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Iyelab

Il nostro laboratorio Artistico !!

claudio

Haiku 5

Gocce sul vetro estate sonnecchiante smorfia sul viso

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claudio

Haiku N.4

Haiku N.4:

Volto di donna
che paventa la sorte-
  Regina di se’.

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Riccardo Cuor Di Maiale. Della Morte E Della Fine (seconda Parte)

Riccardo cuor di maiale. Della morte e della fine (seconda parte). Racconto di Daggo Roschi Leggi la prima parte 4 Mi avvicino alla rete elettrosaldata che delimita il recinto. Riesco a vedere i maiali imprigionati al di là della rete, un gruppo di tre scrofe assieme a una quindicina di piccoli riempie l’aria di suoni: grugniti brevi, grugniti semplici, grugniti staccati, grugniti lunghi. Un piccolo, spaventato dalla mia presenza, emette anche un latrato. La madre lo tranquillizza, lei non ha paura di me. I maiali associano la figura dell’uomo alla manutenzione delle stalle, niente di pericoloso per loro. Il piccolo, prudente, si nasconde comunque tra le gambe della madre. Diversamente dal fratello codardo un altro suinetto che mi si avvicina incuriosito, è davanti alla rete e spinge il piccolo grugno fuori dagli esagoni in fil di ferro. Intenerito, mi faccio mordicchiare le mani. I denti a spillo sarebbero in grado di farmi male ma non è quello che succede, l’animale sta usando la bocca delicatamente, come io farei con la mano, è il suo modo per esplorare il mondo. Con le tenaglie inizio a recidere la rete e nell’arco di un minuto ho aperto una via di fuga.   5 Riccardo Diella ha la testa quasi attaccata al collo, il naso prominente, le narici rotonde, le fessure oculari a virgola e le sopracciglia ispide come pelo. Tutte queste cose si stagliano su una faccia stranamente rosea. Il suo viso, lo pensano in molti, lo fa apparire come un grosso verro. Chi sa come si accenderebbero poi, gli stessi paesani, se scoprissero che le analogie non si fermano solo al volto. Se lo si denuda, infatti, il numero delle affinità continua a crescere. La distribuzione dei peli, sporadici e ispidi, riprende in pieno quella di un maiale rosa e anche la forma dei prosciutti delle cosce, grasse e poderose, è parimenti analoga. L’enorme scroto poi, sormontato da un fallo dalla forma vagamente a cavatappi, è quanto di più affine ha sempre ritenuto di avere con l’animale. La cosa si estende anche all’anatomia interna: le masse muscolari, almeno secondo l’ultima tomografia, sono ben infiltrate di grasso (ovvero marezzate nel gergo dei macellai) e lo strato sottostante la pelle, l’ipoderma, così ben sviluppato da renderlo metaforicamente ricoperto di cotenna. Se non fosse perché sta in piedi, a volte lo pensa anche Riccardo, sembrerebbe decisamente più un suino che un essere umano. C’è poi un ultima stranezza, qualcosa che precipita Diella in maniera definitiva e conclusiva verso l’area semantica dei suini e in cui, se non si conoscono i fatti, si potrebbe vedere l’accettazione consapevole da parte di Riccardo del destino manifesto nella sua persona: lavora in un allevamento di maiali. Per farlo ogni mattina sposta i suoi 106 kg dal dormitorio di Prato dove vive verso la Tenuta del Porco, dove applica i protocolli di gestione Staghero. Il suo lavoro consiste per lo più nel rifornire il miscelatore con scarti ortofrutticoli e avanzi delle mense, far vibrare con lo scuotitore vari alberi da frutto (che secondo la stagione sono meli, ulivi, fejioe, querce, noccioli, mandorli, castagni, giuggioli, susini, peri e diversi altri frutti stranieri in fase di validazione sperimentale), effettuare la settimanale pulizia straordinaria delle stalle e controllare in generale che tutto vada bene.   6 Ogni tanto mi capita di ripensare a quando, da adolescente, feci scappare dei maiali dal recinto cinque. Mi beccarono in flagrante circa due minuti dopo: il proprietario passava dalla redola che stavo percorrendo col suo fuoristrada. Provai anche a nascondermi, ma il cuore non mi permise di farlo. Mi trovo affannato, appoggiato a un leccio, e insisté per accompagnarmi fuori dal bosco. Capì tutto nei giorni seguenti l’uomo, quando sarebbe stato troppo tardi probabilmente, se non fosse stato per la telecamera che l’assicurazione gli obbligava a tenere sul