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Arte

Cover : Destroy All Monsters

Cover : Destroy All Monsters: Una Raffica di pezzi di uno dei gruppi che ha fatto la storia del rock n roll underground!

Destroy all monste…

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Fruiticidal

Fruiticidal: Ollie Mikse is a lonely Aruban (some would say The Lonely Aruban) living in New England where he spends his time doing r…

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Sull’ombra Dell’addio Parte Seconda

> Prima puntata II “Quindi si è ucciso” Nella sala luminosa si respirava un’atmosfera da grande famiglia, o almeno questa era l’idea. Lorenzo e Gaia, Sergio Bruckner, i coniugi Schmidt, la famiglia Anselmi: tutti seduti attorno al tavolo. Mancava soltanto quel Giacomo De Rienzo che giocava a fare il misterioso e che era uscito all’alba per respirare l’odore della rugiada. La moglie del signor Bruckner, Anne, s’affaccendava a riempire i piatti. I suoi passetti rapidi accompagnavano il tintinnio delle posate. Anne era una donna grassoccia il cui corpo teneva questo mistero, che mentre da davanti non c’erano dubbi sulla sua pinguedine, da dietro appariva quasi slanciata; la schiena sinuosa la caricava d’aspettative, ma quando si voltava insieme al ventre gonfio trascinava con sé un alito di delusione. “Non so se questo è l’argomento giusto”, si lamentò senza vera decisione la signora Anselmi: “Marco ha solo cinque anni…” Il marito anticipò il signor Bruckner: “Oh, Luisa, ma guardalo, ha così fame che gli interessa soltanto quello che ha davanti” In effetti, il piccolo Marco si avventava sulla propria bistecca torturando ogni singolo boccone prima di ingoiarlo. La sua mente di bambino navigava nel piatto. Il signor Bruckner si sentì libero di proseguire. Sedeva a capotavola e il ruolo di padrone di casa lo inorgogliva. “Si è impiccato nella rimessa degli attrezzi. Proprio lui, Attilio, quel pezzo di pane! Si svegliava tutte le mattine al sorgere del sole, anzi prima, quando ancora era buio, e scendeva nei campi. Erano il suo grande amore, quei campi. Povero Attilio… E il suo cane! Ieri ha abbaiato tutta la notte, l’avrete sentito, no?” Le occhiaie sui volti dei coniugi Schmidt parlavano chiaro. “Se era triste, lo nascondeva bene”, e fece una pausa per caricare di aspettative la massima che stava per pronunciare. Quando fu sicuro che tutti stessero ascoltando, esclamò: “Ah, ma perché le persone devono fare di simili pazzie?” Lorenzo intuì che Gaia, seduta accanto a lui, fremeva. “Forse era malato”, azzardò lo Schmidt, un vecchietto che ogni anno, ad ottobre, abbandonava Amburgo per scendere con la moglie in Valtellina. Il suo italiano era ottimo e impreziosito da un simpatico accento teutonico. “Già, o forse gli affari andavano male”, suggerì Anne Bruckner mentre sparecchiava. Lorenzo si portò le mani agli occhi per sottolineare la sua estraneità a quello che sarebbe successo. Era inevitabile, e difatti successe. “O forse,” si intromise Gaia: “Forse si era semplicemente stancato” Sergio Bruckner sorrise di quel sorriso che si tende a rivolgere ai bambini quando dicono un’ingenuità: “Ma come, e di cosa?” “Di tutto, è chiaro. Ci deve essere poi questo gran motivo per decidere di uccidersi?” La vocina di