Gino rotten, Perchten scylla, Dwarf lift dwarf live alle cantine di Rocchetta Nervina (Im) 2 nov 2024
Gino rotten, Perchten scylla, Dwarf lift dwarf live alle cantine di Rocchetta Nervina (Im) 2 nov 2024.
Gino rotten, Perchten scylla, Dwarf lift dwarf live alle cantine di Rocchetta Nervina (Im) 2 nov 2024.
Sabot, Jacopo Andreini, lestophant live al Next Emerson (Firenze 19/10/24)
Fanculo il maltempo pre-autunnale, fanculo la trasferta infrasettimanale: avendo la possibilità-privilegio di soggiornare nei paraggi (a casa di familiari) chi vi scrive ha colto la palla al balzo e si è rimesso on the road per raggiungere la Toscana, e precisamente il suo capoluogo di regione, Firenze, che ha ospitato una delle quattro tappe del tour italiano dei Mudhoney, leggendaria rock ‘n’ roll band di Seattle, all’interno del segmento europeo di concerti a supporto del loro ultimo album, “Plastic eternity“, uscito l’anno scorso. E a loro non si poteva dire di no. Arrivato nella città-culla del Rinascimento insieme ad amici musicisti della vicina scena R’N’R pisana, si entra al Viper Theatre, scenario del live della serata – praticamente sold out e ribollente di passione – e subito si assiste al set del gruppo di apertura, i SØWT, giovane combo noise-pop olandese che accompagna i Mudhoney durante la tournée come opening act di quasi tutti gli show europei. I ragazzi si sbattono sul palco, offrendo una performance decisamente rumorosa e sanguigna, con sonorità pesantemente indebitate con quelle di (ex) colleghi di Mark Arm e compari del “Seattle sound” (Nirvana, Hole) e dell’alt. rock in generale (Sonic Youth) tutto sommato un buon antipasto per scaldare la platea, in attesa dell’apparizione on stage dei nostri beniamini. Alle 21.30, puntuali, i nostri si prendono la scena, con un Mark Arm ancora in forma smagliante (anche e soprattutto a livello canoro, a differenza di tanti suoi colleghi coetanei che, nonostante siano completamente afoni, continuano a incidere dischi e andare in giro a raccattare figure di merda) sempre contraddistinto da uno spirito sguaiatamente punk, incurante di quaranta anni di percorso musicale (la maggior parte dei quali vissuti “al limite”, apparentemente fedele al motto: “Hope I die before I get old” di Whoiana memoria – e anche alla massima: “Vivi rapido, muori giovane” – devoto alla immancabile triade sesso-droga-alcool) e sessanta primavere sul groppone. Non da meno i suoi inseparabili compagni di viaggio, il fido Steve Turner a graffiare e ringhiare sulla sei corde, Guy Maddison a fornire un solido contributo al basso e Dan Peters inscalfibile macchina da guerra dietro le pelli della batteria. Ampio spazio viene logicamente riservato, nell’abbondante setlist proposta, alla loro release più recente (“Move under“, “Almost everything“, “Souvenir of my trip“, “Little dogs“, “Tom Herman’s hermits“, “Flush the fascists“, “Human stock capital“) con un Arm che, verso la parte finale del concerto, ha dismesso la chitarra per vestire i soli panni dello chansonnier, interpretando alcuni pezzi (“Next time“, “I’m now“, “Paranoid core“, “21st centuries pharisees“, “One bad actor“) con un’enfasi quasi teatrale. Ma sono soprattutto i classici del repertorio del quartetto a incendiare a dovere il pubblico, da “If I think” (che ha aperto le elettriche danze della serata) a “Into the drink“, passando per “You got it (keep it outta my face)“, “Good enough” e gli evergreen “Sweet young thing ain’t sweet no more” e “Touch me I’m sick” (marcio anthem garage punk marcio e autentico inno all’autodistruzione da lerci ubriaconi, all’autocommiserazione caciarona e al sarcasmo cialtrone nonché, a posteriori, vero brano simbolo del movimento musicale underground della scena di Seattle che sarebbe stato etichettata dal mainstream come “grunge” dopo il boom commerciale di Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden e Alice in Chains) e completando il gran finale con l’encore affidato a “Suck you dry“, “Here comes sickness” e “In ‘n’ out of grace” che hanno scatenato entusiasmo e pogo in sala. Come sempre, in sede live (come su disco) i quattro (ex) ragazzacci hanno confermato di essere molto Mud e poco honey, reggono il palco in maniera egregia, sempre fedeli a loro stessi, su questo non v’erano dubbi e, del resto, non hanno più nulla da dimostrare a nessuno. Ma quando torni a casa con la testa che rimbomba dopo aver cantato-urlato per un’ora e mezza a squarciagola, e l’unica cosa che il cuore ti chiede di fare è rimettere di nuovo su gli album dei Mudhoney per riascoltarli ancora, capisci che hanno fatto centro.
