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Arte

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Sull’ombra Dell’addio Parte Seconda

> Prima puntata II “Quindi si è ucciso” Nella sala luminosa si respirava un’atmosfera da grande famiglia, o almeno questa era l’idea. Lorenzo e Gaia, Sergio Bruckner, i coniugi Schmidt, la famiglia Anselmi: tutti seduti attorno al tavolo. Mancava soltanto quel Giacomo De Rienzo che giocava a fare il misterioso e che era uscito all’alba per respirare l’odore della rugiada. La moglie del signor Bruckner, Anne, s’affaccendava a riempire i piatti. I suoi passetti rapidi accompagnavano il tintinnio delle posate. Anne era una donna grassoccia il cui corpo teneva questo mistero, che mentre da davanti non c’erano dubbi sulla sua pinguedine, da dietro appariva quasi slanciata; la schiena sinuosa la caricava d’aspettative, ma quando si voltava insieme al ventre gonfio trascinava con sé un alito di delusione. “Non so se questo è l’argomento giusto”, si lamentò senza vera decisione la signora Anselmi: “Marco ha solo cinque anni…” Il marito anticipò il signor Bruckner: “Oh, Luisa, ma guardalo, ha così fame che gli interessa soltanto quello che ha davanti” In effetti, il piccolo Marco si avventava sulla propria bistecca torturando ogni singolo boccone prima di ingoiarlo. La sua mente di bambino navigava nel piatto. Il signor Bruckner si sentì libero di proseguire. Sedeva a capotavola e il ruolo di padrone di casa lo inorgogliva. “Si è impiccato nella rimessa degli attrezzi. Proprio lui, Attilio, quel pezzo di pane! Si svegliava tutte le mattine al sorgere del sole, anzi prima, quando ancora era buio, e scendeva nei campi. Erano il suo grande amore, quei campi. Povero Attilio… E il suo cane! Ieri ha abbaiato tutta la notte, l’avrete sentito, no?” Le occhiaie sui volti dei coniugi Schmidt parlavano chiaro. “Se era triste, lo nascondeva bene”, e fece una pausa per caricare di aspettative la massima che stava per pronunciare. Quando fu sicuro che tutti stessero ascoltando, esclamò: “Ah, ma perché le persone devono fare di simili pazzie?” Lorenzo intuì che Gaia, seduta accanto a lui, fremeva. “Forse era malato”, azzardò lo Schmidt, un vecchietto che ogni anno, ad ottobre, abbandonava Amburgo per scendere con la moglie in Valtellina. Il suo italiano era ottimo e impreziosito da un simpatico accento teutonico. “Già, o forse gli affari andavano male”, suggerì Anne Bruckner mentre sparecchiava. Lorenzo si portò le mani agli occhi per sottolineare la sua estraneità a quello che sarebbe successo. Era inevitabile, e difatti successe. “O forse,” si intromise Gaia: “Forse si era semplicemente stancato” Sergio Bruckner sorrise di quel sorriso che si tende a rivolgere ai bambini quando dicono un’ingenuità: “Ma come, e di cosa?” “Di tutto, è chiaro. Ci deve essere poi questo gran motivo per decidere di uccidersi?” La vocina di Marco spaccò la tavola: “Chi si è ucciso?” La madre corse subito ai ripari; fu curioso notare come potesse cambiare la sua voce dal rassicurante: “Nessuno, amore, nessuno” al rabbioso, sebbene tra i denti: “Ti sembra il caso di dire, o anche solo pensare certe cose?” Lorenzo disse piano, in modo che solo lei sentisse: “Gaia, chiedi scusa e usciamo” “No”, rispose lei in tono molto infantile. Le sue labbra rosse – quant’erano rosse quella mattina! – tremavano. “Chiedi scusa e usciamo”, le ripeté il giovane. Allora lei lo accontentò: “Scusate”, concesse a capo chino. Alzatasi dalla sedia, tuttavia, ci ripensò: “Scusate se per alcuni è più difficile di altri”, ma ormai nessuno l’ascoltava più. Gli Anselmi accerchiavano il figlio torturandogli le guance, i Bruckner sparecchiavano con foga esagerata; soltanto il signor Schmidt parve cogliere quelle parole. Ne apparve turbato, tanto che dovette risedersi e abbandonare il bastone di legno su cui s’era arrampicato. Lorenzo provò dolore sia per lui che per sé stesso che per Gaia, quindi seguì la scia di malumore che la ragazza aveva spinto fin sotto il castagno. La valle era colma di sole, perché discutere? Si limitarono a guardarsi.   