Maria Grazia e Bob si sono incontrati e si sono scambiati un’idea. Questa idea è adesso un racconto, cioè, due! Infatti i due soggetti hanno tirato un paio di linee narrative comuni e poi sono andati ciascuno per i fatti suoi nella scrittura; Maria Grazia ha preso le veci di un ragazzo e Bob quelle di una ragazza. Un piccolo confronto stilistico e di vedute. Buona lettura.
Ancora Aspetto I Tuoi Colori Di Maria Grazia Ferro: Bob Accio vive nella freddofosca provincia di Brescia, dove tra c…
Il Pianeta Rosso: IL PIANETA ROSSO
di Bob Accio
Per quanti di voi si chiederanno se è mai esistito un pianeta rosso, proverò a rispon…
Il pollo/non-pollo, o le fallacie di Cartesio (Seconda parte) Racconto di Daggo Roschi Leggi la Prima parte 6 Nel suo scomodo letto, giunte oramai le [93,18], Skenderbey cercava ancora inutilmente di assimilare quel che gli aveva detto Sasha ma, anche una volta riportati alla mente, dai suoi ricordi della scuola di scienze sperimentali, i significati di tutti i paroloni che lo avevano investito durante la conversazione, c’era un punto dell’argomento che continuava a sfuggirgli: quand’è che una gallina smetteva di essere tale e diventava bioconvertitore? Un animale, nato da animali, poteva smettere a un certo punto di essere un animale e diventare un essere inanimato? Il problema, prima di allora, non gli si era mai posto. Non che prima non sapesse cosa fossero i bioconvertitori, però prima era un modo acritico e diverso di saperlo. Adesso invece, l’incapacità di delineare una netta distinzione, si stava rivelando un problema assillante, quasi quanto l’immagine del pollo (non è un pollo, è un bioconvertitore!). La dissonanza cognitiva non era tacitabile e riemergeva ogni volta che tentava di dimenticarla. Si sentiva affetto da una forma di schizofrenia annacquata che faceva sì che, nella sua testa, ci fossero idee tra loro incompatibili. Anzi, che ci fossero due menti tra loro incompatibili, una che ragionava utilizzando le regole morali che usava per relazionarsi con i polli e un’altra che utilizzava quelle pratiche per gestire i bioconvertitori. Fu proprio quel pensiero, o forse la componente inconscia che lo aveva generato, a fornire al suo subconscio lo spunto mancante. La voce acuta e nasale di Viola (di “Neuropsicologia ed Etologia”, secondo triennio di scienze sperimentali) risaliva dall’oblio richiamata dall’esigenza di completare il puzzle. – Seppure la capacità di vedere, intuitivamente, sia intesa come un’unica funzione mentale, disponiamo attualmente di numerose prove che ci presentano un quadro relativamente diverso. Le luci della stanza si abbassarono e, sullo schermo della lavagna, apparve una spirale bianca su sfondo nero che ruotava su se stessa. Osservandola, l’idea che dava, era quella di risucchiare tutto ciò che le stava intorno. Gli provocava un fastidioso senso di vertigine. – Dovete guardarla dritta al centro, concentratevi. Passarono circa quindici decamicri (– Decamicrogiorni. I decamicri non esistono nel sistema internazionale ragazzi! – Lo ammonì, parlando da un altro passato, la voce del professore di meccanica), poi sentì uno schiocco di dita e la luce si riaccese. – Adesso guardatemi in faccia. Succedeva qualcosa di magico. Il viso secco di Viola implodeva: era evidentemente fermo ma, altrettanto palesemente, collassava su se stesso. – Quello che state osservando è un’incoerenza, un conflitto a posteriori tra diversi sistemi di elaborazione visiva. Siete consapevoli che la posizione del mio viso non sta cambiando ma, al contempo, i vostri sistemi di elaborazione neurale, e in particolare quelli relativi alla percezione del movimento, sono stati condizionati dalla spirale. I vostri centri superiori adesso ricevono segnali contrastanti da informatori diversi e, non disponendo in questo specifico caso di un meccanismo di preferenza gerarchica, accetta entrambe le versioni. Per questo implodo. Implodo senza implodere. Un