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Recensione : La Frontiera Scomparsa Di Luis Sepulveda

Luis Sepulveda
La frontiera scomparsa di Luis Sepulveda

LIBERI di LEGGERE

“La frontiera scomparsa” di Luis Sepulveda, edito da Guanda

In America Latina è scomparsa una frontiera che portava nei territori della felicità, sono giunti tempi terribili e la strada è diventata un labirinto senza uscita. Ma un giovane che ha conosciuto il carcere, la tortura e l’esilio, continua a cercare quella frontiera.

Libro di formazione di Sepulveda, del ‘94.

Potrete leggere passaggi come questi:

• Mio nonno. Un personaggio insolito e terribile. (…) Camminavamo per Santiago una mattina d’estate. Il vecchio mi aveva già offerto almeno sei gassose, altrettanti gelati si erano ben liquefatti nella mia pancia, e sapevo che aspettava di essere avvisato del mio bisogno di urinare. Forse si preoccupò davvero dei miei reni quando mi chiese: “Be’? Non vuoi pisciare? Accidenti, bambino mio. Con tutto quello che hai bevuto…” La mia risposta normale, quella solita, avrebbe dovuto suonare drammaticamente affermativa, con le gambe ben strette a sottolineare le parole. Allora lui, togliendosi di bocca il mozzicone di sigaro che gli penzolava sempre dalle labbra, avrebbe sospirato per poi esclamare nel più didattico dei toni: “Aspetta, bambino mio. Aspetta e tieni duro finché non troviamo la chiesa adatta”. Ma quella mattina avevo deciso di farmela addosso, se necessario, piuttosto che subire di nuovo gli insulti di qualche prete. La gag di gonfiarmi di gelati e gassose per poi farmi urinare sulle porte delle chiese la ripetevamo fin dal giorno in cui avevo imparato a camminare e il vecchio mi aveva trasformato nel suo compagno di scorribande, piccolo complice delle sue bricconate di anarchico in pensione. Su quante porte di chiesa avrò pisciato… Quanti preti e beghine mi avranno coperto di improperi…

• La domenica precedente mi ero alleggerito la vescica contro la porta centenaria della chiesa di San Marcos. Non era la prima volta che le vetuste assi mi servivano da vespasiano, ma quel giorno evidentemente il prete era all’erta, perché mi sorprese nel momento migliore della pisciata, quando ormai è impossibile trattenere il getto, e tirandomi per un braccio mi obbligò a girarmi verso il nonno. Poi, indicando il mio pisello zampillante con un dito profetico, il prete sbraitò: “Si vede che è tuo nipote! Si nota la piccolezza della vostra razza!” Che domenica. Finii la pisciata sugli scalini della chiesa, guardando atterrito mio nonno che scaraventava via la giacca, si tirava su le maniche della camicia e sfidava il prete a cazzotti, duello che fortunatamente fu evitato dai chierichetti e dai baciapile del coro, perché anche il prete rispose alla sfida rimboccandosi le maniche della tonaca. Che domenica.

• Mio nonno. Ricordo la prima volta che lo obbligai a leggere una copia di “Gente Joven”, la rivista dei giovani comunisti. Lesse attentamente tutte e quattro le pagine, e concluse che, pur essendo pubblicata da un gruppuscolo di accoliti del potere stalinista, non era male come primo passo verso la comprensione del vero ordine: “Non quello che impone lo stato, cazzo, ma quello naturale, quello che nasce dalla fratellanza tra gli uomini”.

• La stanza degli interrogatori era preceduta da una sala d’aspetto, come un ambulatorio medico. Lì ci facevano sedere su una panca con le mani legate dietro la schiena e un cappuccio nero in testa. Non ho mai capito la ragione del cappuccio, perché una volta dentro ce lo toglievano e potevamo vedere chi ci interrogava, i soldatini che con espressione di panico giravano la manovella del generatore elettrico, gli infermieri che ci applicavano gli elettrodi all’ano, ai testicoli, alle gengive, alla lingua, e poi ci auscultavano per decidere chi fingeva e chi era davvero svenuto sulla “griglia”. Quel giorno il primo a essere interrogato fu Lagos, un diacono degli straccivendoli di Emmaus. Da un anno lo tartassavano chiedendogli la provenienza di una dozzina di vecchie uniformi militari trovate nei magazzini degli straccivendoli. Erano una donazione di un commerciante che vendeva residuati militari. Lagos urlava per il dolore e continuava a ripetere tutto quello che la soldatesca voleva sentire: quelle uniformi appartenevano a un esercito invasore che si apprestava a sbarcare sulle coste cilene.

• Il pedicure era un civile, un latifondista a cui la riforma agraria aveva espropriato varie migliaia di ettari, che si vendicava partecipando come volontario agli interrogatori. La sua specialità era sollevare le unghie dei piedi, il che provocava terribili infezioni.

• (…) venne il golpe militare e il resto è storia nota. (…) Di Alicia e di Juanjo, per quanto indagassi, non riuscii mai a sapere nulla, neppure se erano ancora vivi. Così quella sera d’agosto del 1977, camminando per Montevideo, continuavo a pensare a loro. Erano tempi duri quelli. Montevideo era ed è una città che amo. Ho avuto molti amici laggiù, ma nel 1977 era meglio non avvicinarsi ad alcuna casa per chiedere notizie. La paura inondava tutto. E nella paura si annida il sinistro uccello della delazione.
• (…) mi aprì Juanjo, più vecchio, più robusto, con qualche capello bianco, ma col suo impeccabile sorriso di bel tipo. (…) Mentre prendevamo un mate mi raccontò in fretta che lui e Alicia avevano passato sei mesi nello Stadio Nazionale di Santiago, un campo sportivo che la dittatura aveva trasformato in campo di concentramento, che da lì se ne erano andati a Panama, e che poi erano tornati in Uruguay per continuare la lotta contro la dittatura.

• Accanto al vecchio c’era un tavolo, e su di esso un bicchiere d’acqua e delle zollette di zucchero. Cercai sulle mattonelle una testimonianza della mia infanzia, ed era lì, in due o tre gruppi di mosche schiacciate e seccate al sole. Mio nonno ammazzava il tempo nello stesso modo: si infilava in bocca un po’ di zucchero, lo inumidiva con un sorso d’acqua, e subito sputava il miscuglio. Poi metteva un piede leggermente sollevato su quella dolce trappola e aspettava che arrivassero le mosche. E allora, ciaf. “Ma Geraldo! Come puoi essere così cattivo?” lo rimproverava la nonna. “E’ un favore che faccio all’umanità. Se queste bestiacce si evolvono, diventano o preti o militari”, rispondeva il nonno.

Uno è di dove si sente meglio.

Marco Sommariva

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