parabrezza della macchina. Il mio viso, le tenaglie impercettibilmente sporgenti dal giacchetto, la targa del motorino con cui me ne ero andato: compariva tutto chiaramente nei video. I primi a dirmelo furono i carabinieri: mi aspettarono direttamente fuori da scuola, era un pomeriggio di primavera. Alla fine, alla luce della particolarità del mio caso, ci fu comunque molta indulgenza nella mia condanna: avrei dovuto lavorare tutto il resto dell’estate nell’allevamento, nient’altro. Il miei si dissero d’accordo, il cardiologo anche (purché mi limitassi a compiti leggeri) e così, quattro giorni dopo la sentenza, mi trasformai da liberatore in carceriere. La prima cosa che scoprii a lavoro è che, dei maiali che avevo liberato, solo uno era scappato. Gli altri si erano fatti una girata fuori, ma la notte stessa erano tornati alla stalla. Quello mancante lo ritrovai io stesso, la terza settimana dei miei lavori forzati: era in una fossa, morto. Probabilmente si era rotto una gamba durante la libera uscita, scendendo da un dirupo troppo ripido, uno di quelli che dentro il recinto sarebbero stati preventivamente appianati. Fu in quel momento, guardando il suo corpo in decomposizione, che capii come stavano le cose. I suini dell’allevamento non erano dei reclusi, ma dei privilegiati: vivevano in un paradiso dove non conoscevano morte, fame e malattia. Nascevano e vivevano nel benessere, imparando che di tanto in tanto i membri della loro orda scomparivano e che, una volta che fosse giunto il loro turno, anche loro sarebbero scomparsi per ricomparire accanto a coloro che precedentemente avevano perduto in un nuovo recinto. Nessuno dei maiali dell’allevamento, in tutta la sua vita, avrebbe mai visto un suo simile morire, invecchiare o soffrire, l’unica cosa di cui avrebbe avuto percezione sarebbe stato lo scorrere del ciclo. Per me, che sono un uomo ma anche un maiale, quello era il massimo dono che potessi fare ai miei fratelli e credo che, anche se non so di preciso in che modo gli animali si rendano conto della vita e della morte, i porcelli, se potessero dire la loro, sarebbero d’accordo con la mia valutazione. Mi impegnai molto quell’estate e, complici gli incentivi per le assunzioni degli invalidi, venni assunto appena diplomato nel podere. Tutt’oggi ci lavoro. Ora mangio anche carne di maiale, perché mi piace sapere che così facendo riesco a garantire la continuità dell’allevamento, ma i dottori dicono che dovrei smetterla, per via del troppo colesterolo che si deposita nel cuore. Non riesco più a smettere però: quando mastico un panino con la porchetta mi sento come se stessi facendo qualcosa di profondamente sacro, a volte, senza farlo apposta, mi scopro a pensare parole da mistico: sangue del mio sangue e carne della mia carne.   7 Riccardo è un uomo di quarant’anni e si è svegliato in mezzo alla notte, è in affanno e gli duole il cuore, ha fatto un incubo stranissimo: ha sognato che la razza umana è stata creata da degli alieni, fatta a loro immagine e somiglianza, e che gli alieni li avevano voluti così perché avevano bisogno di esseri da cui rifornirsi di organi. Gli alieni a modo loro amavano molto l’umanità e, seppure i suoi membri fossero stati creati con lo scopo di morire per far vivere la loro specie, per allevarla crearono un luogo bellissimo, un dedalo di giardini, dove ogni cosa era stata preposta per l’uomo. Un giorno però, una donna si arrampicò sulla cima di un albero per coglierne i frutti e cadde al suolo. I suoi compagni le si radunarono intorno. Erano incapaci di comprendere cosa le fosse successo e, quando gli alieni la trovarono, la donna ormai era morta. Non avrebbe dovuto arrampicarsi, le era stato vietato di salire a cogliere i frutti troppo in alto, ma lei aveva disobbedito. Gli uomini allora chiesero ai creatori che cosa mai fosse successo e gli alieni, che mai una volta avevano mentito agli uomini, li fecero parte della conoscenza della morte e della fine. Quel giorno gli alieni se ne andarono, non potevano più pagare le vite delle persone con l’ignoranza della morte e la loro morale gli impediva di barattare una simile merce utilizzando qualunque altra contropartita. Mentre vedeva allontanarsi le astronavi, il Riccardo del giardino, provò una grande angoscia. Fu in quel momento che si svegliò.   FINE

