnotico, sorregge le pennate di chitarre e i vocalizzi del singer, si spande odore floydiano di fine sixties, giostrando una galoppata attraverso i canyon quale viaggio interiore al volgere della mutazione, indicando la intrapresa direzione che farà sospirare ben altri luoghi inaccessibili, filando tra terre rosse e paesaggi crepuscolari solitari; il battente delle evoluzioni chitarristiche ne forgia l’ingioiellato pezzo che vagabonda in western mood, rockeggiando la ALL IS LONELINESS della Joplin, a cui si potrebbe accostare, silenziandone la disperata e profonda malia blues della cantante texana ed esperendo un notevole canto gitano meno triste e gradato in evanescenza di tinte peyote, ove spira acida la crescente psichedelia…. L’aria torrida (sentire tutta la sezione ritmica che si avalla) si stempera in lamento sciamanico, bramando nostalgia per sentori buckleyani che non attecchiscono; le impennate rock, poi, a briglia sciolta, innalzano a dovere cotanto purosangue introspettivo.

Amorphous.
Percola il fluido, alambiccato richiamo adornato di frizzi percussivi, le vibrazioni sono contenute nello spettro del basso che si amalgama con l’elettrica, intonando l’abbandono del canto, stando a picco sotto il sole del sofferto incanto perduto ed oscurato dal finale lunare.

Tangerine.
Ribolle il miraggio all’orizzonte e le fughe sonore immortalano scie di nuvole, complici sax and violin più guitar, lambendo lidi H.P. Lovecraftiani intarsiati di libero jazz migratorio soggetto all’inquietante gorgoglio del basso: anfratti bui e spaziali sono dipinti dalla batteria che arrovella il ritmo, convergendo nel tutt’uno sapiente, consapevole, sgombro ondeggiare di trame rituali spirituali.

† 하나님은 사랑 이시다. [GOD is love].
Si sparisce spaziando attraverso l’eden ricolmo di delizie rare, annusando i generosi profumi della flora di giardini sontuosi speziati da venti addolciti da brezze inconsuete che veleggiano a noi provenendo da lande misteriose de ‘le mille e una notte’, auscultando scenari di città mediterranee illuminate dal fervore notturno, rese serene e gaie dalle tradizioni secolari, sui cui marmi delle cucine vengono stese le migliori paste di pregiati alimenti, elucubranti di visioni, che allettano lo spirito e la mente, preparando allo smarrimento dentro coloriture brune spuntate da grotte magiche riflesse su trasparenti specchi marini, facendo sì che ci si perda lungo sognanti altipiani stellati, dissetati da elisir orientali, contaminando il sentimento benevolo e cosmico con gli effluvi e le essenze drogate di paradisiaci altrove. E il tempo passa indisturbato sollevato da soffi impercettibili di bianche farfalle.

Folkstone, Kent.
Zitto nell’ascoltare tanta meraviglia, pensando solo agli elogi compositivi e melodici infusi in detta pozione fatata, che, sebbene mi riportino a sogni californiani di fine sixties, dimenticati chissà poi e perché, a cui ci si ispira, innestano in organico la tromba in Davis style accentuando il valore di una song che parla da sola.

[rooster † cogburn].
Io credo, una rivisitazione ad hoc presa a metà tra gli albi dei primi Pink Floyd e la psichedelia californiana rigorosamente sixties, pescando in aree misteriche i cui soli accenni mettono i brividi per ricercatezza, considerando pure un accennato lato oscuro folk jazzato. La sanno lunga gli SPAIN, si muovono nel loro habitat uguali ad una manta marina!

Sugarkane.
La possiamo annoverare quale ballata tecnicamente classica, risponde maggiormente a canoni sentitamente più moderni; qui gli impasti vocali dettano legge ricordando che tra i nineties e i sixties alberga ben salda l’originalità di una band che non teme di seguire sentieri cancellati dagli itinerari usuali, dove il clima e la natura selvaggia sono innegabili fonti di ispirazione. Forse il più pop dei pezzi, ingigantito dalla cocente perfetta chitarra elettrica.

पवित्र [Holly].
Si è succubi della ispirata dolcezza e della evocata malinconia, riecheggiano fuori arie dell’est europeo; l’intimità dell’atmosfera è così pregna che resta difficile non sollevare lo sguardo verso occidente contemplando lo scomparire del sole.

You Bring Me Up.
Canzone alla Randy Newman, immortalando sull’altare dell’Alice’s Restaurant la sfuriata della grandiosa marcia soul, gospel’n’blues, ricordando la Franklin e il Re Solomon!!!

The Coming of the Lord.
Tra Clapton e il rock libertario sudista, con alla voce un immaginario Ted Neeley a cui hanno somministrato olio di hashish  nell’insalata proprio durante l’ultima cena! Il cantilenato aiuta ad avvalorare la tromba (ricordando in surplus le cose più belle di quell’unico album dei Blind Faith, strizzando l’occhio ai Traffic, focalizzando l’estasi da sballata folk-rock) che incute realismo magico sopra il tappeto volante delle tastiere.

Laurel, Clementine
E’ la gemma dell’album che seduce il cuore, entra in vena, come lo stantuffo della siringa della panna da iniettare sul dolce, infarcendo una bohémien song che fa letteralmente strike ad occhi chiusi (e impacchettati a stelle e strisce).
Through the times and past.

ETICHETTA: Glitterhouse Records

TRACKLIST
1 Maya in the summer 07:09
2 sugarkane 04:19
3 [rooster † cogburn] 08:18
4 You bring me up 04:24
5 tangerine 08:50
6 पवित्र [Holly] 04:35
7 Folkestone, Kent 04:49
8 laurel, clementine 03:16
9 † 하나님은 사랑 이시다. [GOD is love] 14:57
10 The coming of the Lord 05:12
11 Amorphous 06:37

LINE-UP
Josh Haden – basso, voce solista
Kenny Lyon – chitarra
Shon Sullivan – chitarra acustica, tastiere Danny Frankel – batteria
Petra Haden – violino, coro
Tanya Haden – violoncello, coro
Mike Bolger- fisarmonicista, tromba
Matthew DeMerritt – flauto, sassofono
David Ralicke – clarinetto, flauto, trombone

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