Marco spaccò la tavola: “Chi si è ucciso?” La madre corse subito ai ripari; fu curioso notare come potesse cambiare la sua voce dal rassicurante: “Nessuno, amore, nessuno” al rabbioso, sebbene tra i denti: “Ti sembra il caso di dire, o anche solo pensare certe cose?” Lorenzo disse piano, in modo che solo lei sentisse: “Gaia, chiedi scusa e usciamo” “No”, rispose lei in tono molto infantile. Le sue labbra rosse – quant’erano rosse quella mattina! – tremavano. “Chiedi scusa e usciamo”, le ripeté il giovane. Allora lei lo accontentò: “Scusate”, concesse a capo chino. Alzatasi dalla sedia, tuttavia, ci ripensò: “Scusate se per alcuni è più difficile di altri”, ma ormai nessuno l’ascoltava più. Gli Anselmi accerchiavano il figlio torturandogli le guance, i Bruckner sparecchiavano con foga esagerata; soltanto il signor Schmidt parve cogliere quelle parole. Ne apparve turbato, tanto che dovette risedersi e abbandonare il bastone di legno su cui s’era arrampicato. Lorenzo provò dolore sia per lui che per sé stesso che per Gaia, quindi seguì la scia di malumore che la ragazza aveva spinto fin sotto il castagno. La valle era colma di sole, perché discutere? Si limitarono a guardarsi.   In cucina era intenso l’odore di zucca. Anne cucinava di già, l’aiutava a distrarsi. Puliva le verdure con calma, impastava, annusava ogni singola mela prima di tagliarle in dadini perfetti. La sua vita procedeva così, tra gli aromi della natura: non perché gioisse di quell’affettare, di quell’odorare, ma perché l’allontanava dall’esistenza piatta, dal marito. E proprio il marito la assillava, ora, violando il suo tempio di frutta e verdura. “Quella ragazza è proprio triste”, ragionava. Pur ignorandolo, Anne ne poteva indovinare l’espressione corrucciata, le sopracciglia folte ritorte all’ingiù; cambiò idea, diede un rapido sguardo: ebbe la sua conferma, tornò alle mele. “E’ talmente triste che non pensa a quello che dice” Parlava col tono sofferto degli accattoni. “Alcune cose è meglio tacerle, se non altro per evitare certe figure. E coi bambini, ma che le è preso? Ci pensi, tu, a parlare della morte con una simile leggerezza? Certo, tu no: sei sempre così ragionevole”, ed era proprio fiero mentre rifletteva a quel modo della moglie. La considerava pacata, intelligente; e se ora il fuoco s’era assopito, perché non premiare quell’assennatezza? Ormai la bellezza era sfumata, ma ne rimanevano ovunque le tracce come brandelli di ricordi adagiati stancamente in un angolo di cervello: una patina di polvere difficile da rimuovere. Sergio Bruckner si avvicinò alla moglie che ancora tagliava le mele. Le comparve dietro, all’improvviso, mosso da un desiderio affettuoso. Le tastò il sedere ancora sodo, appena  abbondante, e le sussurrò all’orecchio poche parole insensate. Anne teneva in mano il coltello. Quando si sentì toccare, poco ci mancò che si girasse con la lama tesa, pronta a tutto. Rimase invece al suo posto, inerte, mentre il marito seguitava nel suo folle farneticare e non la smetteva di agitare le dita su di lei, quasi stesse suonando un pianoforte per la prima volta. La baciò sul collo, ma erano i baci di uno sconosciuto, uno di quelli brutti. Ora il marito grufolava tutto preso nella ricerca di un passato che era svanito insieme alle prime