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Recensione : NEBULA – TRANSMISSION FROM MOTHERSHIP EARTH

Questo è l’anno 2022, siamo bellissimi e strafatti. Se avete della marijuana, fumatela tutta e assumete anche dell’acido. Accendete, sintonizzatevi, abbandontevi (Turn on, tune in, drop out)

 

E’ il messaggio che Tom Davies, bassista dei Nebula, ha lasciato ai posteri, un promemoria per gli “umani del futuro”, per descrivere l’ultimo album sfornato dalla stoner/psych band losangelina, “Transmission From Mothership Earth“, settimo Lp ufficiale , uscito a luglio sull’etichetta romana Heavy Psych Sounds.

 

Un monolite contenente 38 minuti di pura fuzziness, registrato e prodotto in quel deserto del Mojave che, oltre ai nostri, tante altre belle realtà ha generato dalle sue sabbie roventi (la scena di Palm Desert, i generator parties, lo stoner rock, il Rancho de la Luna, le Desert Sessions, i Yawning Man, Fatso Jetson, i Kyuss, i Fu Manchu, gli Unida, gli Hermano, i primi Queens of the Stone Age, i Mondo Generator, gli Earthlings, gli Earthless and so on) da almeno tre decenni a questa parte, ispirate dalla libertà espressiva e dalla furiosa esuberanza della scena punk/hardcore della vicina costa californiana: Los Angeles, San Diego e Orange County (Germs, X, Fear, Zeros, Dils, Black Flag, Circle Jerks, Adolescents, Minutemen, Saccharine Trust, Bad Religion e compagnia veloce e feroce) ma rallentando queste sonorità e filtrandole attraverso l’amore per la psichedelia dei Sixties e l’hard-heavy rock della prima metà degli anni Settanta in generale, e per i suoni truci “doom and gloom” dei Black Sabbath dei Seventies in particolare. Lo stoner, il “rock del deserto”, è stato, a tutti gli effetti, un cugino di primo grado del movimento “grunge” (avendo, in effetti, quasi tutti gli stessi progenitori in comune) che, nello stesso periodo, covava più su negli States, nel Nordovest e a Seattle nella seconda metà degli anni Ottanta, e che poi esplose agli inizi dei Nineties.

 

Highwired“, già primo singolo estratto, apre le danze lisergiche e invita gli adepti a un party heavy-psych condito da otto episodi omogenei che si amalgamano ottimamente in un impasto elettrico cannabinoide. Eddie Glass e Tom Davies, coadiuvati da Mike Amster, si producono in un’orgia fuzz di riff stonati e atmosfere spacey-trippy, e se la title track può ingannare con una falsa partenza “melodica”, dopo pochi secondi tutto torna al suo posto e il trio pesta imperterrito sugli strumenti, trascinandoci in una sarabanda Stoogesiana. “Wilted Flowers” inizia con la voce di Glass che fluttua nello spazio, per poi deflagrare in una tempesta di meteoriti heavy rock fuzzati, e un’altra burrasca a base di echi space rock avvolge “Melt your head“, ennesimo trip allucinato nel cosmo a bordo di una navicella senza carburante e in balia degli eventi. “Warzone Speedwulf” si dipana lungo sette minuti di heavy psych allucinogeno che trasportano orecchie e mente dell’ascoltatore in una dimensione alterata da sostanze stupefacenti e, visto che parliamo pur sempre di revival stoner, era immancabile un titolo come “I got so high“, delirio chitarristico psicotropo Hendrixiano che, (fortunatamente) tiene a distanza dal rock ‘n’ roll bacchettoni e finti perbenisti. “Existential Blues” spinge al massimo il tripudio di feedback e distorsione fuzzata, e la conclusione di questa deprafuzzione è affidata alle atmosfere desertiche e al feeling spaghetti western di “The four horseman“, brano solo in apparenza rilassato e “leggero”, ma in realtà anche in questo episodio i nostri non rinunciano a un’altra cascata di riffoni nella parte centrale, prima che Glass affidi, a chi ascolta, le ultime parole di questo disco (“Ride the waves of the sun, close your eyes and drift away“) che suonano come un mantra simile alla Lennonianaturn off your mind, relax and float down stream“) e del resto parliamo pur sempre di materiale ispirato da quel buontempone di Timothy Leary.

 

Le trasmissioni sono riprese, e possiamo affermare che questo Lp, dopo il warm up di “Holy Shit”, sia un’ottima ripartenza per la seconda incarnazione dei Nebula, che conservano il furore degli anni Novanta ma, allo stesso tempo, cercano di aprirsi a nuovi sentieri che deviano leggermente dal percorso heavy psych prescelto. Fuzz up your ass!

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