In cucina era intenso l’odore di zucca. Anne cucinava di già, l’aiutava a distrarsi. Puliva le verdure con calma, impastava, annusava ogni singola mela prima di tagliarle in dadini perfetti. La sua vita procedeva così, tra gli aromi della natura: non perché gioisse di quell’affettare, di quell’odorare, ma perché l’allontanava dall’esistenza piatta, dal marito. E proprio il marito la assillava, ora, violando il suo tempio di frutta e verdura. “Quella ragazza è proprio triste”, ragionava. Pur ignorandolo, Anne ne poteva indovinare l’espressione corrucciata, le sopracciglia folte ritorte all’ingiù; cambiò idea, diede un rapido sguardo: ebbe la sua conferma, tornò alle mele. “E’ talmente triste che non pensa a quello che dice” Parlava col tono sofferto degli accattoni. “Alcune cose è meglio tacerle, se non altro per evitare certe figure. E coi bambini, ma che le è preso? Ci pensi, tu, a parlare della morte con una simile leggerezza? Certo, tu no: sei sempre così ragionevole”, ed era proprio fiero mentre rifletteva a quel modo della moglie. La considerava pacata, intelligente; e se ora il fuoco s’era assopito, perché non premiare quell’assennatezza? Ormai la bellezza era sfumata, ma ne rimanevano ovunque le tracce come brandelli di ricordi adagiati stancamente in un angolo di cervello: una patina di polvere difficile da rimuovere. Sergio Bruckner si avvicinò alla moglie che ancora tagliava le mele. Le comparve dietro, all’improvviso, mosso da un desiderio affettuoso. Le tastò il sedere ancora sodo, appena  abbondante, e le sussurrò all’orecchio poche parole insensate. Anne teneva in mano il coltello. Quando si sentì toccare, poco ci mancò che si girasse con la lama tesa, pronta a tutto. Rimase invece al suo posto, inerte, mentre il marito seguitava nel suo folle farneticare e non la smetteva di agitare le dita su di lei, quasi stesse suonando un pianoforte per la prima volta. La baciò sul collo, ma erano i baci di uno sconosciuto, uno di quelli brutti. Ora il marito grufolava tutto preso nella ricerca di un passato che era svanito insieme alle prime primavere, ai primi autunni splendidi di una Valtellina di molti anni addietro; grufolava cercando di contagiare la moglie con la stessa eccitazione: ma era esclusivamente sua quella nostalgia, suo l’affetto l’esploso d’un colpo. Anne lasciò che una mano estranea le strizzasse i seni pesanti; non provò piacere, soltanto vergogna. Quando la stessa mano scivolò sul suo ventre gonfio e proseguì, non ce la fece più: afferrò una mela e la scaraventò per terra. Quella esplose con un tonfo morbido, schizzando polpa bianca sulle loro scarpe. Sergio si allontanò con un balzo: “Che fai?”, urlò. Per lui, la moglie significava serenità e posatezza: solo questo, e le sue mani di cuoca. Anne si limitò a stringersi il petto con le braccia. Avrebbe voluto nascondersi tutta, tra quelle braccia. “Scemo, scemo”, si sfogò: “Scemo!” Corse via, lasciò il marito attonito nella cucina che odorava di zucca. Raggiunse la cameretta: suo figlio era nel lettino, dormiva beato. Prese quell’esserino minuscolo e se lo strinse al seno. Lui si svegliò e cominciò a strillare; non le importava: l’unica cosa che le interessava era tenerselo stretto, aggrapparsi a quel corpicino. “Cosa ha combinato, la mamma”, gli confessò: “Non fare come me. Ragiona, prima di fare scelte per la vita” Il pianto del bambino era una risposta sufficiente. A lui, per ora, interessava dormire: aveva innanzitutto scelto così.   Gaia e Lorenzo camminavano tra i meleti. I frutti migliori erano stati colti e piccoli pomi acerbi pendevano dagli alberi, violacei. Comunque, addentarli era tutta una delizia. Rasentarono un muretto a secco: Gaia vi si sedette e fece andare le gambe. Le pietre, quando i talloni vi sbattevano contro, suonavano sommessamente. Lorenzo appoggiò i gomiti su quelle gambe, non gli serviva altro. Il momento era propizio: “Chiudi gli occhi” “Non ho voglia di chiudere gli occhi”, rispose lei. Lui non sospirò neanche, lo immaginava. “Te lo chiedo per favore” Gaia spense le palpebre. Subito, il profumo delle mele le inondò le narici. Si stava già pentendo di quella concessione quando qualcosa le cadde sulla testa. “Eccoti” Aprendo gli occhi, la ragazza vide Lorenzo sorridere. Le piccole mani raccolsero un copricapo morbido e rosso. “E questo?” “A Parigi ho avuto una visione. Te ne ho comprato uno, per realizzarla” Questa volta Gaia non urlò, né pianse, né fece niente di esagerato. Scelse la normalità e il buon senso, e disse solo: “Sono contenta di averti aiutato” Quando si riaggiustò il cappello sul capo, ci sembrò nata dentro. Con tutta quell’erba, poi, c’erano il verde, il biondo dei capelli e quella macchia rossa come le mele che parevano un quadro. “Quanto sei sentimentale, però”, scherzò lei. “Ti ho solo vista mentre lo indossavi, nient’altro”, e c’era da credergli. “E ci camminavo bene, per le vie di Parigi?” “Praticamente, eri la più francese tra tutte” Gaia ne fu soddisfatta. Con un balzo scese dal muretto e prese a roteare. Quel cappello l’aveva resa felice, in fondo era vanitosa. Lorenzo poi… Lorenzo era estasiato. Si sedette sul muretto, lì dove la ragazza aveva lasciato un’impronta del suo passato recente, e nutrì gli occhi di quelle giravolte, dei capelli biondi sui meleti, dell’aria di montagna che cominciava a inspessirsi. S’alzava il vento.

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