primavere, ai primi autunni splendidi di una Valtellina di molti anni addietro; grufolava cercando di contagiare la moglie con la stessa eccitazione: ma era esclusivamente sua quella nostalgia, suo l’affetto l’esploso d’un colpo. Anne lasciò che una mano estranea le strizzasse i seni pesanti; non provò piacere, soltanto vergogna. Quando la stessa mano scivolò sul suo ventre gonfio e proseguì, non ce la fece più: afferrò una mela e la scaraventò per terra. Quella esplose con un tonfo morbido, schizzando polpa bianca sulle loro scarpe. Sergio si allontanò con un balzo: “Che fai?”, urlò. Per lui, la moglie significava serenità e posatezza: solo questo, e le sue mani di cuoca. Anne si limitò a stringersi il petto con le braccia. Avrebbe voluto nascondersi tutta, tra quelle braccia. “Scemo, scemo”, si sfogò: “Scemo!” Corse via, lasciò il marito attonito nella cucina che odorava di zucca. Raggiunse la cameretta: suo figlio era nel lettino, dormiva beato. Prese quell’esserino minuscolo e se lo strinse al seno. Lui si svegliò e cominciò a strillare; non le importava: l’unica cosa che le interessava era tenerselo stretto, aggrapparsi a quel corpicino. “Cosa ha combinato, la mamma”, gli confessò: “Non fare come me. Ragiona, prima di fare scelte per la vita” Il pianto del bambino era una risposta sufficiente. A lui, per ora, interessava dormire: aveva innanzitutto scelto così.   Gaia e Lorenzo camminavano tra i meleti. I frutti migliori erano stati colti e piccoli pomi acerbi pendevano dagli alberi, violacei. Comunque, addentarli era tutta una delizia. Rasentarono un muretto a secco: Gaia vi si sedette e fece andare le gambe. Le pietre, quando i talloni vi sbattevano contro, suonavano sommessamente. Lorenzo appoggiò i gomiti su quelle gambe, non gli serviva altro. Il momento era propizio: “Chiudi gli occhi” “Non ho voglia di chiudere gli occhi”, rispose lei. Lui non sospirò neanche, lo immaginava. “Te lo chiedo per favore” Gaia spense le palpebre. Subito, il profumo delle mele le inondò le narici. Si stava già pentendo di quella concessione quando qualcosa le cadde sulla testa. “Eccoti” Aprendo gli occhi, la ragazza vide Lorenzo sorridere. Le piccole mani raccolsero un copricapo morbido e rosso. “E questo?” “A Parigi ho avuto una visione. Te ne ho comprato uno, per realizzarla” Questa volta Gaia non urlò, né pianse, né fece niente di esagerato. Scelse la normalità e il buon senso, e disse solo: “Sono contenta di averti aiutato” Quando si riaggiustò il cappello sul capo, ci sembrò nata dentro. Con tutta quell’erba, poi, c’erano il verde, il biondo dei capelli e quella macchia rossa come le mele che parevano un quadro. “Quanto sei sentimentale, però”, scherzò lei. “Ti ho solo vista mentre lo indossavi, nient’altro”, e c’era da credergli. “E ci camminavo bene, per le vie di Parigi?” “Praticamente, eri la più francese tra tutte” Gaia ne fu soddisfatta. Con un balzo scese dal muretto e prese a roteare. Quel cappello l’aveva resa felice, in fondo era vanitosa. Lorenzo poi… Lorenzo era estasiato. Si sedette sul muretto, lì dove la ragazza aveva lasciato un’impronta del suo passato recente, e nutrì gli occhi di quelle giravolte, dei capelli biondi sui meleti, dell’aria di montagna che cominciava a inspessirsi. S’alzava il vento.