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claudio

Haiku N. 3

Haiku N. 3: Blu elementare
il dio del cielo nudo
ma quale libertà…

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claudio

Haiku N. 2

Haiku N. 2:

Corpo ansima
al buio di un ricordo-
Strade impervie.
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Ancora Aspetto I Tuoi Colori

Maria Grazia e Bob si sono incontrati e si sono scambiati un’idea. Questa idea è adesso un racconto, cioè, due! Infatti i due soggetti hanno tirato un paio di linee narrative comuni e poi sono andati ciascuno per i fatti suoi nella scrittura; Maria Grazia ha preso le veci di un ragazzo e Bob quelle di una ragazza. Un piccolo confronto stilistico e di vedute. Buona lettura.

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Il Pianeta Rosso

Il Pianeta Rosso: IL PIANETA ROSSO
di Bob Accio

Per quanti di voi si chiederanno se è mai esistito un pianeta rosso, proverò a rispon…

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Il Pollo/non – Pollo, O Le Fallacie Di Cartesio (seconda Parte)

Il pollo/non-pollo, o le fallacie di Cartesio (Seconda parte) Racconto di Daggo Roschi Leggi la Prima parte 6 Nel suo scomodo letto, giunte oramai le [93,18], Skenderbey cercava ancora inutilmente di assimilare quel che gli aveva detto Sasha ma, anche una volta riportati alla mente, dai suoi ricordi della scuola di scienze sperimentali, i significati di tutti i paroloni che lo avevano investito durante la conversazione, c’era un punto dell’argomento che continuava a sfuggirgli: quand’è che una gallina smetteva di essere tale e diventava bioconvertitore? Un animale, nato da animali, poteva smettere a un certo punto di essere un animale e diventare un essere inanimato? Il problema, prima di allora, non gli si era mai posto. Non che prima non sapesse cosa fossero i bioconvertitori, però prima era un modo acritico e diverso di saperlo. Adesso invece, l’incapacità di delineare una netta distinzione, si stava rivelando un problema assillante, quasi quanto l’immagine del pollo (non è un pollo, è un bioconvertitore!). La dissonanza cognitiva non era tacitabile e riemergeva ogni volta che tentava di dimenticarla. Si sentiva affetto da una forma di schizofrenia annacquata che faceva sì che, nella sua testa, ci fossero idee tra loro incompatibili. Anzi, che ci fossero due menti tra loro incompatibili, una che ragionava utilizzando le regole morali che usava per relazionarsi con i polli e un’altra che utilizzava quelle pratiche per gestire i bioconvertitori. Fu proprio quel pensiero, o forse la componente inconscia che lo aveva generato, a fornire al suo subconscio lo spunto mancante. La voce acuta e nasale di Viola (di “Neuropsicologia ed Etologia”, secondo triennio di scienze sperimentali) risaliva dall’oblio richiamata dall’esigenza di completare il puzzle. – Seppure la capacità di vedere, intuitivamente, sia intesa come un’unica funzione mentale, disponiamo attualmente di numerose prove che ci presentano un quadro relativamente diverso. Le luci della stanza si abbassarono e, sullo schermo della lavagna, apparve una spirale bianca su sfondo nero che ruotava su se stessa. Osservandola, l’idea che dava, era quella di risucchiare tutto ciò che le stava intorno. Gli provocava un fastidioso senso di vertigine. – Dovete guardarla dritta al centro, concentratevi. Passarono circa quindici decamicri (– Decamicrogiorni. I decamicri non esistono nel sistema internazionale ragazzi! – Lo ammonì, parlando da un altro passato, la voce del professore di meccanica), poi sentì uno schiocco di dita e la luce si riaccese. – Adesso guardatemi in faccia. Succedeva qualcosa di magico. Il