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Recensione :  “Resto qui” di Marco Balzano, edito da Einaudi

“Resto qui” (2018) ritrae la forza di una comunità quando, aggrappandosi alla rabbia, sceglie di resistere.

Quando arriva la guerra o l’inondazione, la gente scappa.

La gente, non Trina che, caparbia come il paese di confine in cui è cresciuta, sa opporsi ai fascisti che le impediscono di fare la maestra. Non ha paura di fuggire sulle montagne col marito disertore.

E quando le acque della diga stanno per sommergere i campi e le case, si difende con ciò che nessuno le potrà mai togliere: le parole.

Resto qui” (2018) ritrae la forza di una comunità quando, aggrappandosi alla rabbia, sceglie di resistere.

 

Potrete leggere passaggi come questi:

 

  • Nella primavera del ’23 mi preparavo per l’esame di maturità. Mussolini aveva aspettato proprio il mio diploma per stravolgere la scuola. L’anno prima c’era stata la marcia su Bolzano, con i fascisti che avevano messo a ferro e fuoco la città. Hanno incendiato gli edifici pubblici, pestato gente, cacciato con la forza il borgomastro, e come al solito i carabinieri sono rimasti a guardare. Senza le loro braccia conserte e senza quelle del re il fascismo non ci sarebbe stato. Ancora oggi camminare per Bolzano mi scombussola. Tutto mi sembra ostile. I segni del Ventennio sono tanti (…).
  • Mussolini ha ribattezzato strade, ruscelli, montagne… sono andati a molestare anche i morti, quegli assassini, cambiando le scritte sulle lapidi. Hanno italianizzato i nostri nomi, sostituito le insegne dei negozi. Ci hanno proibito di indossare i nostri vestiti. Da un giorno all’altro in classe ci siamo ritrovati insegnanti veneti, lombardi, siciliani. Loro non ci capivano, noi non capivamo loro. L’italiano qui in Sudtirolo era una lingua esotica, che si sentiva da qualche grammofono o quando arrivava un venditore della Vallarsa che risaliva il Trentino per andare a commerciare in Austria.
  • I fascisti intanto occupavano non solo le scuole, ma i municipi, le poste, i tribunali. Gli impiegati tirolesi venivano licenziati in tronco e gli italiani appendevano negli uffici cartelli con scritto Vietato parlare tedesco e Mussolini ha sempre ragione. Imponevano disposizioni di coprifuoco, le adunate il sabato pomeriggio per il passaggio del podestà, le loro feste comandate.
  • (…) da quando ci sono i fascisti niente è più nostro. Gli uomini non vanno all’osteria, le donne camminano rasenti ai muri, la sera non gira un’anima!
  • Passavano i mesi e continuavano ad arrivare colonie di italiani mandate dal duce. Persino qui a Curon ne è arrivato qualcuno. Li riconoscevi subito quei forestieri del Sud, con le valigie in mano e il naso all’insù a guardare pendii mai visti, nuvole troppo vicine. Dal primo momento è stato noi contro loro. La lingua di uno contro quella dell’altro. La prepotenza del potere improvviso e chi rivendica radici di secoli.
  • Una mattina il prete ci venne incontro. Ci spinse in una viuzza vuota, con il muschio che macchiava i muri. Disse che se davvero volevamo insegnare dovevamo andare nelle catacombe. Andare nelle catacombe significava fare le maestre clandestine. Era illegale e voleva dire multe, botte, olio di ricino. Si poteva finire al confino su qualche isola sperduta (…). Il prete mi assegnò una cantina a San Valentino (…).
  • Ormai mi sembravano più delle tarme, quei maledetti carabinieri. Li vedevo ovunque. (…) Una sera due carabinieri hanno sfondato la porta della cantina, neanche fossimo dei banditi. Una bambina si è messa a gridare, gli altri si sono sparpagliati negli angoli voltandosi contro il muro per non vedere. Solo Sepp è rimasto al suo posto e poi, lentamente, si è avvicinato a un carabiniere. L’ha insultato con una rabbia calma che non dimenticherò mai. Il carabiniere non capiva il tedesco ma gli ha tirato un ceffone in piena faccia. Il bambino non si è mosso di un centimetro. Non ha pianto. Non ha smesso di fissarlo con odio. Quando tutti sono usciti, i carabinieri hanno spaccato la lavagna contro il muro, preso a calci le damigiane, ribaltato i mobili.
  • Carabinieri e camicie nere me li sognavo ogni notte. Mi svegliavo di soprassalto tutta sudata e rimanevo ore a guardare il soffitto. Prima di riaddormentarmi perlustravo il maso per controllare che davvero in casa non ce ne fossero. Guardavo anche sotto al letto, dentro l’armadio (…).
  • Le scuole clandestine aumentavano. I contrabbandieri ci portavano dalla Baviera e dall’Austria quaderni, abachi, lavagne. Lasciavano tutto ai preti che poi smistavano il materiale. I fascisti, nonostante piantassero ovunque i cartelli Vietato parlare tedesco, non riuscivano a italianizzare niente di niente e diventavano sempre più violenti.
  • Insegnare in tedesco mi piace (…) e sapere che quel che faccio è contro i fascisti mi piace ancora di più.
  • I fascisti avevano fatto nuove perquisizioni in tutta la valle, multato e arrestato altri maestri. Solo i sacerdoti, con la scusa del catechismo, riuscivano ancora a insegnare il tedesco.
  • Era ossessionato dai fascisti.

