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Recensione : Kurt Cobain Montage of Heck di Brett Morgen

Proprio per provare a rivedere le mie più intime convinzioni in merito ho deciso qualche giorno fa di guardare il documentario di Brett Morgen “Kurt Cobain Montage of Heck”, l’ultimo in ordine cronologico tra quelli usciti.

"Kurt Cobain: Montage of Heck" di Brett Morgen

Confesso di non aver mai particolarmente amato i Nirvana. Mentre il mondo intero impazziva per “Nevermind” io ero altrove. Nello stesso anno uscivano tra i tanti il black album dei Metallica, “Arise” dei Sepultura, “Gothic” dei Paradise Lost, “Forest of Equilibrium” dei Cathedral, “Blessed are the sick” dei Morbid Angel, “Clandestine” degli Entombed e “Blood Sugar Sex Magik” dei RHCP. Non era proprio semplicissimo trovare posto anche per quella che al tempo sembrava essere la next big thing che faceva impazzire i teenager all around the world. Inoltre ero portato a considerarli l’anello debole del Grunge, intendendo con il termine quel movimento che non fatico a identificare come l’ondata punk di fine millennio, in linea temporale e concettuale intimamente legata a quella seminale degli anni settanta. Per me il Grunge era un’attitudine ancor prima che il movimento sonoro vero e proprio cresciuto e sviluppatosi intorno all’area di Seattle. È innegabile che stiamo parlando di quello che poi alla resa dei conti si è rivelato come il più grande fenomeno musicale degli ultimi 30 anni. Nessuno infatti ha saputo tenere testa ai Nirvana e al loro incontrastato dominio. Ma proprio perché alla lunga il trio finì per diventare l’esatto opposto di quello che in partenza diceva di contestare (il music business) ho sempre guardato a loro come a delle rockstar di livello mondiale estremamente viziate e capricciose, lontane da quell’attitudine intimista e schiva delle altre band, ancorate a una visione della vita, ancor prima che della musica, molto distante da quella di Cobain e soci. Può suonare strano per non dire paradossale guardare al gruppo di punta (commercialmente parlando) di un movimento e considerarlo come la gamba zoppicante, ma per me era e fino ad oggi è stato assolutamente così.

Proprio per provare a rivedere le mie più intime convinzioni in merito ho deciso qualche giorno fa di guardare il documentario di Brett Morgen “Kurt Cobain: Montage of Heck”, l’ultimo in ordine cronologico tra quelli usciti. Anche solo per capire se le mie alla fine non fossero altro che idee bislacche basate su convinzioni dettate da giudizi troppo affrettati. Se prima di vederlo ero certo di non apprezzare i Nirvana, soprattutto per quello che hanno rappresentato (al netto quindi dell’innegabile talento di Kurt Cobain) alla fine delle due ore e mezza ne esco ancor più rafforzato della mia idea.

Quello che emerge dal lavoro di Morgen è un quadro drammatico in cui la povertà e la miseria regnano padrone. Se domani un alieno dovesse scendere sulla terra e gli venisse mostrato “Montage of Heck” alla fine della visione non avrebbe alcuna intenzione di ascoltare i Nirvana, disgustato dalle immagini del documentario. Centoquarantacinque minuti in cui si concentrano tutte le peggiori dinamiche immaginabili. Un insieme di atteggiamenti repellenti che mostrano Cobain in totale balìa degli eventi, incapace di reagire. Non si riesce ad empatizzare con lui, sostenendolo nelle difficoltà. Al contrario più si va avanti con la visione e più la sua figura ne esce sminuita. Non ci sono molti giri di parole: il Kurt Cobain mostrato e raccontato nel film è un tossico qualunque che non riesce più a mantenere un legame con la realtà, e che si spegne lentamente, dentro e fuori, schiavo non solo dell’eroina ma anche della sua compagna, vera burattinaia perversa che lo ha condotto alla morte.