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Cover : Pissed Jeans

Cover : Pissed Jeans: Suoni distorti e graffianti, testi visionari e arrabbiati…forse il punk è morto.. ma di sicuro è ancora in evoluzione….

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On/off

On/off: by Mr H.

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La Iena

di Marc Downass https://www.facebook.com/marco.sottano/ Gresbeck@hotmail.it   In Africa, dicono, il momento migliore della giornata è al tramonto. È allora che l’afa dà un po’ di tregua, la polvere si posa al suolo, si chiacchiera, si fa baldoria. Se passi di lì puoi magari notare il leone con il muso affondato nelle budella di un animale, intento a scovare una qualche prelibatezza. Il leone se la prende bassa, se la ride nella frescura, con la sua criniera balsamata. È il re, è giusto che sia così, la sua vita non deve mancare di nessun comfort. Ma a volte finisce che, a furia di tirare, la corda si spezza. Quando si fa troppo i saputi, spesso la si fa fuori dal vaso, e i leoni non la imparano mai, ‘sta cosa. Dunque c’è questo leone, al tramonto, con la sua preda acchiappata in tarda mattinata. Ne ha già mangiata un po’ verso le tredici, e ha pensato bene di tenersi un boccone o due per la cena, sacrosanto. Perciò ora è qua che pappa, sdraiato composto, vista savana. A un tratto sente delle ghigne orribili provenire dai cespugli lì nei pressi. Chi cazzo sarà mai? Le iene, sono, ecco chi. Un paio di Ridens sbucano da qualche cespuglio spinoso e sbavano, fuori di capoccia, tutto intorno al leone. Il re della savana se ne sbatte, per ora: è troppo più grosso, troppo meglio messo per badare a due iene straccione. Gli lascia fare i loro versi da iene e continua a mangiare. Poco dopo sente altri schiamazzi tra gli alberi, tra le frasche, vicino a lui, dappertutto, insomma: allora alza la testa dal piatto e vede una cosa da stringere il culo. Una dozzina di iene fameliche che si fanno sotto, invitandolo a sloggiare, ‘ché adesso tocca a loro. Niente di personale, logicamente. Un paio di iene, anche tre o quattro, non sarebbero un problema per il leone. Sarebbe una cosa facile stincarle a morsi e a unghiate. Ma una dozzina è tutt’altra cosa. Il leone fa lo gnorri e tenta di prendere un ultimo boccone, ma qualche risata brutale gli suggerisce di andare ORA fuori dai coglioni. Quindi, coda tra le gambe, il leone zampetta con finta fierezza per nascondere lo squarcio nel suo orgoglio, e s’avvia verso casa. In alcune zone dell’Africa, per esempio in Nigeria, il sole tramonta nello istante in cui tramonta in una qualsiasi città Italiana. Diciamo a Savona. Il che fa sì che nello stesso momento noi, qua a Savona, godiamo dello stesso spettacolo. Il caldo si allenta anche qui, i leoni combattono contro le iene per spartirsi il cibo e tutte quelle cose. Solo che qua, a Savona, c’è una temperatura più adatta ai topless di qualche tardona, piuttosto che alla zanzara anofele o al virus Ebola. Ma, per il resto, le dinamiche sono le stesse. Anche qua a Savona, tra leoni, c’è l’abitudine di bazzicare gli stessi luoghi all’ora dei pasti, specialmente a cena. Non che si faccia molto branco, comunque. Semplicemente si sta lì e si mangia a poca distanza l’uno dall’altro. E stasera ci sono anche io, su un divanetto d’angolo, davanti a un piatto di linguine agli scampi: uno splendido esemplare di leone-figlio di papà. Si dà il caso che negli ultimi tempi stia spesso alla larga dalla tana di famiglia, per godermi un po’ di mondanità estiva. Per cui eccomi qua. Seduto più o meno composto, con la faccia indolente di chi non ha più voglia di linguine agli scampi e vorrebbe passare alle orate col radicchio rosso. Guardo il leone-cameriere filare avanti e indietro, e penso a che lavoro poco dignitoso sia, per un leone. Cameriere, capirai. Grembiulino, carta dei vini, tutto impettito a ringraziare e sorridere qua e là. Do un’occhiata in giro, a saggiare l’eleganza della mangiatoia. Rimango tutto sommato soddisfatto. Non del tutto, però. L’orata non arriva, e aspettare il cibo è una cosa che ho sempre patito. Mi viene voglia di prendere il fottuto leone-cameriere per il cravattino e impiccarlo al lampadario. Mi trattengo solo perché ci sono altri leoni, nella mangiatoia. C’è pure qualcuno di spicco, se non mi sbaglio: un leone-avvocato con moglie e figlioletta; un leone-imprenditore, che ha avuto in appalto un paio di complessi di abitazioni plebee e anche qualche altro appartamentino di lusso in zona darsena. Al seguito ha anche una femmina