Institute live at EKH, Vienna, Austria/31 Maggio 2019
È una calda serata di fine primavera quella in cui vengo accolto nella capitale austriaca; Vanja, mia storica compare di marachelle in provincia, stabilitasi da due anni al nord, viene a raccattarmi in stazione con l’indispensabile bicicletta rosa.
Dopo il gossip di rito, le fresche notizie da portineria che porto in grembo dalla riviera, giungiamo in Rüdengasse (letteralmente “la strada delle cagne”), nel palazzo dove la “sister” condivide casa con una manciata di ragazzi e ragazze prevalentemente altoatesini.
Giusto il tempo di sorseggiare un par de birrette (rigorosamente viennesi e in maxi-latta)di accomodamento che si fa ora di mondanità; non volendo sprecare nemmeno un istante di questa mia rara comparsata lontano dal focolare domestico, mi lascio trascinare in uno storico edificio occupato di Keplerplatz, l’E.K.H..
Entrati, preso d’assedio il giardinetto interno, apprendiamo di un fatto singolare: quella stessa sera suona uno dei gruppi più interessanti del nuovo punk a stelle e strisce, gli Institute from Austin, TX. I miei commensali non si sorprendono del mio malcelato entusiasmo, dicono: “You’re a fuckin music nerd, Puglia” e mi trascinano al piano di sopra dove si trovano due luoghi di grande interesse sociale, il bar e la minuscola ed oscura sala concerti.
Attaccano gli americani.
Dopo dieci secondi di rullate marziali siamo travolti da una miscela sonora unica e travolgente.
Scampanellii chitarristici degni del Metal Box, varie attestazioni di stima verso Rikk Agnew e altro punk americano vedi i Flipper (il cui adesivo campeggia sul thunderbird del bassista), debito verso la nuova scuola wavepunk nordeuropea, vedi IceAge e Lower, la cui foga hardcore è però rimpiazzata dallo stilealbionico ’77 del cantante (frangetta, movenze epilettiche e rantolo irresistibili).
Gruppo EXTRAORDINAIRE, per dirla con Arrigo.
Notare che nonostante la violenza del sound gli uditori fossero molto focalizzati sulla musica e poco sull’attitudine, certamente travolgente, della band, ovvero, delle volte ho come l’impressione che basti sconfinare dal bel
paese per trovare, a parità di contesto e ambiente, chi esca di casa per ascoltare della buona musica e non per scaricare le frustrazioni della working week in atti di violenza e virilità non dissimili dalle pratiche di chi si diverte a far cinghiamattanza. Comunque… mi ritrovo a fine live ancora ebbro di suoni mirabili e birre bianche a gridare che “(Post) Punk’s still alive!!!” tra l’imbarazzo e l’ilarità dei presenti.
Compro una cassetta live (The Beat Session – Shout recordings, 2018) contenente una versione dilaniata di Pictures of Matchstick Men originally by Status Quo e torno a casa senza pive nel sacco.
Il più bel live a cui mi sia capitato di assistere negli ultimi tempi mi è costato cinque euri e l’affluenza non superava i trenta cristiani, tutto questo nei giorni del Firenze Rocks e dei grandi festival.
Rimango inamovibile nel pensare che quel tipo di format consti di una dimensione dispersiva e disumanizzante dell’esperienza live, che sia raro incontrare gruppi che non siano dinosauri semoventi del rock sui palchi grossi, quindi in ultima analisi, sparatevi voi e i fottutissimi Cure.