po’ come la media di Maffucci. La classe rise. Il professore si arrestò per un po’ dallo spiegare, per dar tempo a tutti di riprendersi dall’illusione. – Movimento e posizione, ragazzi. Movimento e posizione. Sono informazioni integrate ma non sono elaborate fin da subito dalle stesse strutture. Per dirlo come piacerebbe ai nostri amici matematici, la fisiologia del vostro sistema visivo non incrocia i dati di tempo con quelli di spazio. La fisiologia stima direttamente il dato mediante altri stratagemmi, voi non siete calcolatrici, siete filtri. Un’illuminazione, totalizzante e universale, investì infine la mente di Skenderbey. I polli non esistevano. Detta così sembrava anche a lui una cosa folle ma non poteva che essere altrimenti. Numerose nozioni del suo passato di studente, che da diligente alunno aveva appreso senza mai capirle, di colpo acquisirono senso. La questione era generale. Non erano solo i polli a non esistere, ma l’intero mondo come se lo era sempre rappresentato. Gli oggetti erano illusioni, come il movimento del viso di Viola. Tutti i confini e le separazioni non erano altro che inganni perpetrati dalla sua mente. I polli, come categoria, non erano mai esistiti davvero e adesso che lo vedeva chiaramente non aveva più senso scervellarsi nel chiedersi quando il pollo smetteva di essere pollo. Era il concetto a essere inadeguato. Un’utile semplificazione. (– Un filtro per scremare la complessità della realtà, permettendo alle nostre limitate macchine cerebrali di fornire risposte idonee al contesto con le loro esigue risorse – gli suggerì, quasi annoiata, la voce acidula di Viola). Gli oggetti adesso apparivano al microscopio della sua mente come confini geografici tra nazioni, totalmente arbitrari. L’illusione, subdolamente perpetrata nella sua mente dall’uso acritico della lingua e delle ontologie che essa stessa imponeva al pensiero, si era di colpo dissolta. Skenderbey assaporò un attimo di pace e soddisfazione e, nell’euforia di quell’inaspettata epifania, nuove illuminazioni lo raggiunsero, mentre altri tasselli andavano incastrandosi tra loro. Il suo corpo, il suo corpo stesso. Anche quella era un’entità immaginaria: difficile distinguerlo dall’ambiente circostante. Le cellule, l’acqua e tutti gli atomi che lo costituivano non erano gli stessi di qualche anno prima. Addirittura la sua mente, il flusso di coscienza che stava esperendo in quel preciso momento, ciò con cui più profondamente sentiva di dover identificare se stesso, anche quella era una realtà meramente transitoria. Le stesse cose che aveva vissuto oggi, se le avesse vissute a quindici anni, avrebbero sortito su di lui un effetto totalmente diverso. Un effetto a sua volta differente da quello che avrebbero sortito se avesse vissuto quella stessa esperienza l’indomani o fra quarant’anni. Lui non esisteva e, se anche fosse esistiti, sarebbe stato un altro in ogni momento della sua storia. Viola lo diceva sempre : – il monismo è identificare la mente con il corpo – e il corpo cambia! La spiegazione non poteva essere altra se non quella che aveva trovato anche per il pollo, il se stesso immutabile, quello che si era sempre rappresentato, non esisteva. I pezzi del suo corpo, a una certa scala, erano del resto già stati del tutto sostituiti. Erano stati rimpiazzati con qualcosa che i suoi meccanismi mentali identificavano con quel che c’era prima ma, l’identificazione, era dovuta alle regole della sua mente e non alla reale coincidenza fisica degli enti. Percepiva se stesso come un’interezza separata solo perché qualche meccanismo neurologico soggiaceva a quella percezione. Non era un fatto reale. Skenderbey si sentiva euforico. Stava sperimentando, direttamente sulla sua pelle, un radicale e potente cambio di paradigma, qualcosa di simile a quello che aveva provato quando era arrivato a capire davvero in che modo la terra potesse essere sferica. Come l’idea di oggetto, anche la