Non si poteva resistere al richiamo dei supereroi monobanda, e allora InYourEyes ha risposto “presente” a un appuntamento davvero imperdibile, incentrato sulle “one man band“, che si è tenuto a Pisa in occasione della chiusura stagionale dei concerti alla Backstage Academy (un valido spazio artistico polifunzionale situato a pochi chilometri dalla arcinota Piazza dei Miracoli dove c’è la Torre che pende-che pende) che la scorsa settimana ha proposto al pubblico un finale pirotecnico, portando sul palco toscano un’autentica leggenda underground R’N’R come Bob Log III, che durante il suo tour in giro per il mondo è passato anche dall’Italia (terra spesso bazzicata dal nostro) per alcune date. E allora chi vi scrive (con un nickname ispirato a un altro formidabile one show-man band) e ha la “Shit” nel soprannome, non poteva mancare nel portare i suoi ossequi al funambolo dell’Arizona che, in passato, ha pubblicato un album intitolato “My shit is perfect” ! A scaldare la platea – accorsa in buon numero – ci ha pensato, in apertura della serata, un dichiarato allievo di Bob, l’autoctono One Man Buzz! (di cui ci eravamo già occupati qualche mese fa) che con la sua maschera demoniaca ha saputo rendere l’atmosfera “infernale” proponendo i brani del suo nuovo album autoprodotto (“One man band from hell with love and flames“, tanto per gradire) destreggiandosi in modo compatto e convincente tra canto, chitarre, theremin e grancasse – facendo tutto da solo, come vuole la tradizione della (non) scuola monobanda. DIY e ritmi serrati blues/punk che hanno infuocato a dovere il terreno per l’avvento del funambolo statunitense. E poi è arrivato il ciclone Bob Log III, magnetico catalizzatore dell’attenzione del pubblico sia a livello di immagine (col suo classico travestimento di scena, in tuta uniforme e casco integrale munito di cornetta telefonica usata a mo’ di microfono, e una scenografia piuttosto insolita per un concerto rock ‘n’ roll: palloncini da distribuire e far scoppiare e gonfiabili di un canotto e di una papera, con quest’ultima definita goliardicamente da Log “il mio manager”, poi anche innaffiata da una bottiglia di prosecco) sia a livello sonoro, col suo “One Man Band Boom” show, condito da chitarre vintage Silvertone Archtop, con le quali ha elettrizzato i presenti sfoderando un’ora e mezza di scatenato Delta blues “punkizzato” con venature noise, una vera forza della natura che ha saputo coinvolgere tutta la sala, con Bob che, come sempre, si è prodigato per rendere gli spettatori attivamente partecipi del suo blues punk guitar dance party, invitando sul palco alcune donzelle a sedersi e ballare sulle sua ginocchia per creare una coreografia sul brano “I want your shit on my leg” (e spesso è anche solito chiamare a raccolta le persone per mettere in scena il “rito” di infilare i capezzoli, suoi e dei “volontari”, in un bicchiere di scotch che poi beve, una “pratica” che caratterizza il pezzo “Boob scotch”) e interagendo con le prime file tentando un improbabile dialogo in un italiano maccheronico. Uno show in cui il buonumore è assicurato e dove si può anche restare impressionati dalla bravura strumentistica e vocale di Bob (che, non a caso, con oltre venticinque anni di variopinto percorso, è annoverato tra i capostipiti e i precursori dell’ondata monobanda) che a fine serata, oltre a ricevere i complimenti, ha anche firmato una dedica, a chi vi scrive, sul merchandising acquistato. Attitudine, passione, sudore, mentalità, costanza, perseveranza, irriverenza, divertimento e umiltà. Alla fine sono queste le qualità che rendono credibili i performer che ancora si ostinano a suonare rock ‘n’ roll e, quando le cose vengono fatte in maniera genuina – e certamente è il caso di One Man Buzz e Bob Log III – il risultato si traduce in serate riuscite come questa, che magari non resteranno negli annali della storia del R’N’R, ma certamente regalano soddisfazioni agli appassionati e ripagano, in parte, i musicisti per i sacrifici fatti per portare avanti le proprie baracche, riuscendo ancora a sbattersi per migliaia di chilometri per proporre concerti e musica dal vivo in un mondo ormai totalmente dominato dalla digitalizzazione e dallo strapotere della musica liquida che ha polverizzato i mercati e i sogni di chi avrebbe voluto vivere solo della propria arte. Da qui si ripropone un consiglio spassionato, anzi una convinzione rafforzata da live shows come questo a cui abbiamo assistito: si torni a supportare la musica DIY e i musicisti indipendenti, si tornino ad apprezzare e scoprire le piccole realtà e le piccole scene nei piccoli club non asserviti alle logiche del profitto e del business da centro commerciale, perché è lì che risiede la vera essenza del rock ‘n’ roll (e non solo) e sarebbe meglio boicottare i megafestival senz’anima (soprattutto quelli organizzati all’italiana) perché è molto più bello e più gratificante contribuire a tenere in vita lo spirito underground.
