Splitter Records
Splitter Records, Segnaliamo l’esistenza di questa meravigliosa etichetta di Lipsia che sembra promettere chicche a rotazione continua.
Il nostro modo di dire la nostra: pensieri spesso sconclusionati, ma veri che emozionano.
Splitter Records, Segnaliamo l’esistenza di questa meravigliosa etichetta di Lipsia che sembra promettere chicche a rotazione continua.
In occasione del centenario della nascita del Maestro Bruno Canfora, Four Flies Records celebra la sua straordinaria carriera con una serie di pubblicazioni dedicate.
I “The Rusty Case” iniziano il loro viaggio pubblicando un ep di quattro brani, disponibile da oggi in anteprima
gli HAPPY FEAR CLUB che nascono nel novembre del 2023 per impulso del bassista Massimiliano Amoroso
Venerdì 29 marzo, mattina presto. Piove a dirotto, il cielo plumbeo sembra il diaframma di un enorme animale: pulsa, vibra. Mai domo, muove acqua e venti, sposta le onde del mare con la forza incontenibile di un megalodonte. Solo, nella stanza, osservo la mia copia personale di Come On die Young. Ce ne sono tante come lei, ma questa è la mia; comprata all’uscita, esattamente 25 anni fa, è più che un semplice oggetto. Le vibrazioni che mi trasmette, anche solo al tocco, sono qualcosa di indicibile, qualcosa che si avvicina al vero senso del tutto. Già, perché questo, per me, non è un album qualsiasi, è un vaso, una sorta di intelletto universale, un contenitore metafisico di essenza ineffabile. “And that music is so powerful that it’s quite beyond my control and, uh, when I’m in the grips of it I don’t feel pleasure and I don’t feel pain, either physically or emotionally Do you understand what I’m talking about? Have you ever, have you ever felt like that?” Non lo ascolto molto spesso; quasi mai, a dire il vero. Perché mi travolge, ogni fottuta volta mi prende al petto e mi fa stare male. E il problema è che non capisco mai, una volta ultimato l’ascolto, se esso abbia avuto o meno un effetto catartico: invece di sublimarle, mi pare che accentui sensibilmente le emozioni più irrefrenabili che covano dentro me. È un amplificatore di pulsioni, quindi lo devo prendere a dosi molto, molto ridotte, altrimenti rischio davvero di stare male. Soprattutto in questo periodo, in cui mi sento travolto da un vortice di emozioni incontrollabili, in cui sono particolarmente vulnerabile, non dovrei neppure avvicinarmi a un disco del genere, mai e poi mai. Purtuttavia, vista l’occasione speciale, non ho potuto non concedergli un ascolto. Glielo dovevo. “Old songs stay ‘til the end Sad songs remind me of friends And the way that it is, I could leave it all And I ask myself, would you care at all?” Questo disco non è certo un capolavoro, tutt’altro: è pieno di difetti e imperfezioni; è scostante, troppo lungo e un po’ monotono. I Mogwai hanno fatto decisamente di meglio nel corso della loro lunga carriera. Ed è questa una caratteristica che me lo fa sentire ancora più vicino: non amo la perfezione, non l’ho mai amata e di certo non l’anelo; anzi, la rifuggo il più possibile, perché non mi rappresenta e non mi soddisfa. Le cose che sento più affini sono proprio quelle che hanno la forma di Come On Die Young, quelle cose che meglio riflettono il vero aspetto delle cose. Già, perché non ce la faccio proprio a concepire un universo teleologicamente determinato verso l’autorealizzazione di sé: mi sento naturalmente più vicino al caos, a ciò che dritto non è e che qualcosa che non funziona ce l’ha eccome. Ecco perché questo è uno dei miei dischi della vita, ecco perché oggi ne festeggio i venticinque anni. Grazie, Come On Die Young.
Daikichi Amano è un fotografo giapponese, Richiama a riti tribali e viaggi sciamanici nei nostro intestino.