viso secco di Viola implodeva: era evidentemente fermo ma, altrettanto palesemente, collassava su se stesso. – Quello che state osservando è un’incoerenza, un conflitto a posteriori tra diversi sistemi di elaborazione visiva. Siete consapevoli che la posizione del mio viso non sta cambiando ma, al contempo, i vostri sistemi di elaborazione neurale, e in particolare quelli relativi alla percezione del movimento, sono stati condizionati dalla spirale. I vostri centri superiori adesso ricevono segnali contrastanti da informatori diversi e, non disponendo in questo specifico caso di un meccanismo di preferenza gerarchica, accetta entrambe le versioni. Per questo implodo. Implodo senza implodere. Un po’ come la media di Maffucci. La classe rise. Il professore si arrestò per un po’ dallo spiegare, per dar tempo a tutti di riprendersi dall’illusione. – Movimento e posizione, ragazzi. Movimento e posizione. Sono informazioni integrate ma non sono elaborate fin da subito dalle stesse strutture. Per dirlo come piacerebbe ai nostri amici matematici, la fisiologia del vostro sistema visivo non incrocia i dati di tempo con quelli di spazio. La fisiologia stima direttamente il dato mediante altri stratagemmi, voi non siete calcolatrici, siete filtri. Un’illuminazione, totalizzante e universale, investì infine la mente di Skenderbey. I polli non esistevano. Detta così sembrava anche a lui una cosa folle ma non poteva che essere altrimenti. Numerose nozioni del suo passato di studente, che da diligente alunno aveva appreso senza mai capirle, di colpo acquisirono senso. La questione era generale. Non erano solo i polli a non esistere, ma l’intero mondo come se lo era sempre rappresentato. Gli oggetti erano illusioni, come il movimento del viso di Viola. Tutti i confini e le separazioni non erano altro che inganni perpetrati dalla sua mente. I polli, come categoria, non erano mai esistiti davvero e adesso che lo vedeva chiaramente non aveva più senso scervellarsi nel chiedersi quando il pollo smetteva di essere pollo. Era il concetto a essere inadeguato. Un’utile semplificazione. (– Un filtro per scremare la complessità della realtà, permettendo alle nostre limitate macchine cerebrali di fornire risposte idonee al contesto con le loro esigue risorse – gli suggerì, quasi annoiata, la voce acidula di Viola). Gli oggetti adesso apparivano al microscopio della sua mente come confini geografici tra nazioni, totalmente arbitrari. L’illusione, subdolamente perpetrata nella sua mente dall’uso acritico della lingua e delle ontologie che essa stessa imponeva al pensiero, si era di colpo dissolta. Skenderbey assaporò un attimo di pace e soddisfazione e, nell’euforia di quell’inaspettata epifania, nuove illuminazioni lo raggiunsero, mentre altri tasselli andavano incastrandosi tra loro. Il suo corpo, il suo corpo stesso. Anche quella era un’entità immaginaria: difficile distinguerlo dall’ambiente circostante. Le cellule, l’acqua e tutti gli atomi che lo costituivano non erano gli stessi di qualche anno prima. Addirittura la sua mente, il flusso di coscienza che stava esperendo in quel preciso momento, ciò con cui più profondamente sentiva di dover identificare se stesso, anche quella era una realtà meramente transitoria. Le stesse cose che aveva vissuto oggi, se le avesse vissute a quindici anni, avrebbero sortito su di lui un effetto totalmente diverso. Un effetto a sua volta differente da quello che avrebbero sortito se avesse vissuto quella stessa esperienza l’indomani o fra quarant’anni. Lui non esisteva e, se anche fosse esistiti, sarebbe stato un altro in ogni momento della sua storia. Viola lo diceva sempre : – il monismo è