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“Luglio col bene che ti voglio (vedrai non finirà)”

Mentre cerco di raccogliere le idee e convogliarle in un qualcosa che abbia un senso logico, l’occhio mi cade sul calendario e mi rendo conto che siamo in quel periodo dell’anno in cui dilaga sui social.....

“Luglio col bene che ti voglio (vedrai non finirà)”

Confessioni di una maschera
“Luglio col bene che ti voglio (vedrai non finirà)”
#luglioduemilaventuno

Estate. Umidità. Canicola. Cicale. Sudore.
Questi gli ingredienti di questi giorni. Nell’ordine che preferite.
Mentre cerco di raccogliere le idee e convogliarle in un qualcosa che abbia un senso logico, l’occhio mi cade sul calendario e mi rendo conto che siamo in quel periodo dell’anno in cui dilaga sui social network la triste gara a chi posta per primo le immagini del 20 luglio 2001. Data tristemente incancrenita nelle scissure del nostro cervello da oltre vent’anni.

Oggi come ieri continuo nella scelta di non prendere parte a questa grottesca e squallida competizione che vede circolare le foto di Piazza Alimonda sin dalle prime ore dopo la mezzanotte. E non lo faccio perché reputi non meritevole di attenzione ciò che è accaduto, ma perché penso che si tratta di un gesto divenuto ormai inconsapevolmente automatico, con cui pulire la propria coscienza (di classe). È proprio nell’automatismo che vedo nascere il distacco per quel sabato di luglio, che si rende ancor più manifesto nel momento in cui per i restanti 364 giorni dell’anno ci si dimentica della drammaticità e della portata di quei fatti.

Mi piacerebbe che questo atteggiamento andasse oltre il simbolismo quasi liturgico della ricorrenza, e che (si) guardasse a qualcosa di concretamente attuabile in ogni giorno di ogni mese, per cercare quell’alternativa che abbiamo smarrito in quell’estate genovese ormai così lontana. Forse ancor più dei vent’anni che il calendario sentenzia.

Come detto, in questi giorni cade l’anniversario del G8 di Genova. Ma soprattutto di ciò che quel fine settimana assolato e straziante ha rappresentato, al di là della drammatica morte di Carlo Giuliani. L’errore nell’approccio sta a mio avviso proprio nel guardare a quei tre giorni soffermandosi in modo iconicamente esclusivo sulla morte di Giuliani. C’è molto altro su cui riflettere, che fatichiamo a contestualizzare e rischiamo di dimenticare in modo colpevole. Nel 2001 non è finita solo la vita di Giuliani. È finito tutto. E ce lo testimonia il fatto che, da allora, non solo si è verificato tutto quanto si ipotizzava allora, ma che molto poco, per non dire nulla, è stato fatto per provare a porvi rimedio.

Certo, è quasi superfluo dirlo, la fine drammatica di un ragazzo di 23 ucciso per mano di un quasi coetaneo a colpi di arma da fuoco in maniera del tutto gratuita è un qualcosa di cui non dovremmo mai stancarci di parlare. Ma, al tempo stesso, dovremmo essere in grado di andare oltre, allargando il ragionamento a tutto quello che quel fine settimana ha rappresentato per noi e per il nostro futuro. Dobbiamo essere capaci di allargare l’inquadratura che ritrae il corpo esanime di Giuliani riverso sul terreno in una pozza di sangue. Andare oltre.

Capire il contesto all’interno del quale è necessario collocare il suo omicidio. Piazza Alimonda non è stata la madre di tutte le tragedie, ma uno dei sintomi più esacerbati di una serie di inaccettabili dinamiche andate in scena in quei giorni, in cui, mentre i capi di stato e di governo discutevano di come renderci ancora più schiavi, nelle strade la follia dilagava in violenze, abusi, soprusi, umiliazioni. Tutto il peggior campionario delle dittature militari, come sottolineato da Amnesty International, che negli anni a seguire definì il G8 come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale”.
Piazza Alimonda è quindi l’apice di una tragedia annunciata?
Molto probabilmente sì, ma c’è di più.