Jaco Pastorius, era davvero il più grande bassista del mondo, e l’aveva ampiamente dimostrato, una gavetta spossante poi col suo primo disco, omonimo, un miracolo di purezza e perfezione.
I centri commerciali dai soffitti come cattedrali, che si innalzano verso quegli dèi creatori che fanno loro percepire le compere come atti di fede…
Quale posizione, quali modalità, e quale lotta occorrono ed è giusto portare avanti?
IN YOUR EYES EZINE e TRUE LOVE ATELIER * presentano * ✦ Mostra Fotografica di KRK DOMINGUEZ a cura di IN YOUR EYES EZINE ✦ Ore 18: Mostra e DJ Set HellPacso (DSA COMMANDO) https://www.facebook.com/events/2233955646937449 – Parte 1 Intro allargata: un percorso suggerito – prospettive Assumendo l’impossibilità, fosse anche trattata per brevissimi cenni, di ripercorrere in questa panoramica la centralità della fotografia nello sviluppo delle culture giovanili e, in particolare nel più generale rapporto con l’evoluzione della musica rock, ci limiteremo a ricordare che essa, con la deflagrazione operata dal punk, si libera del tutto di ogni suo eventuale residuo artistico. Così, l’emancipazione dalle forme d’arte visivo-figurative ritenute tradizionalmente più colte, appare, finalmente, completata. Infatti, proprio nell’originarsi stesso dell’esplosione, si assiste a figure professionali già affermate – Bob Gruen, su tutti – capaci di rimettersi in gioco e fondersi con ricercatori e sperimentatori quali Dennis Morris, Kevin Cummins, Roberta Bailey, David Godlis… che, a loro volta, si ricombinano e influenzano giovanissimi drop-out integrali, e/o giovani artisti in formazione, provenienti dalle scuole d’arte e dai corsi serali di fotografia sperimentale. Improvvisazione, approccio tecnico informale, teorie artistico-politiche avanguardiste, mutuate dall’intera storia del ‘900, si compenetrano con la più totale libertà artistico-espressiva garantita dalla pletora dei nuovi linguaggi sonori emergenti dalle più fetide cantine urbane. Descritto in meno di due righe e mezzo, ambiziosamente, il punk. Un’alchimia capace di generare il sostrato perfetto per una vasta serie di nuovi talenti che, non a caso, andranno a delineare buona parte dell’immaginario musicale e “pop” contemporaneo. La scena californiana, più di ogni altra, partorisce alcune delle figure più coinvolgenti-emozionanti per creatività, longevità e capacità di cogliere l’essenza del nascente movimento e di influenzare le future generazioni. F-Stop Fitzgerald, Spot, Ruby Ray, G. E. Friedman, Jenny Lens… un nome su tutti, Gary Panther, per un’immagine su tutte: lo sconvolgente, rabbioso minimalismo, esaltato dall’apparente semplicità del piano americano, su cui pone, rendendolo immortale, il logo degli Screamers. E verrebbe da pensare che una così perfetta consonanza, nel cogliere il nesso, misteriosamente ignoto, che intercorre tra suono, estetica e attitudine, sia inarrivabile, eppure… All’alba dell’hardcore infatti, sebbene formatosi già nel milieu del Masque, la Mecca del punk Losangelino, si staglia la figura di Edward “Ed” Colver. Se, in termini puramente musicali, l’hardcore si pone in linea diretta con l’autonomia e la radicalità espressa dal punk originario, continuando insieme ad altri linguaggi sonori post-punk a smantellare la rigidità dei generi, definendo futuri, nuovi, inediti, possibili – altro che l’interpretazione letterale del “no future”, o, della “blank generation” come ancora qualche imbolsito burocrate della stampa musicale vorrebbe convincervi – specularmente si potrebbe dire dell’arte di Colver. Dal Jello Biafra che, come un sorta di Cristo post-moderno, sacrifica