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Recensione : NOT MOVING L.T.D. – LOVE BEAT

Non è certo facile occuparsi a cuor leggero (e con un approccio disinteressato alla materia) di una band come i Not Moving.

Non è certo facile occuparsi a cuor leggero (e con un approccio disinteressato alla materia) di una band come i Not Moving.

 

E’ difficile mantenere, in generale, un certo equilibrio “giornalistico” per cercare di riuscire a non sperticarsi in elogi di amore incondizionato verso un gruppo che, da ben quaranta anni a questa parte, ha segnato e scandito la vera storia del rock ‘n’ roll indipendente in Italia (e non quella millantata da altre band nostrane, poi ascese al successo mainstream di massa) quella fatta di militanza underground e sbattimenti in giro per l’Italia e l’Europa con l’intento di far conoscere la propria proposta musicale e culturale, senza avere come secondo fine (comune a tanti ensemble di ieri e di oggi) l’ossessione di ottenere fortune economiche, pur nella consapevolezza di sentirsi ribelli senza uno scopo (o meglio, uno sì, e cioè la dedizione alla causa degli indiani nativi d’America, portata avanti con passione e impegno da decenni dal chitarrista Dome La Muerte) e senza una precisa bandiera, e quindi fuori tempo e fuori luogo per la mentalità parrocchiale del nostro “Bel Paese”, da sempre polarizzato su due fronti e poco incline a digerire band e musicisti non inquadrabili in uno “schieramento” ben definito, imprevedibili mine vaganti e fuori dagli schemi che, come i Not Moving, non volevano e non vogliono far parte dell’ingranaggio delle grandi multinazionali della musica, quelle che ti mettono in bocca le azioni e i discorsi “giusti” da fare (anche se va detto che oggi, ormai, tanti artisti di primo piano non si espongono più, se non per assumere generiche posizioni di comodo “per la pace”, come sta accadendo in queste settimane, ma non possono esternare ciò che pensano davvero, gli si impone di scrivere i soliti testi smielati in stile “amore mio ti amo, non vivo senza te” ecc. ecc. che non fanno pensare, altrimenti se diventano troppo “politici” perdono il loro pubblico generalista e la major di turno gli fa saltare la data estiva sold out allo stadio San Siro) e che in passato, pur di rivendicare la loro libertà espressiva e il controllo sulla propria arte senza interferenze esterne, hanno anche rifiutato offerte importanti di denaro che pretendevano in cambio, oltre alla svendita commerciale, anche l’annacquamento dell’anima dannata e genuina del loro rock ‘n’ roll senza compromessi.

 

Vestivano di nero, ma erano invisi sia a coloro che avevano una certa idea “nostalgica” di quel colore, perché chi si aspettava una risposta italiana di grezzo street punk deviato “Rock against communism” a (infauste) esperienze inglesi come gli Skrewdriver restava spiazzato e disorientato dalla miscela sonora dei Not Moving, che univa la tensione sessuale dello psychobilly dei Cramps, il punk-blues pionieristico dei Gun Club e dei losangelini X, il post-punk e il dark à la Siouxsie & The Banshees, il garage rock e la psichedelia allucinata dei Sixties (e cioè la musica dei figli dei fiori, hippies riverniciati diversi lustri dopo la “Summer of love” con chiodi di pelle e le spille da balia del punk) ma non erano benvisti nemmeno dalla tribù dei centri sociali occupati, perché agli inizi il movimento punk veniva (ingiustamente) tacciato dagli ideologi di partito e dall’opinione pubblica benpensante di avere sospette “simpatie fasciste”, e poi negli anni Ottanta il furore dell’allora quintetto piacentino-pisano era focalizzato sul vivere un sogno giovanile all’insegna dalla triade sesso-droga-R’N’R e sui palchi faceva parlare la musica, non aveva comizi né slogan da sviscerare, pur essendo antifascista.

 

Insomma, di loro si può ben dire che erano “shot by both sides“, come canta(va)no i Magazine di Howard Devoto: alieni in un’epoca non ancora pronta a recepire certe commistioni tra vari mondi.

 

 

Cosa stavo dicendo, prima di partire col mio solito pippone divagante? Ah sì, che è difficile conservare distacco e lucidità critica (come il ruolo di “giornalista” imporrebbe) quando si parla di Not Moving, ed è dura resistere alla tentazione di ribadire che nei loro confronti non sarà mai abbastanza l’affetto, la gratitudine e la riconoscenza espressi dai fan, e dal sottoscritto, in recensioni come questa, per tutto quello che hanno rappresentato in queste ultime quattro decadi.

 

Già, ma infatti io sono solo un amatoriale scribacchino di provincia, non sono Lester Bangs, e allora perché darsi un tono da “professionista” imparziale mentre tento di analizzare un disco di una band che amo? Scrivo su una webzine che mi lascia totale libertà di azione, e posso permettermi di affermare questa frase: Fanculo ai manierismi e viva i Not Moving!