piattezza della terra era un ovvietà epistemica apparentemente incontestabile. Una idea ancestrale, scolpita nella struttura del suo sistema nervoso: un intarsio nella sua testa, operato delle pressioni selettive subite dai suoi avi nel passato. L’idea era valsa ai suoi antenati una maggior idoneità ai loro ambienti d’origine, consentiva loro di immaginare percorsi e traiettorie senza complicarsi troppo le cose ma, e questo era il punto, non era una rappresentazione veritiera di una realtà oggettiva. Arrivata la cartografia, con necessità di rappresentare il mondo, le idee innate avevano smesso di funzionare. Parecchi si dovevano essere scervellati per cercare di far quadrare i puzzle con i pezzi a disposizione e infine, una volta accortisi che certi tasselli non si incastravano proprio, qualcuno aveva deciso che le tessere dovevano essere abbandonate: qualche ipotesi prima considerata intoccabile fu rilassata e alla fine, una volta rammollito tutto abbastanza da potergli dare nuova forma, un nuovo inatteso panorama era emerso agli occhi di quei primi coraggiosi. L’intuizione, quella innata che tutti avevano circa la natura del mondo, era stata rieducata dall’esperienza e, con il suo mutamento, la dissonanza silenziata. La nuova vetta era stata raggiunta cooptando concetti da costruzioni mentali diverse, idee estranee a quelle che veniva spontaneo usare a priori per inquadrare il fenomeno dello spazio: l’idea intuitiva di verticale universale era stata reinterpretata grazie alla geometria, così come quella di retta, l’idea di parallelismo e il concetto di piano. Il libro, rivisto e reinterpretato, era infine tornato a essere leggibile. Una vertigine d’estasi intellettuale percorse la schiena sudata di Skenderbey. La consapevolezza dell’illusorietà, l’evanescenza di ogni sua rappresentazione, l’esperienza lo stava privando di ogni angoscia. L’acquisita cognizione dell’arbitrarietà delle sue identificazioni aveva distrutto le relazioni, d’implicazione e necessità, che fino ad allora aveva dato per certe. Senza volerlo si era liberato di un fantasma, l’uomo che non era nella stanza, lo stesso da cui l’aveva messo in guardia il tecnico di laboratorio. Il pollo (che non era pollo) era finalmente stato privato della sofferenza e della sua, altrimenti per Skenderbey inalienabile, dignità di animale. Così come il sistema visivo poteva percepire il movimento senza percezione della posizione, così anche lui poteva disporre del necessario per rabbrividire senza al contempo provare paura. Adesso lo riconosceva, lo vedeva senza turbamento: la nocicezione e il dolore non erano necessari alla coscienza così come la coscienza
Il Pollo/non – Pollo, O Le Fallacie Di Cartesio (prima Parte): Il pollo/non-pollo, o le fallacie di Cartesio (Prima parte)
Racconto di Daggo Roschi
Per tutto il disco c’è un senso di umanità che quasi ti commuove, non ci sono pose, ma solo voglia di divertirsi, e la sicurezza che a volte un abbraccio può più di mille canzoni.
Guerriero dei corridoi Racconto di Nicola Cudemo Mi resta solo un frammento di specchio, sono stato lontano dalla mia Hall troppo a lungo. Tutti i miei specchi andati, rotti, persi, barattati. Allungo quest’ultimo, cauto, sull’asta che ho recuperato dall’architrave del 12B, la Porta di Mezzo del corridoio che ho percorso. Non ho ancora superato con il frammento l’angolo per sbirciare nel nuovo corridoio, che sento un rumore. Ritiro la mano come se mi fossi scottato e infilo il prezioso frammento nel fodero al petto. Qualcosa che rotola. Non il rotolare frammentato di una granata, di una Pineapple, ma il rotolio liscio di una biglia. Piccola. Leggera. Arretro veloce, sul taglio dei piedi nudi, silenzioso, la mano destra con una Beretta puntata sulla svolta, la mano sinistra con la sorella Beretta all’indietro, che a volte la Porta di Mezzo comunica con il corridoio dietro l’angolo. Geometrie sconosciute, sono straniero, non posso esplorare