il corpo del suo stesso-se stesso Padre al tumulto delle folle, alle convulsioni di Stevo dei Vandals. Dai Red Cross colti nella loro furia pre-adolescenziale a Johanna Went impressa nella sua ferocia “azionista”, passando per il barrage poliziesco durante la prima del film “Decline of Western Civilization”. Per non parlare della più iconica di tutte le innumerevoli foto dell’originariamente fuori controllo, e, autenticamente selvaggio, stage diving che mai siano state scattate: “The Wasted Youth flip shot”. E non finisce certo qui… “Damaged” 12” lp e “Damaged I/Luoie Louie” 7” dei Black Flag, “Fear of life” 12” lp degli Channel Three, e “Group Sex” de… dei.. non ricordo più bene – per la creazione-composizione grafica di un celeberrimo vinile, creata in squadra con Diane Zincavage e Shawn Kerri (Frontier rec., flp 1002, XI/1980, ma avevate capito, daiiiii!). Cruda fotografia di strada + retaggio pop-art + fumetto, nell’allegato: sublimazione! E’ sufficiente? Sarebbe ancora possibile parlare di fotografia in campo musicale dopo… di che tipo, quale angolatura possibile, dove poter provare a ricostruire? Quale senso e quale originalità? La risposta, forse l’unica corretta, è ambivalente. Da una parte, verrebbe da dire ovvio che no: che senso? Cosa? Perchè? Da un’altra prospettiva, ovvio che sì, ma, a una sola, e, intuitivamente unica condizione: spingere al massimo grado possibile tanto la deframmentazione angolare-visiva quanto il rapporto intimamente-intrinseco con i performer, i gruppi, la loro base e i singoli scenester. Gli strumenti stessi, lo spazio, i club, i bar, le cantine, e, certi attraversamenti da individuare, in qualche punto, tra le interzone urbane, lo wasteland periferico e certe penombre intraviste, inseguite, allo spasimo, negate, integralmente, incorporate. Sopra e sotto i cavalcavia, nelle colonne di sopraelevate infinite, o nella pancia di canali perduti-assorbiti dall’incalzare dei deserti, tra cactus, stazioni di rifornimento, a fianco degli sfasciacarrozze, con l’immancabile McDonald e l’ultima fermata del greyhound. Strutturalmente la forma del nulla, tra il “Repoman” di Alex Cox e “To live and die in LA” di William Friedkin, giusto per gettare sul piatto anche una sorta di microscopico itinerario cinematografico. E, ancora, tra un backyard e lo sprofondare in un basement sia esso utilizzato per un gig improvvisato-clandestino, o servibile per una sala prove continuativa-immaginaria. Un processo del resto parallelo a quello dell’atomizzazione sonora, rappresentata dalle varie fughe in avanti costituite dal noise puro, al grugnito claustrofobico del grind. Dal trash, dal crossover, dal grunge, senza dubbio, l’industrial-ambient-dub-elettronico – Scorn, Godflesh, per capirci, sino al techno-core – i Ministry evoluti, i Lard, Babyland, Tit Wrench – stop! Seguendo tale solco, impossibile, seppur di passaggio, non menzionare la “Revolution Summer” di DC – Cynthia Conolly, Sharon Cheslow, Leslie Plague, Amy Pickering, o, a maggior ragione, non ricordare una figura chiave come Murray Bowels. Si veda, al riguardo, “If life is a bowl of cherries, why am I in the pit?” fotozine (MRR edizioni, 1986), insieme all’omaggio che ne ha offerto Matt Saincome, fondatore del sito satirico punk “Hard time”: “My friends and I, we threw a show at a barn in Clayton when I was 16,” Saincome said. “There were 12 people there, out in the middle of nowhere, up this mountain, it didn’t even have an address. Absolutely no one came. No popular bands. And all of a sudden, Murray popped up. It’s me and 12 of my friends, and then him… His dedication