 

Dal 2019 il percorso dei nostri ha parzialmente cambiato ragione sociale, aggiungendo l’acronimo LTD (e cioè Lilith, Tony e Dome, i tre membri superstiti della line up “classica” dei Not Moving) unendo di nuovo le forze per riprendere un cammino che si era interrotto nel lontano 1988, quando i due membri fondatori del gruppo (nonché coniugi) la frontwoman Rita “Lilith” Oberti e il batterista Antonio “Tony Face” Bacciocchi avevano lasciato la band per dedicarsi ad altri progetti, non prima di aver registrato un ultimo, seminale album insieme, “Flash On You“, ultima testimonianza del combo al completo, prima di uno split che poi ha visto Dome La Muerte (chitarrista e cantante tra i prime mover della scena punk italica di fine Seventies e inizio Eighties, che entrò a far parte dei Not Moving dopo l’incredibile parabola musicale vissuta agli esordi coi pisani Cheetah Chrome Motherfuckers, da lui cofondati) tenere in piedi il gruppo per altri successivi otto anni, tra cambi di formazione e anche nel sound. Trentaquattro anni dopo, è cambiato (più in peggio che in meglio) il mondo e tutta la società che ruota intorno al nostro (soprav)vivere quotidiano, tranne i rapporti di forza capitalista che la regolano, dove infatti chi è ricco diventa sempre più ricco, e a subìre le angherie dei padroni prepotenti sono sempre gli stessi soggetti sociali: i poveri e le persone che, non per estrazione di ceto ma per ideali e convinzioni, hanno scelto di stare sempre dalla parte sbagliata della barricata.

 

 

E tra il girone degli “eterni ribelli” (che una volta si definivano anche “freaks“, gli stravaganti, i creativi) trovano sicuramente posto Domenico, Rita e Antonio, gente che non si è mai piegata a interessi di bottega per il vil denaro, ma è sempre andata avanti per la propria strada, proponendo la loro arte innovativa e anticonvenzionale, e ancora oggi, a sessant’anni e oltre “suonati” (è il caso di dirlo) è ancora lì a resistere alle ingiustizie del tempo che passa e a regalarci un mare di energia in giro per i palchi e i club d’Italia con concerti infuocati e appassionati, fungendo da esempio e speranza per le rock ‘n’ roll band più giovani, che devono guardare a questi musicisti non come “matusa” sulla via del pensionamento, ma come fratelli maggiori che ne hanno viste tante, dispensano consigli e danno delle dritte preziose (su come muoversi nel mondo della musica, molto spesso paragonabile a un oceano di merda popolato da squali voraci e opportunisti) a chi ha deciso di intraprendere il loro stesso viaggio.

 

Not Moving - Not Moving L.t.d. - Love Beat

 

Trentaquattro anni dopo l’ultimo long playing “storico”, Lilith, Tony e Dome sono tornati in pianta stabile, ricongiungendosi dopo un lungo, combattuto e sincero vissuto attraverso tutte le esperienze e le sfaccettature del rock ‘n’ roll, non rinnegando quanto fatto in passato (che comunque negli Ottanta fruttò, come Not Moving, e prima di “Flash on You”, tre leggendari Ep, “Movin’ Over“, “Black ‘N’ Wild” e “Jesus loves his children”, e un album, “Sinnermen“, più il mini-album “Land of Nothing” del 1984, ma pubblicato solo nel 2003) ma guardando avanti, aggiungendo al progetto, oltre a “LTD”, anche una nuova chitarrista, la giovane Iride Volpi, già nei Dome La Muerte and the Diggers, e già presente nell’Ep omonimo uscito nel 2019.

 

Oggi i Not Moving L.T.D. sono un quartetto che vede due chitarre (quelle pisane di Dome e di Iride) a ringhiare e riffare, e si registra la mancanza del basso (un omaggio ai Cramps, che incisero i loro primi dischi senza l’ausilio di un bassista) al fine di rendere il sound più asciutto ed essenziale. E la vecchia alchimia di gruppo (un po’ come il sangue di San Gennaro che, puntualmente, si scioglie tre volte l’anno) si è ricreata e funziona anche in “Love Beat“, questo nuovo capitolo sulla lunga distanza dei Not Moving (e primo con la nuova sigla L.T.D.) pubblicato dalla benemerita label pisana Area Pirata, che arriva a due anni dal dilagare della pandemia da covid-19 e conseguente lockdown, che ha costretto il quartetto a un lungo stop casalingo ma, allo stesso tempo, ha permesso ai nostri di tornare alle radici e di ponderare al meglio il lavoro sui brani, sperimentare un nuovo modo di scambiarsi idee e input musicali attraverso le nuove tecnologie, mettere maggiormente a fuoco aspetti importanti come la voce di Lilith che, per sua stessa ammissione, è cambiata col passare degli anni, ma la pausa forzata da tour e prove fisiche “in presenza” le ha permesso di concentrarsi su un uso più efficace del suo canto.