identificare la mente con il corpo – e il corpo cambia! La spiegazione non poteva essere altra se non quella che aveva trovato anche per il pollo, il se stesso immutabile, quello che si era sempre rappresentato, non esisteva. I pezzi del suo corpo, a una certa scala, erano del resto già stati del tutto sostituiti. Erano stati rimpiazzati con qualcosa che i suoi meccanismi mentali identificavano con quel che c’era prima ma, l’identificazione, era dovuta alle regole della sua mente e non alla reale coincidenza fisica degli enti. Percepiva se stesso come un’interezza separata solo perché qualche meccanismo neurologico soggiaceva a quella percezione. Non era un fatto reale. Skenderbey si sentiva euforico. Stava sperimentando, direttamente sulla sua pelle, un radicale e potente cambio di paradigma, qualcosa di simile a quello che aveva provato quando era arrivato a capire davvero in che modo la terra potesse essere sferica. Come l’idea di oggetto, anche la piattezza della terra era un ovvietà epistemica apparentemente incontestabile. Una idea ancestrale, scolpita nella struttura del suo sistema nervoso: un intarsio nella sua testa, operato delle pressioni selettive subite dai suoi avi nel passato. L’idea era valsa ai suoi antenati una maggior idoneità ai loro ambienti d’origine, consentiva loro di immaginare percorsi e traiettorie senza complicarsi troppo le cose ma, e questo era il punto, non era una rappresentazione veritiera di una realtà oggettiva. Arrivata la cartografia, con necessità di rappresentare il mondo, le idee innate avevano smesso di funzionare. Parecchi si dovevano essere scervellati per cercare di far quadrare i puzzle con i pezzi a disposizione e infine, una volta accortisi che certi tasselli non si incastravano proprio, qualcuno aveva deciso che le tessere dovevano essere abbandonate: qualche ipotesi prima considerata intoccabile fu rilassata e alla fine, una volta rammollito tutto abbastanza da potergli dare nuova forma, un nuovo inatteso panorama era emerso agli occhi di quei primi coraggiosi. L’intuizione, quella innata che tutti avevano circa la natura del mondo, era stata rieducata dall’esperienza e, con il suo mutamento, la dissonanza silenziata. La nuova vetta era stata raggiunta cooptando concetti da costruzioni mentali diverse, idee estranee a quelle che veniva spontaneo usare a priori per inquadrare il fenomeno dello spazio: l’idea intuitiva di verticale universale era stata reinterpretata grazie alla geometria, così come quella di retta, l’idea di parallelismo e il concetto di piano. Il libro, rivisto e reinterpretato, era infine tornato a essere leggibile. Una vertigine d’estasi intellettuale percorse la schiena sudata di Skenderbey. La consapevolezza dell’illusorietà, l’evanescenza di ogni sua rappresentazione, l’esperienza lo stava privando di ogni angoscia. L’acquisita cognizione dell’arbitrarietà delle sue identificazioni aveva distrutto le relazioni, d’implicazione e necessità, che fino ad allora aveva dato per certe. Senza volerlo si era liberato di un fantasma, l’uomo che non era nella stanza, lo stesso da cui l’aveva messo in guardia il tecnico di laboratorio. Il pollo (che non era pollo) era finalmente stato privato della sofferenza e della sua, altrimenti per Skenderbey inalienabile, dignità di animale. Così come il sistema visivo poteva percepire il movimento senza percezione della posizione, così anche lui poteva disporre del necessario per rabbrividire senza al contempo provare paura. Adesso lo riconosceva, lo vedeva senza turbamento: la nocicezione e il dolore non erano necessari alla coscienza così come la coscienza

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