RI-ASCOLTIAMOLI –
DURAN DURAN “RIO” (1982)
Siamo nel 1978 e, mentre quasi ovunque in Inghilterra nasce e imperversa il punk, nella grigissima Birmingham, patria delle acciaierie britanniche, si formano i Duran Duran. In antitesi, soprattutto estetica, con il movimento punk, il quartetto inizia a dare segni di vita senza disegnare, questa volta musicalmente parlando, un approccio sonoro postpunk. Sarà solo un episodio isolato. Da lì a poco inizieranno la loro scalata verso il successo con un sound new wave e un atteggiamento decisamente edonista. Toccano il loro culmine nel 1982, quando stampano “Rio”, con cui mettono il punto esclamativo alla loro carriera artistica.
L’album è incontrovertibilmente da annoverare come l’apice qualitativo del loro percorso. Non tanto per il successo planetario che stravolge le classifiche di vendita donando al gruppo una visibilità pressoché totalizzante, quanto per il fatto che ogni brano di “Rio” è un singolo potenziale. Sta qui, nella qualità di ogni singolo brano portata al massimo il segreto dell’album. Passano pochi mesi e i Duran Duran si ritrovano a cavalcare l’onda di un fanatismo delirante in ogni angolo del pianeta e non si rendono probabilmente conto che al di là del successo “da copertina” il disco li sta consacrando come i precursori di un synth pop che solo il tempo a distanza permetterà di capire a fondo.
Al tempo li consideravamo, con una malcelata vena snob, troppo “pop”, come se esserlo rappresentasse un difetto, una colpa di cui vergognarsi, e invece molto più semplicemente non capivamo nulla, lasciandoci influenzare dalle ragazzine urlanti stile Beatles. “Rio” era e resta un album coi controcazzi, sotto tutti i punti di vista. Eravamo presi dall’idea che un gruppo così patinato rispetto ai nostri standard punk dell’epoca non potesse essere in grado di realizzare un album “vero”, ma solo di scimmiottare il trend del momento, seducendo le ragazzine e scalando le classifiche.
“Rio” è talmente perfetto che non se ne rendono conto nemmeno i Duran Duran, che, difatti, a partire dal disco seguente, quel “Seven and the Ragged Tiger” che uscirà un anno dopo, e che raggiungerà quel primo posto che “Rio” incredibilmente non vedrà mai, iniziano un percorso fatto di continui passi indietro, anziché consolidare il successo. Pregno di glam rock e di sperimentazione sonora, con un uso dei synth al tempo inedito per un certo tipo di sound pop, “Rio” è stato a torto inserito troppo velocemente nel calderone “new romantic”, ma di romantico aveva in fondo ben poco. Era un ibrido a cavallo tra due decenni che si toccano ma che hanno profonde differenze. Soprattutto a livello di testi e di tematiche trattate, con un riferimento pressoché continuo al narcisismo patologico di una generazione che vuole prendersi tutto e il più rapidamente possibile. E poco importa se ciò significa scendere a patti con il lato oscuro di noi stessi e con la droga facile di quegli anni. L’importante era sconfiggere l’inquietudine dilagante che attanagliava la Gran Bretagna dei primi anni ottanta.
Stilisticamente è un album troppo vario per esser capito immediatamente, al primo ascolto. Serve immergersi all’interno di scelte sonore e arrangiamenti mai banali. Musicalmente a metà strada tra Japan, Kraftwerk, Roxy Music e Chic. Pur senza disegnare un approccio che strizza l’occhio al classic rock. Per chi, come me, ama le dinamiche che vedono nel basso lo strumento predominante, un album come questo è una autentica manna dal cielo. Ed è interessante notare come il basso metta da parte ogni velleità autoreferenziale e predominante sul resto, per guardare all’insieme, alla resa sonora, alla funzionalità del prodotto finale. Se devo in questo caso citare un brano che spieghi meglio delle mie parole il concetto, non fatico a puntare su “New Religion”, esempio perfetto di grande padronanza tecnica e interpretativa.