– Ci manderanno a lavorare in Africa o a combattere in qualche posto sperduto del loro ridicolo impero, – protestava col fumo in gola. – Adesso ci stanno togliendo il lavoro e la lingua, poi, una volta che ci avranno esasperato e ridotto in miseria, ci cacceranno via di qui e costruiranno la loro maledetta diga.

  • La scuola italiana è una porcheria dove insegnano solo a osannare il duce, molto meglio imparare a lavorare la terra (…).
  • Erich si era messo in testa di andare a cercare lavoro a Merano. Bolzano e Merano erano davvero diventate quel che voleva il duce. Le zone industriali e le periferie si espandevano senza sosta. Si erano trasferite la Lancia, le Acciaierie, la Magnesio. Gli italiani arrivavano a migliaia.

– Ma dove vuoi andare? Mussolini non fa assumere i tirolesi, – ripeteva Lorenz, – è inutile che vai fin lì.

  • Il fascismo sembrava esistere da sempre. Da sempre c’era stato il municipio col podestà e i suoi tirapiedi, da sempre c’era la faccia del duce appesa ai muri, da sempre c’erano i carabinieri che venivano a mettere il naso nei fatti nostri e ci obbligavano ad andare in piazza per ascoltare gli annunci. Ci eravamo abituati a non essere più noi stessi. La nostra rabbia cresceva, ma i giorni correvano veloci e il bisogno di sopravvivere la trasformava in qualcosa di debole e sfibrato. Simile alla malinconia, diventava la nostra rabbia, non esplodeva mai.
  • Piantarono i banchetti ai lati opposti della piazza. Vicino al campanile i nazisti e vicino alla bottega del ciabattino gli italiani. A chi si avvicinava distribuivano dei fogli. I nazisti dicevano di stare attenti: gli italiani ci avrebbero spedito in Sicilia o in Africa a morire come le mosche. Gli italiani lo stesso: “I tedeschi vi manderanno in Galizia, nei Sudeti o ancora più a est. Finirete a combattere nei ghiacci”, dicevano.
  • – (…) Karl all’osteria ripete che con la guerra alle porte non è possibile che ci si metta a costruire dighe.

– Magari ha ragione, – risposi.

