Agosto.
Tempo di spiagge, ombrelloni, bikini, sede a sdraio e pedalò.
Tempo di canzoni di merda, vestiti approssimativi, persone in cerca di avventure carnali consumate sotto una luna che si vorrebbe come complice…ma la luna è solo un satellite e giusto il mestiere del satellite fa.
Agosto è anche tempo di letture da spiaggia. Ecco che quindi mi appresto a raccontarvi tre libri che non sono da ombrellone e che non si sposano minimamente con quanto descritto finora.
Perché il mare non mi piace e non ci vado e, soprattutto, sono perfettamente consapevole del fatto che la luna è solo un satellite e che non mi può essere complice in nessun modo o contesto.
Son solito cercare la poesia in altro modo e in altri ambiti: magari in un gesto, in una frase, in un film, in un disco, oppure in un libro;
ecco quindi che il mio Agosto è trascorso senza intoppi, immerso tra gesti, frasi, film, dischi e libri. Ed è di tre libri che ho letto, uno di fila all’altro, che vado a parlarvi, riparato dal clamore pantagruelico delle ferie altrui, nella camera di casa mia che ho ribattezzato “la stanza dei giochi”: uno stereo, un lettore Blue Ray, un televisore, scaffali di libri, dischi, Blue Ray e DVD, un tavolo e una sedia…l’angolo della felicità, la macchina del tempo, uno spazio di libertà invincibile…
Vabbè, a parte le mie seghe mentali, andiamo al punto.
Dei libri che sto leggendo in questo periodo ne ho fermati tre per riservargli il trattamento, spero adeguato, dell’opinione in merito e del commento a riguardo.
Tutti e tre parlano e partono da un presupposto musicale e, da questo, si sviluppano, ognuno con le sue particolarità e necessità narrative.
Il primo è “31 Racconti” di Paolo Merenda
ed è un’autoproduzione dell’autore stesso.
Si presenta come una di quelle edizioni Millelire tanto in voga negli anni ’90 (gli anni dove ho imparato la differenza tra il saper semplicemente leggere e leggere e basta, come atto a sé stante, un verbo che cela in sé altre proficue attività della mente).
Copertina in cartoncino e poche pagine che, in questo caso, non compromettono affatto, ma anzi evidenziano, le capacità dell’autore in fase di sintesi e di acuta e rapida osservazione.
Narrativa che spazia da sortite alla Vonnengut (Alessandria 2050), passando per Ammaniti nel suo periodo più maturo (Okkupazione e Il Figlio di Puttana) e tenendo il tutto stretto in una morsa che sa di neo realismo trattato con la penna di Italo Calvino: prendere Il sentiero dei nidi di ragno come punto di appoggio ma non, mi raccomando, di riferimento principale;
Merenda ha una prosa sua, con peculiarità sue particolarissime: una mano piuttosto abile nello star sospeso tra la cronaca e l’affondo volgare, semplice nelle strutture sintattiche in favore di una lettura fluida e piacevole.
Caratteristiche, queste, che raggiungono il loro picco nei ventotto brevissimi racconti che chiudono la raccolta:
in poche righe Merenda riesce a raccontare vere e proprie odissee, sciagure, attimi di follia e soddisfazioni personali. Alla base di tutto questo, oltre ad un’ottima conoscenza della realtà di tutti i giorni, c’è anche il musicista (perché Paolo Merenda, oltre che scrivere, suona): alcuni dei brevissimi racconti attingono proprio da quest’esperienza e, oltre che risultare piuttosto divertenti (per lo meno a mio avviso), mi fanno pensare a quanto essere un musicista underground in Italia, non portando di per sé né soldi e né fortuna, sia quasi un’attività picara: una marea di perdigiorno, poeti senza verso e facce da galera che si muovono all’interno di un paese che li ignora e, un po’ , li prende anche in giro e loro (ma anche noi, visto che, bene o male, appartengo alla categoria) continuano ad andare avanti, nonostante l’insofferenza altrui.