veramente da urlo, pare una pantera, più che una leonessa. Poi c’è un vecchio leone-generale riabilitato, decorato, cateterizzato, pieno di soldi, con uno stuolo di leoni-amici con le guance arrossate. I leoni notevoli sono questi, il resto è gente da sbratto che ha dei soldi in tasca per puro caso. Gente a cui però il cameriere ha servito il secondo piatto prima che a me, per qualche motivo incomprensibile. Finché il leone-avvocato mangia il budino mentre io sto ancora aspettando di ordinare l’antipasto, beh lo posso accettare. Ma essere doppiato dalla marmaglia non se ne parla. Sto per intercettare brutalmente quello schiavo dei miei coglioni, quand’ ecco che succede una cosa stramba: dalla porta a vetri dell’ingresso si fionda dentro una iena-vu cumprà. La camicia aperta sul torace, gli occhi sbarrati.  Non ha la merce, i calzini, i fazzoletti, eccetera. Il suo ingresso è così fuori luogo, così irruento, che ci passa per la testa di fargli la pelle. Nel covo dei leoni tira aria malsana, per una iena. Una iena da sola, poi. Guardiamo tutti la iena-vu cumprà, come se volessimo incenerirla con gli occhi. Per un attimo, nessun leone fiata più. Qualcuno di noi è sicuramente pronto a scattare e  annullarlo con una zampata. Si sente nell’aria. Animali stupidi, le iene. Quando non sono vigliacche, sono idiote. O vivono come vermi, o vogliono strafare, le iene. Come previsto, il leone-generale sta per farla finita con il vu cumprà: è giusto, dopotutto, che un vecchio leone spari le ultime cartucce, quando ne ha modo. Quindi si solleva incerto sulle gambe, per intimorire lo scocciatore e rispedirlo nella fogna. Ma la iena non gli dà tempo di biascicare una parola: spiana una cazzo di pistola gigantesca e la punta sulla guancia del vecchio generale. “Una fottuta iena armata”, penso, “stavolta le puttane ci hanno preso con le braghe calate”. Dalla pistola esce un ruggito come di mille iene ridens, come di tutte le iene del mondo che ghignino insieme: il vecchio si squaglia a terra come una creme brulé, la fisionomia scarabocchiata dal proiettile. In un nanosecondo la situazione è diventata chiara per tutti: ora, ogni leone reagisce a modo suo. Il cameriere, come per riscattare il suo orgoglio agli occhi dell’alta società, si lancia a fauci spianate contro il vu cumprà, il quale lo intercetta lesto e gli fa scrosciare in faccia una tempesta di colpi usando il calcio dell’arma: muto e letale come il cianuro, la iena lo tiene per i capelli e gli spiana i lineamenti con colpi violentissimi. Io riesco a sentire uno scricchiolio raccapricciante di denti e ossa macinate, ma ora mi appare chiaro nella mente quello che devo fare. È la solita storia tra iene e leoni. Si tratta del cibo, delle risorse, tutto qua. La iena è qui per questo, per cosa, se no? Per il cibo che le abbiamo negato da un po’ di tempo. Allora mi avvento sulle linguine avanzate comincio a divorarle a manciate. Intanto il vu cumprà apre il fuoco sul leone-avvocato, massacrandogli una spalla, poi ancora sul gruppo di amici del generale, alla cieca, una volta, due volte. La iena è inarrestabile, punta dritta verso di me, mi pare. Io mastico le teste degli scampi, e il liquido salato mi schizza in bocca, mi cola tra i denti. Devo fare presto. La iena si trova tra i piedi la figlia dell’avvocato, una piccola leoncina che non è ancora salita sulla giostra violenta della vita, e non si merita di morire. Avrà quattro anni. Lei non avrebbe niente contro le iene, in teoria. È una leoncina buona. Ma i meriti non c’entrano, ora. Ora c’è la fame, ora solo il cibo è la moneta di scambio, solo la carne è un argomento valido. Il vu cumprà colpisce la bambina con un calcio brutale, la solleva da terra e la fa schiantare in un angolo, priva di sensi. Poi spara un colpo verso il leone-imprenditore e la sua pantera, ridotti a manichini imploranti, e disintegra il secchio dello champagne. Spara ancora e sventra la gola della strafica, il sangue sprizza come da un idrante sabotato. A quel punto fa cadere a terra la pistola e cava dalla tasca un coltello lungo e sottile. Avanzano degli scampi, non faccio in tempo a finirli tutti. Le chele mi si schiantano sotto i denti, mi taglio il palato e cerco di buttare giù la pasta più in fretta che posso. La iena mi raggiunge e mi inchioda alla sedia con una coltellata al petto.  Per un attimo il dolore è un cavallo imbizzarrito che mi scalcia nel cervello, poi svanisce. Mi appoggio allo schienale, agghiacciato. La iena mi fissa truce. Agguanta

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