Pronti-via e inizia il paragrafo di una nuova storia, l’opening track “Deep Eyes“, che ci restituisce una band che affronta una canzone dal ritornello tipicamente RollingStoniano con un mood insolitamente solare, quasi allegro e spensierato, qualcosa di inedito rispetto all’immagine e ai canoni classici dei Not Moving, spesso improntati su atmosfere decadenti e cupe. Ma già dalla seconda traccia “Goin’ for a ride” si cambia registro e si passa a un movimentato blues elettrico cantato a tre ugole, con Lilith e Dome (e anche Iride) in gran spolvero.
E nel boogie/glam vizioso à la Marc Bolan-T.Rex di “Down she goes” la performance vocale di Rita si fa più ficcante e penetrante, ed è davvero vergognoso il dato di fatto che lei, figura fondamentale (per bravura, capacità interpretative, attitudine e coraggio) in Italia per lo sviluppo e l’emancipazione delle artiste donne in un mondo, quello del rock ‘n’ roll, da sempre dominato (purtroppo) dall’universo maschile e da una mentalità maschilista, non sia quasi mai citata come esempio positivo da seguire per tutte le rockers in gonnella nel nostro Paese (soprattutto quelle più giovani e agli inizi) e non parliamo di patetiche “quote rosa” (che sanno tanto di contentino concesso dal patriarcato istituzionale per tenere buone le sprovvedute pseudo-femministe liberal radical chic alla Boldrini, mentre in realtà il vero femminismo è altra cosa rispetto al voler sostituire un sistema di potere oppressivo di genere con un altro) ma di vedere riconosciuto il ruolo di Rita in qualità di ispiratrice per tante musiciste, invogliate a seguire i propri sogni nonostante pregiudizi e luoghi comuni sulle donne.
Ma questo è il prezzo da pagare, l’oscurantismo dei grandi media, per aver scelto sempre il sentiero meno semplice da percorrere, quello fatto di dignità e talento, lontano dalle luci della ribalta del mainstream, quando invece questi sono pregi che andrebbero menzionati spesso e Lilith meriterebbe un posto di assoluto rilievo nel panorama rock nazionale. Dopo il solido rock saltellante di “Dirty Time” si arriva alla title track, “Love Beat“, sorta di strisciante e conturbante nenia crampsiana rallentata, in cui Lilith sembra dialogare con lo spirito di Lux Interior, ma anche con la martoriata anima blues di Jeffrey Lee Pierce, visto che il titolo sembra anche rievocare “Sex Beat” dei Gun Club, altra storica influenza per Dome e compagni. E lo spettro dei Cramps aleggia anche nel momento della cover (un appuntamento immancabile per i Not Moving) che questa volta è di “Primitive“, singolo originariamente pubblicato nel 1966 dalla garage/blues/psych band newyorchese dei Groupies, successivamente coverizzata dai Cramps nel loro secondo album, “Psychedelic Jungle” del 1981, e oggi riproposta, in maniera convincente, dal quartetto tosco-emiliano.
Nella parte finale del disco troviamo un trittico composto dalla punkeggiante “Don’t give up“, cantata a due voci da Rita e Dome, seguita dal country di “Rubbish Land” che ha le sembianze di un sentito tributo, ora palesatosi, ai Gun Club strafatti di peyote e vaganti per il deserto del Mojave, e dai 50 secondi bluesati chitarra e voce di “Red Line” che chiudono il trip.
Da segnalare il particolare artwork del disco, con la copertina che raffigura i volti della band in un ritratto disegnato dalla penna biro di Marco Botti.
Love Beat” testimonia una chimica di gruppo che c’è ancora, ma che invece di crogiolarsi nei bei tempi andati, trova da essi nuovi stimoli per andare avanti nonostante tutto, senza gli eccessi della gioventù (ed è anche un fatto naturale, verrebbe da dire: a parte la giovane Iride, la “vecchia guardia” ha ormai figli e nipoti, e non si può mentire al tempo carogna, fingendo di avere venti o trenta anni per sempre) ma la scorza dura e il feeling ribelle sono rimasti e ci regalano un nuovo inizio caratterizzato da un sound sempre elettrico, sebbene meno viscerale e d’impatto, rispetto al selvaggio passato, ma più ragionato e maturo, mostrando una compattezza che forse mai i Not Moving avevano avuto nella loro prima cangiante incarnazione. E ora correte a vederli in concerto, finché si potrà, ne vale (ancora) la pena!

TRACKLIST
1. Deep Eyes
2. Goin For A Ride
3. Down She Goes
4. Dirty Time
5. Love Beat
6. Primitive
7. Don’t Give Up
8. Rubbish Land
9. Red Line
CREDITS:
Lilith: vocals
Dome La Muerte: guitar and vocals
Antonio Bacciocchi: drums
Iride Volpi: guitar and backing vocals
Produced by Not Moving LTD and Ale Sportelli
Recorded at Ale Sportelli Recording Studio. Pisa
Cover artwork: Marco Botti
Inside picture: Antonio Viscido
Thanx: Paul Musu, Stefano & Gianfra, Mama Cri
Dome La Muerte and Iride Volpi play Ufo fuzz empathelectronic and KURO fuzz
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