ogni diramazione. Mi stendo e mi allungo nell’angolo che formano parete e pavimento, aspetto che ciò che rotola appaia. Appena la vedo , una palletta d’acciaio lucente, serro gli occhi e premo la faccia sul braccio. È una bomba-luce. Sento che sbatte alla parete, viene verso di me, poi detona con quello che è un tonfo e un sibilo allo stesso tempo. Vedo il lampo di luce anche attraverso il braccio. Alzo la testa e riapro gli occhi, perché ora arrivano. Canto il mio mantra, faccio il vuoto. È uno solo, che gira l’angolo in piedi, appiattito al muro, per offrire meno superficie. Ma è più lento di me, e la mia posizione gli offre un angolo di tiro inconsueto, che lo lascia interdetto, e poi morto. Vedo un filo di fumo dal castello della Beretta di destra ed è come se non ricordassi di aver sparato. Se te lo ricordi, ci hai pensato, e se ci hai pensato sei morto. Lui è ripiegato per terra, aspetto. L’udito è fottuto dagli spari, aspetto. Quando sono abbastanza certo che fosse solo, mi muovo. Parto di corsa, salto il cadavere e svolto. Il nuovo corridoio è vuoto ora, come sentivo, io sono addossato alla parete di sinistra. Mi occupo del morto. Lo stendo supino. È giovane, ha due sole cicatrici rituali sul braccio sinistro, l’ultima ha ancora i bordi arrossati. Ha due Sig Sauer calibro 45, le guancette dei calci rifatte in plastica trasparente istoriata con i motivi del suo clan. Un vero gigolò. Due granate e una Claymore sul dorso. Troppo giovane, troppo accessoriato. Ha due fori d’entrata sotto la ascella destra, infilo il dito indice che ha sparato nel foro più in basso, il primo, e dico la preghiera dei morti. Mi ha sempre imbarazzato questa cerimonia. La trovo troppo sensuale. Poi taglio una striscia di muscolo dalla sua gamba destra e la mastico a lungo. Quando ho finito con i riti, me lo carico in spalla e torno alla Porta di Mezzo. Entro nella Sala Rotonda e lo metto giù. Gli bendo gli occhi con sopra due pezzi dei suoi specchi alzo la grata al centro del pavimento e lo faccio scivolare nel Pozzo con le sue armi. Ricarico la Beretta di destra con due cartucce, poi mi avvio per il nuovo corridoio. Raggiungo la prima porta a destra, poggio il mio specchio sulla piastra e la apro. È un corridoio corto, solo quattro porte. Apro la prima a destra. Entro in una grande sala rotonda, senza Pozzo centrale. Sono fortunato, è una sala dei Magazzini. È circondata di porte, fra l’una e l’altra distributori di cibo e bevande. Sui distributori ci sono i sigilli di una Hall. Li strappo via, il mio specchio ha Accesso Illimitato. Bevo tre caffè e mangio un hamburger. Poi mi siedo a gambe incrociate al centro della sala e mi pulisco i denti con il mio spazzolino. Ho il terrore del mal di denti, delle bocche tormentate e guastate dalle carie. Devo aggiungere una cicatrice al mio braccio sinistro, ma non sono il momento e il luogo adatti. Le possibilità sono uguali, entrerò nel Magazzino che ho di fronte ora. Mi alzo e raggiungo la porta. Apro, entro nel tunnel del Binario. La stazione d’arrivo è vuota, dovrò aspettare il vagone. Mi guardo attorno, la stazione è abbastanza pulita, tranne per i resti di un fuoco in un angolo, e ossa. Bestie. Vado alla grande piastra sui pali al lato del cancelletto d’accesso. La attivo con lo specchio. Mi dice che il prossimo vagone arriva fra diciassette minuti. Ho il tempo di evacuare. Vado ai WC. Entro guardingo, perché avverto l’odore delle Bestie. I pannelli luminosi non si accendono al mio ingresso. Solo uno, in un angolo. Gli orinatoi d’acciaio sono pieni di resti non identificabili, faccio i miei bisogni in uno degli stanzini, più o meno libero, per fortuna l’acqua ancora scorre. Mi dà i brividi mettere i piedi su questo pavimento. Torno sulla piattaforma ad aspettare il vagone. Mi defilo dietro la piastra respingente, potrebbero esserci passeggeri. Sento una corrente d’aria, sta arrivando. Non c’è rumore, solo vento e pressione nelle orecchie. Quando