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Recensione : The Drin – Engines Sing For The Pale Moon

Questo è un disco Punk Rock poiché non è un disco Punk Rock.

Questo è un disco Punk Rock poiché non è un disco Punk Rock.

Non è un disco Punk Rock poiché, verrebbe da dire, è più imputabile alle regioni oscure della musica Post Punk;

nel Post Punk, tuttavia, ci sta il punk, nella sua tensione, nella sua disperazione, nella sua differente, eppur sempre asservita ai soliti propositi, concezione di minimalismo.

Forse ancora più minimale.

È dunque, questo disco, proprio perché minimale fino all’osso e teso, tesissimo, più punk rock di quello che, normalmente, verrebbe definito come tale?

Ebbene, chi se ne frega?

La Drunken Sailor, etichetta inglese che nel mondo punk spopola, sembra fregarsene quanto me e, come già dimostrato, ferma procede per una strada iniziata con A Culture of Killing, proseguita con Altar of Eden e Nag, e per adesso stazionaria su questi The Drin.

Alterna di fatto uscite Power Pop pendente verso il Punk Rock (i recentissimi Mr. Teenage), Garage Punk d’assalto (Stiff Richards e The Stools), Hardcore a colpi di mannaia (Chain Whip) e numeri alla NoMeansNo a 45 giri (Knowso), con la ricerca di punti in comune tra Punk, Post Punk e Dark Wave.

Solo che qui, nello specifico caso dei Drin, si registra una maggiore propensione verso una dark-minimal-pagan Wave pura e quindi scevra di punti di contatto col punk rock .

Qui si oscilla nelle manifestazioni più caserecce della minimal wave mitteleuropea di A Blaze Colour (I’m Only 75) e Solid Space (For the Tasrina) esperimenti sospesi tra dub e synth oscurissimi (Sense of occasion) e ballate per sola chitarra acustica ed ambiente, in odore di campagne inglesi presiedute da streghe e rituali pagani (The Creek at Sundown).

Immancabili, per amore di completezza ed insieme, e necessarie, le versioni casalinghe dei Joy Division di Unknown Pleasure (Move to Extinction, con quella drum machine dal suono simil industrial e ossessivo e quel senso di abbandono che solo la bassa risoluzione può dare, Guillottine Blade, anche lei martellante e depravata ma con una prova vocale deliziosamente apatica e priva di vita e Full Moon Natural Sickos, con quel basso penetrante e quell’andamento da rituale pagano che pare quasi trovare un punto di contatto tra i 4 di Manchester e i Virgin Prunes).

Il disco, infine, trova anche il momento di inabissarsi in gelide filastrocche acide e disperate, segnate da echi, bassi profondi, armoniche a bocca desolate, come in uno spaghetti western alla Sergio Leone (la stupenda Fate in Disguise…).

Un album che, nel suo contesto di riferimento, varia parecchio, da canzone e canzone, e segnala punti di appoggio piuttosto notevoli (dai più noti Joy Division a quelli più di nicchia tipo A Blaze Colour e Solid Space) e che riesce ad amalgamare il tutto in maniera esemplare grazie all’approccio artigianale, poeticamente DIY e spiccatamente, come volevasi dimostrare, Punk Rock:

registrazione povera ma urgente, istinto che conduce sempre dritti al punto, senza troppi lacchezzi e cerimonie, e capacità di sintesi notevole.

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