Non c’è, e molto probabilmente non voleva e non doveva esserci alcun riferimento al lato artistico di Cobain, scelta che può avere una sua logica, nel cercare di mostrare l’intimo dell’uomo scisso dall’artista, ma che cade rovinosamente quando ai momenti di intimità della coppia di tossici si alternano spezzoni inediti dei Nirvana on stage. Anche qui si calca la mano sugli atteggiamenti meno edificanti, distanti dal genio musicale che è stato. Chitarre distrutte, microfoni scagliati lontano, amplificatori abbattuti. Il tutto in nome di una gestualità misera e fintamente ribelle trita e ritrita. A fare da contorno a tutto questo, come detto, una discesa quanto mai volgare e morbosa nell’intimo di una persona in difficoltà sin dai suoi primi anni di vita, quando gli venne prescritto un farmaco di non facile lettura come il Ritalin, che infatti, non solo non gli attenua i problemi relazionali ma anzi finisce per peggiorarli.

Quelli che avrebbero potuto essere i contributi più significativi, vale a dire quelli dei sopravvissuti che gli sono stati vicini, invece altro non fanno che aumentare il disagio per chi guarda. I genitori sono due statue di marmo incapaci di provare emozioni, come se il figlio morto a soli 27 anni per essersi sparato in faccia con un fucile non fosse il loro. Peggio ancora l’ex moglie Courtney Love, figura quasi aliena, soprattutto da se stessa. Una maschera di cera che cerca di rifarsi una verginità con tre dita di trucco e un lifting ridicolo che la mostra più giovane della figlia, incapace di ricordare dettagli della loro relazione, schiava di una dipendenza che la gestualità con cui accompagna le sue poche e confuse parole, sembra far trasparire ancora come presente. L’unico essere umano della compagnia è Krist Novoselic, l’ex bassista del trio. L’unico che si commuove, e che fatica bloccato dall’emozione a trovare le parole, in nome di un sincero disagio emotivo, che evidenzia come ancora non sia riuscito a farsi una ragione del dramma.

Il vero dramma però deve ancora venire, ed è quello che si consuma davanti ai nostri occhi, con le scene più intime della coppia. Si tratta di estratti dagli home tapes girati direttamente dai due, in cui non ci sono Kurt Cobain e Courtney Love ma due tossici strafatti in compagnia di una neonata a cui si rivolgono in modo imbarazzante. Schiavi tanto dell’eroina che ormai comanda le loro vite, ma anche di quel personaggio da rotocalco musicale che hanno scelto di impersonare. Nel momento in cui la storia dovrebbe volgere al termine, ecco l’improvvisa comparsa dei titoli di coda. Nessun accenno al suicidio e a tutto quello che il gesto e la sua portata a livello musicale e simbolico hanno rappresentato. Niente, silenzio assoluto. È come se la morte non fosse mai esistita. Completamente rimossa. Scelta assolutamente incomprensibile, soprattutto dopo che ci è stato mostrato il peggio che la natura umana abbia partorito con le immagini degli home tapes. Inutile dire che sono molto peggio le scene deliranti dei due che si trascinano strafatti perdendosi in dialoghi senza senso davanti alla bambina che le istantanee del cadavere. Ma, dal momento che non siamo noi gli addetti al montaggio della pellicola, ce ne facciamo una ragione e andiamo oltre. Con disgusto, ma andiamo oltre.

Prima di chiudere mi punge vaghezza sottolineare l’assenza pressoché totale di Dave Grohl che troviamo solo negli ovvi footage live. La sua scelta di non partecipare è da sposare in toto, al netto di quelle che sono state le motivazioni che lo hanno portato alla decisione. Non è dato sapere se per una pietas cristiana verso Cobain o dall’odio verso la vedova Cobain, autentica mantide religiosa con cui non ha mai avuto modo di legare. A suo modo anche Novoselic prende posizione contro di lei, nel momento in cui la cita ma non la nomina per nome, distaccandosene freddamente ma ricordando come fosse impossibile per Curt provare a disintossicarsi vivendo insieme ad un’altra tossicodipendente che nemmeno durante la gravidanza aveva smesso di farsi di eroina.

Se, come abbiamo detto in apertura, Cobain alla fine si è trasformato in quello che demonizzava in gioventù, crediamo che non sia questo che lo abbia spinto al gesto estremo del suicidio. Si è probabilmente reso conto del fatto di essere già morto da tempo, ma di non aver ancora scelto il giorno in cui ce lo avrebbe comunicato.

Kurt Cobain Montage of Heck di Brett Morgen

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