sento vibrare la piastra, capisco che è arrivato. Le porte idrauliche si aprono, ma non sembra scendere nessuno. Dopo un po’ do un’occhiata veloce, la stazione è vuota. Il vagone è vuoto e immacolato, come sempre, come i corridoi e i magazzini, lo sporco non attecchisce mai sulle loro superfici. Sembra stagliarsi nitido sul grigiore della stazione, perché è lucido, cromato, pulito. Entro, vado all’estremità che diventerà il muso e aspetto. Quando parte, lo fa senza alcun rumore, senza vibrazioni. Il viaggio dura sette minuti, anche la stazione d’arrivo è vuota. Scendo vado alla porta e sono nel magazzino. Scaffali di dieci metri d’altezza, ripiani di altezza variabile, a seconda delle merci stivate. File infinite, in avanti e ai lati. Gli scaffali delle prime file sono vuoti, il pavimento scompare sotto strati di cartone, stoffe, tappeti e materiale da imballaggio. Mi incammino lungo il viale fra gli scaffali che ho di fronte. È ampio, il soffitto è alto almeno altri dieci metri oltre la sommità degli scaffali, dalle travature metalliche nell’oscurità scendono i pannelli luminosi. Man mano che cammino, diminuisce lo strato che ricopre il pavimento e comincia ad apparire qualche scatolone sugli scaffali. Ogni dieci scaffali c’è un’apertura per il cambio di corsia. Mi sposto di otto corsie a destra e continuo in avanti. Devo fare in fretta, perché sta arrivando la notte e devo allontanarmi dagli ingressi, perché le bestie non si inoltrano mai nelle profondità. Sto mantenendo una corsa leggera, ogni tanto mi sposto di altre otto corsie a destra, otto è il numero che ho scelto per questa notte. Ad un certo punto trovo un transpallets, lo avvio e corro lungo gli scaffali senza più deviare a destra, cerco di affondare il più possibile nel magazzino. Quando mi sembra di essere abbastanza in profondità mi fermo e consulto lo specchio. Mi restano dodici minuti prima della notte. Do la scalata allo scaffale alla mia destra, salgo in cima e mi sistemo sugli scatoloni. Ne apro qualcuno, finché non trovo una stoffa. Gli altri contengono tubi di vetro di varie dimensioni affogati in trucioli grigi. Aspetto la notte rivolto verso le profondità del magazzino. Arriva come una linea nera che si allarga fra gli scaffali. La linea si allarga sempre più, finché mi è addosso e mi sorpassa, diretta verso gli ingressi. Sono i pannelli luminosi che si spengono in sequenza, tranne quello del mio scaffale, che rileva la presenza di qualcuno e rimane acceso. Se io mi muovessi, l’isola di luce mi seguirebbe. Resto per un po’ a fissare il buio del centro. Dietro, verso gli ingressi, ci sono altre isole di luce come la mia. Sono poche e sparse, la mia è l’unica così in profondità. Qualcuna più grossa si muove, qualche bestia a caccia. Domani andrò anche io a caccia. Nel silenzio, ascolto le profondità del magazzino, le voci del buio. Alle soglie dell’inaudibile c’è qualcosa, sempre, a volte mi convinco che è il rumore del mio sangue, a volte sembra avvicinarsi, e mi sudano i palmi delle mani. È il momento di onorare il giovane guerriero che ho ucciso qualche ora fa. Mi faccio un taglio sul braccio sinistro, ci metto dentro un pizzico di terra della mia Hall che prendo dal sacchetto al collo, così che rimargini con una cicatrice in rilievo. Cado in una specie di trance, interrotta un paio di volte da quelle che sembrano grida lontane. Quando torna il giorno con una linea di luce, scendo dallo scaffale e parto con il transpallets alla ricerca di una piastra per lo specchio. La trovo ventiquattro isole più avanti, insieme ad una batteria di distributori. Questa è una porzione dei Magazzini ricca e abbastanza vergine, sono stati sfruttati solo gli scaffali più esterni. Faccio colazione, caffè e barrette, prendo una scorta d’acqua. Poi poggio il mio specchio sulla piastra e memorizzo le coordinate di permanenza di questa porzione dei magazzini. Faranno parte del database della mia Hall. Sono