Stesso spirito è quello applicato in quei racconti che, in questa raccolta, rappresentano la componente di denuncia (insieme al racconto, già citato “Alessandria 2050”): un piglio cinico ma divertito che rappresenta freddamente la realtà per quello che è, senza indulgere in spiegazioni, giudizi o condanne.
Non c’è moralismi in questa raccolta, solo dovere di cronaca, sia che attinga a piene mani dal mondo che ci circonda che dal semplice immaginario. Merenda scrive e diffonde racconti con lo stesso approccio che applica alle sue canzoni: spirito DIY, brevi schegge violente e ironiche, forte distacco dalle consuete modalità di commercio.
Unica pecca: ho cercato i Doomed to Extinction di Alessandria ma non li ho trovati, rendendomi conto che erano solo un’invenzione dell’autore…ci son rimasto male.
-Attualmente Paolo Merenda milita in due gruppi:
https://annosenzaestate.bandcamp.com/
https://bagofsnacks.bandcamp.com/
Cristina Danini “Distorti ed Invendibili”
Edizioni Bookabook
Devo dire di essere rimasto un po’ deluso lì per lì: la premessa era quella di un archivio che racchiudesse in sé l’intero movimento Punk Hardcore torinese degli anni ’80, invece se ne fa solo un resoconto parziale, dando molta voce al giro Negazione/Declino ed Indigesti, mentre si accarezza appena quello più politico di Contr-Azione/Franti/Kina e quello nichilista di Nerorgasmo.
Tuttavia, nella sua parzialità (va anche riconosciuto che, essendo ricco di peculiarità e divergenze, fare un quadro dell’intera scena Punk torinese di quegli anni, sarebbe stato forse un lavoro mastodontico), questo documento riesce ad essere comunque esaustivo, se non altro nei riguardi del contesto e delle persone che qui vengono raccontate: ottima la contestualizzazione storica e socio-politica e impeccabile nel mettere insieme le varie testimonianze e farne un racconto corale.
Le varie affermazioni e conclusioni godono sempre di puntuali riferimenti bibliografici a piè di pagina, il che stimola il lettore ad approfondire da solo e convincersi della bontà ed onestà che anima e giustifica questo saggio:
si, perché questo libro è un saggio portato avanti con un metodo analitico encomiabile. Il suo sviluppo risulta più che gradevole alla lettura, avvalendosi di una scrittura semplice ma ben ponderata nell’utilizzo dei termini; le domande di Danini a Silvio Bernelli (Declino ed Indigesti) e Mungo (Declino) sono brillanti e stimolanti e altrettanto sono le risposte.
Unico difetto sta forse nelle conclusioni: non apprezzo molto quel modo di catalogare il punk come un fenomeno da datare e relegare ad un preciso periodo storico; il punk, soprattutto a Torino, conta di una serie di grandi gruppi e situazioni anche nel decennio successivo.
Magari a dare un perché ed un per come ai successori dei gruppi qui raccontati ci son state altre spinte e motivazioni che sinceramente, avendoli vissuti più di persona, non mi son mai apparsi come scimmiottamenti o affetti da una sindrome di revivalismo: i tempi stavano cambiando (ascoltate e leggete un disco-manifesto di quel periodo per verifica: il bellissimo Parlami Ancora dei Kina) e il punk cambiava con loro.
Tendo a vedere il periodo anni’80 del Punk italiano come una solida base per una costruzione che lo sia altrettanto: darlo per concluso e attribuirne le caratteristiche ad altri generi e sottogeneri mi è sempre sembrata solo una cattiva abitudine, ma, ovviamente, qui siamo nel campo delle opinioni personali fondate sul proprio vissuto; vi invito quindi a farvene una, di opinione, per vostro conto comprando e leggendo questo importante documento a cui consiglierei di accompagnare un altro bellissimo documento: Collezione di attimi, raccolta di foto e flyer dei Negazione.