C’è la fine di ogni speranza di cambiamento. La fine di un movimento eterogeneo che ci aveva condotto sul confine che separa la sana follia di un’utopia che potrebbe diventare reale, e la realtà dei fatti. L’attesa per quella sospirata svolta è sfumata, sepolta tra le cariche della celere e l’acro odore dei lacrimogeni in una città svuotata e sventrata in nome di un ordine mondiale da mantenere e preservare ad ogni costo. Siamo partiti ventenni e siamo tornati adulti, sfiniti, disillusi e rassegnati. Del tutto incapaci di dare un segnale ai nostri figli che potesse accendere in loro le nostre stesse passioni. Figli nati orfani di quel sogno che abbiamo cullato fino quasi a poterlo toccare.

Credo anche che, per certi versi, indirizzare l’attenzione in modo quasi esclusivo su Carlo Giuliani, faccia parte di un percorso di distrazione di massa, con cui sviare l’attenzione da tutto quello che nei palazzi del potere è stato deciso (e di cui oggi paghiamo le amare e salatissime conseguenze). Tentativo che nella sua folle logica sia stato concepito anche servito come copertura a tutto quello che è andato in onda nelle ore successive al suo omicidio, con le mattanze impunite della Diaz e di Bolzaneto, sfilate via in modo quasi silenzioso, coperte dal clamore mediatico per la morte di un ragazzo durante gli scontri di piazza.

Sono passati vent’anni e siamo praticamente al punto di partenza. E a poco serve postare l’immagine di Carlo Giuliani ogni 20 luglio. Ci sono altri 364 giorni ogni anno in cui ricordarci che siamo ancora in guerra e che i nemici sono sempre gli stessi di allora.

Se guardo ai ventenni di oggi non vedo altrettanto interesse per le tematiche che ci hanno tenuto vivi in quegli anni a cavallo tra i novanta e i duemila, ma non mi sento di dare loro la colpa di questa evidente indolenza. Sono le colpe dei genitori a ricadere sui figli, e anche questo caso non fa eccezione. Dovremmo essere noi a farli ragionare sui fallimenti con cui li abbiamo cresciuti. Fallimenti che hanno determinato non solo un allontanamento dalla politica attiva ma anche dalle piazze. La nostra disillusione è diventata una rassegnazione che ha prodotto in loro un’alienazione dall’approccio etico ai problemi di tutti, per sfociare in un sempre più dilagante individualismo. Anche se credo che oggi sia davvero molto difficile pensare di poter ricreare quel movimento eterogeneo che ha colorato le vie di Genova, sfidando una canicola infernale che inchiodava ogni nostro passo all’asfalto bollente.

Genova 2001 è stato un evento spartiacque da un punto di vista socio politico. Nulla è stato più come prima e nulla di quello che c’era prima tornerà mai più. Abbiamo preso parte ad un esperimento di dittatura militare e ne siamo usciti con le ossa rotte. Il messaggio che ci siamo portati a casa è stato chiarissimo ma non definitivo. Avremmo potuto provare a creare nuovamente quell’entusiasmo ma il mondo ha preso una direzione che non abbiamo capito e ci siamo ritrovati in un turbinio di novità di cui abbiamo capito veramente poco. È cambiato tutto e troppo velocemente perché potessimo restare al passo.

C’è da dire che anche noi non siamo più gli stessi di allora. Abbiamo visto morire la nostra genuina ingenuità e, visto che non abbiamo mai creduto nella reincarnazione e ancor meno nella resurrezione, non ci resta che guardare la nostra lapide spoglia e corrosa dal tempo che corre sempre più veloce. Dobbiamo superare la rabbia, e interrogarci su come riuscire a trasmettere la nostra consapevolezza di allora alle nuove generazioni, senza aver paura di analizzare quei giorni con la dovuta autocritica. Il mondo è come detto sicuramente cambiato in vent’anni ma alcuni valori e alcune dinamiche tendenti all’esclusione sono le stesse di allora. Lavoro, ambiente, migrazioni, sanità e diritti delle donne sono se non allo stesso livello di ieri, quasi.

Sarà la memoria, come sempre a determinare ciò che succederà nel futuro, più o meno prossimo che sia.

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