– Sono tutte bestie! – gridò. – Pur di non alzare un dito se le inventerebbero, le ragioni!

– Perché dici così?

– I fascisti e la Montecatini sanno che c’è il rischio di una guerra, che noi maschi presto partiremo a combattere, che qui nessuno capisce l’italiano, che siamo solo dei contadini! È il momento migliore per approfittarsene.

  • Lo mandarono nel Cadore e da lì in Albania e poi in Grecia, dove quei cialtroni dei fascisti non sono riusciti a conquistare nemmeno un fazzoletto di terra senza il soccorso dei tedeschi. Dicevano che era un fronte facile, invece moltissimi morirono sul campo o tornarono a casa mutilati. Ogni tanto mi arrivava una lettera. A volte la censura cancellava tutto e di una pagina intera si leggeva solo la riga finale. “Abbraccia Michael per me. Il tuo Erich Hauser”.
  • La gente con un dito sulle labbra lascia ogni giorno che l’orrore proceda.
  • (…) Dio è la speranza di quelli che non vogliono muovere un dito.
  • (…) il duce faceva sempre più proclami trionfalistici, segno che le cose giravano male.
  • È inutile fare domande ai preti, aprono solo le braccia.
  • Quel giorno di maggio gli dissero che la guerra era finita. (…) Per le strade camminavano gli storpi. Senza una gamba, senza un braccio, con un occhio ferito. Avevano visi irriconoscibili. Si appoggiavano alle stampelle e mi facevano girare la testa dall’altra parte per la vergogna di averla scampata.
  • Parlavamo di quanto era buona la carne, di quanto era bello il posto, ma oltre a questo non sapevamo che dirci. Forse perché dopo la guerra, insieme ai morti, bisogna seppellire tutto quello che si è visto e che si è fatto, scappare a gambe levate prima di diventare noi stessi macerie.
  • La conosceva bene la gente, lui che da tutta la vita girava il mondo. Era uguale ovunque, assetata solo di tranquillità. Contenta di non vedere. È stato così che aveva già sgombrato altri paesi, sventrato quartieri, abbattuto case per far passare binari e autostrade, gettato colate di cemento sulle campagne, fatto costruire fabbriche lungo il corso dei fiumi. E il suo lavoro non andava mai in crisi perché cresceva dove c’era la fiducia inerte nel destino, la fede assolutoria in Dio, l’incuria degli uomini assetati solo di tranquillità. (…) Aveva sempre avuto gioco facile, nella sua lunga carriera, a distruggere le piazze vecchie di secoli, le case passate di padre in figlio, i muri che ascoltano i segreti di marito e moglie.
  • (…) rispondevano gli impiegati con la stessa arroganza di quando c’era il podestà. Il fascismo non era più legge ma era ancora tra noi, tale e quale, con tutto il suo armamentario di spocchia e prepotenza (…).

 

 “Resto qui” di Marco Balzano

Cos’altro dire? Ha scritto l’autore: “A me non interessava la cronaca della storia altoatesina né quella delle vicende di uno dei tanti paesi schiacciati da interessi politico-economici incontrastabili dalla gente comune.

O meglio, questi fatti mi interessavano, ma come punto di partenza. Se la storia di quella terra e della diga non mi fossero parse da subito capaci di ospitare una storia più intima e personale, attraverso cui filtrare la Storia con la s maiuscola, se non mi fossero immediatamente sembrate di valore più generale per parlare di incuria, di confini, di violenza del potere, dell’importanza e dell’impotenza della parola, non avrei, nonostante il fascino che questa realtà esercita su di me, trovato interesse sufficiente per studiare quelle vicende e scrivere un romanzo.

Sarei rimasto anch’io a bocca aperta a guardare il campanile che sembra galleggiare sull’acqua, mi sarei affacciato dal pontile per cercare di intravedere i resti di quel mondo sotto lo specchio del lago e poi, come tutti, sarei andato via.”

 

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