Luca Azzini “Scrivevamo sulle scarpe”
Edizioni Dialoghi
Una volta un mio amico mi disse che, a suo parere, la mia generazione non era mai stata in grado di raccontarsi.
Un’ incapacità, se vogliamo, cronica nel descriversi e definirsi in un contesto, quello degli anni ’90, dove credere in o combattere per qualcosa era divenuto impossibile: eravamo troppo in ritardo e ci saremmo rivelati troppo in anticipo per essere attori protagonisti di importanti svolte storiche.
Insomma: come ci si sente ad esser cresciuti in un periodo storico, sia nel bene che nel male, piuttosto insipido? Non so quanto questo sia vero (che non ci sia nulla che ci racconti, non che abbiamo vissuto in un decennio incolore e inodore): il film Clerks, Tutti giù per terra, sia il film che il libro, e Paso Doble, mi son sempre sembrate delle rappresentazioni nelle quali mi son sempre riconosciuto, ma, nel caso non fossero ancora abbastanza esaustive, regalerei più che volentieri al mio amico questo libro di Luca Azzini:
una carrellata di recensioni di dischi che non sono recensioni ma veri e propri racconti autobiografici ai quali, questi dischi, sono indissolubilmente legati nel sentire dell’autore; i racconti si uniscono fra loro in un intreccio che, a sua volta, forma un romanzo. Un bel romanzo.
“Il mio attaccamento morboso alle cose della musica, mi risultò presto evidente, avrebbe influenzato e attratto a sé i percorsi del mio raccontare, negli argomenti e nelle forme (…) Per me una band non era semplicemente una band, un disco non era mai solo un disco, quella narrazione era conturbante ed immediata.”
Un vero e proprio romanzo che usa la musica come mezzo, in quanto componente fondante nella formazione dell’autore stesso, per un’autobiografia.
La commistione di musica e prosa risulta ben riuscita poiché Azzini sa davvero mettere insieme le due cose senza far perdere in dignità né l’una e nell’altra: non guadagna il romanzo a scapito della musica e neanche il contrario, i due respirano dagli stessi polmoni e convivono nella stessa penna, donandosi forza reciprocamente.
Un racconto il cui impianto autobiografico da certamente un’ottima base ma che si sviluppa in maniera ottimale grazie alla felicità creativa dell’autore:
Azzini sa scrivere e lo dimostra riuscendo ad alternarsi tra momenti drammatici, senza mai scadere nel patetico, e momenti comici senza marcare troppo il segno; insomma, un perfetto equilibrio che alimenta il piacere di chi legge.
Parlando di sé l’autore riesce, secondo me, a raccontare un’intera generazione, la sua:
“Quegli anni di passaggio furono i miei anni di piombo, la mia lotta era inutile e non interessava a nessuno, ma mi faceva male lo stesso” miglior frase, contenuta nel “capitolo” di Fabrizio De André “Storia di un impiegato”, non potrebbe esserci per descrivere un momento storico e chi si è trovato ad affrontarlo da adolescente.
Azzini, involontariamente o volontariamente, riesce, senza auto-indulgenza e retorica da “Ai miei tempi qui era tutta campagna e prati in fiore”, a descrivere e tradurre in verbo il sentire dei suoi coetanei (tra i quali figuro anch’io: io e Azzini siamo entrambi nati nel 1979) sia raccontando il passato e rappresentandone la sconfitta ai giorni nostri:
come già detto, troppo in anticipo o troppo in ritardo per lasciare un vero segno nella storia ma anche, e qui l’autore è esempio più che esaustivo, l’inconfutabile capacità di poter ancora interpretare il passato, per traghettarlo, in forma artistica, nel futuro.
Alle volte, essere vissuto in un’era di mezzo, può dare dei vantaggi rispetto a chi è stato trattato più benevolmente dal tempo e dalla storia e, ad oggi, o vive di rimpianti e rimorsi, o di sola ansia pensando al futuro.
Per certi versi, quest’opera rappresenta un po’ la nostra redenzione e riabilitazione. Almeno amo credere che sia così.