to punk went so far that he wasn’t just going to a couple venues here and there. He said, ‘I’m gonna drive up this mountain in Clayton, to a barn with cows and chickens”. Parte 2 – Sintesi: mente, occhio e… cuore. Forse nessuno, nessuno più dei narratori per immagini, dei fotografi punk, con esso cresciuti e formatisi, sono stati in grado di cogliere il potere e la forza dirompente della sua progressività e del groviglio di nessi che continuava a tessere a partire dalla seconda meta degli anni ’80. Interpreti e testimoni, sul campo stesso, di stagioni non meno irripetibili di quelle “classiche” dei 70’s, o dei primi anni ’80. Ecco che, nell’occhio di Kirk Dominguez, spesso pubblicati per impreziosire le copiose pagine di Flipside – la più duratura e intelligente delle fanzine sputate fuori dal ’77 internazionale – vengono per sempre scolpiti intensi attimi di “birre, sudore e anarchia” capaci di restituire la profondità con cui il punk va a costituirsi rete di relazioni – spina dorsale dell’anticonformismo suburbano nord americano. Butthole Surfers, Mentors, RHCP, Exploited, X, Cramps, decine di “minori”, e, le band in movimento dalla/per la sterminata “provincia” americana, tra cui sarebbe criminale non isolare i Nirvana pre-successo planetario. Catturati nel 1989, presso “Al’s Bar”, nel centro storico di LA, a un concerto condiviso con i gloriosi locali Claw Hammer, davanti a un pubblico, a stento, numerato in venti spettatori: un muro di suono post-hardcore che scatenava vibrazioni cristalline. Cobain e accoliti, ritratti fuori da ogni clichè, e ben prima, molto prima, che i famosi burocrati, sempre loro e chi altri – altre menti – li etichettassero alfieri del grunge. Certo, il gruppo per antonomasia, che “conquistò tutto”, e, che, nella più aderente delle attitudini punk, di lì a un paio di anni getterà via tutto. Lo sguardo di Kirk c’era e, come a suggellare lo stimolo rivoltogli da Al “Flipside”: “Sii più di un testimone”, ha immortalato decine di altre band in tour che, ispirate dal punk di LA – facciamo cinque nomi, impossibile, soltanto cinque, a provarci: Weirdos-Germs-X-Black Flag-Screamers – alla non-capitale del Regno di California tornavano, quasi attratti da una potente calamita, come per pagare un tributo dovuto a quella stessa scena che aveva contribuito a generarli per, letteralmente, GERM(S)/minazione. Per una fortuita coincidenza, la mostra dedicata a Dominguez si inaugura in parallelo con l’evento benefit che SonicReducer e Raindogs House hanno organizzato per sostenere la realtà bolognese musico-culturale “Vecchio Son”. Ora, con accesso a partire dalle 20.30, nell’ambito di tale iniziativa ci sarà la possibilità di visitare la sezione genovese delle esposizioni qui tratteggiate, cornice della presentazione del libro “Nabat sopra e sotto i palchi” curato e realizzato da Fabrizio “Fritz” Barile stesso (Red Star Press, Bologna 2023). Fritz attacca a fotografare con regolarità in un periodo particolarmente delicato per la storia del punk italiano. Precisamente gli anni in cui la canea mainstream si lanciava nel fornire l’identikit del nazi-skin, infangando vent’anni di storia e plasmando dal nulla la figura del folk
Una nave rigassificatrice che converte il gnl trasportato da navi metaniere a 4 km dalla costa per una ventina d’anni, un breve tratto di tubo sottomarino che prosegue sulla terraferma lungo il greto del fiume Quiliano fino alla stazione di controllo del gas da dove poi partono due linee di metanodotti, uno con destinazione la centrale Tirreno Power di Vado e una linea di circa 30km con destinazione a Cairo M.