Cosa c’è di meglio di un concerto rock ‘n’ roll per riscaldare le fredde notti d’autunno/inverno? E se poi il live in questione è suonato da una band come i Not Moving (LTD) che in Italia, da decenni, rappresenta IL rock ‘n’ roll, quello vero e meno celebrato “istituzionalmente” dal mainstream, che fai, non vai a vederli? Certo che si va! I nostri, lo scorso weekend, sono stati impegnati in una 3 giorni tra Toscana, Emilia e Piemonte con tre nuove date a supporto del loro nuovo (comeback) album uscito nel 2022, “Love Beat“, promuovendo il disco in un tour che va avanti dallo scorso anno e dovrebbe concludersi agli inizi del prossimo (e, ci giuriamo, siamo certi che non sarà la loro ultima tournée, nonostante la didascalia social “This could be the last time” che accompagna gli annunci e i resoconti delle loro esibizioni in giro per lo Stivale) e nella sera del primo giorno dell’ultimo mese del 2023 sono stati di scena nei dintorni di Pisa, al Caracol, uno di quei piccoli club in cui si può ancora vivere la vera essenza di un concerto R’N’R: a pochi centimetri dal palco e da chi suona on stage, con la possibilità di condividere le emozioni in tempo reale (e non filtrate da palchi situati a chilometri di distanza dal pubblico) con la band che si sta guardando, e poi interagire, salutare e scambiare parole, commenti e impressioni coi musicisti, interfacciarsi con chi suona/canta senza barriere multimediali e senza chiedere il permesso a guardie del corpo che proteggono le “rockstar” di turno. Dovrebbe essere sempre così, e Antonio “Tony Face” Bacciocchi, Rita “Lilith” Oberti e Dome La Muerte lo sanno bene e, da persone vere, umili e genuine quali sono, si dimostrano sempre alla mano e felici di stare a stretto contatto con l’affetto dei loro fan ed estimatori, non si risparmiano (sul palco come nella vita) e a dispetto del tempo carogna e delle sessanta primavere sul groppone (a eccezione della giovane chitarrista Iride Volpi) sono ancora in giro a sbattersi, a diffondere il verbo del rock ‘n’ roll a coloro che ne sanno godere e a offrire live shows grintosi che si mangiano a colazione tanti gruppi anonimi di sciatti e noiosi ventenni. Per chi vi scrive, questo è stato il primo concerto dei Not Moving a cui ha assistito dal vivo (essendo nato a metà degli Eighties, e poi in seguito ancora pargolo, ai tempi della line up “storica” dell’ensemble tosco-emiliano) e poco importa se, dopo la reunion, al moniker è stata aggiunta la sigla “L.T.D.” (cioè, Lilith, Tony e Dome) perché la sostanza non è cambiata e, come già scritto nella recensione di “Love Beat“, la chimica di gruppo è rimasta intatta, la scorza dura e il feeling ribelle sono ancora lì a sorreggere un sound sempre elettrico, sebbene meno viscerale e d’impatto, rispetto al selvaggio passato, ma più ragionato e maturo e ugualmente infuocato in sede live. Vinti i malanni di stagione che, il mese scorso, li avevano costretti a cancellare alcune date, i quattro si presentano sul palco del Caracol con una setlist generosa e compatta che intrattiene e diverte la platea accorsa per vederli in azione. Rita “Lilith”, lady in black e frontwoman che sa prendersi la scena molto meglio di tanti colleghi maschietti, interpreta ogni canzone con passione e coinvolgente trasporto; Tony, coi suoi immancabili occhiali scuri, è sempre garanzia di precisione, essenzialità e solidità alla batteria; Iride fa da efficace supporto elettrico alla seconda chitarra (quartetto senza basso, in omaggio ai primi Cramps) e poi c’è lui, Dome La Muerte, osannato idolo locale, ma anche leggenda del rock ‘n’ roll italiano tutto, il figlio che Keith Richards avrebbe voluto avere. Un’ora e mezza tirata e senza pause tra una canzone e l’altra, una scaletta che ha ripercorso quasi tutta la discografia del gruppo, tra brani della primissima ora come “Baron Samedi” (contenuta nell’Ep “Strange Dolls” del 1982, registrato prima dell’arrivo di Dome La Muerte) altre gemme provenienti dagli “altri” anni Ottanta come “Goin’ down“, “Crawling” (ripescata dall’Ep “Black ‘n’ wild“) “Land of nothing” (dal mini-album del 1983, ma pubblicato solo nel 2003 da Area Pirata) “I stopped yawning” (da “Flash on you“) lo strumentale “Surfin’ dead blues” (posto in apertura delle danze e tratto dall’Ep “Jesus loves his children“) “Lost bay” e “Suicide temple” (dal primo vero e proprio Lp, “Sinnermen“) passando per il nuovo corso (“Lady Wine“, dall’Ep omonimo, e poi una selezione di pezzi del nuovo long playing: “Love beat“, “Down she goes“, “Dirty time“, “Deep eyes“, “Don’t give up“) il tutto condito dalla consueta manciata di cover: dal classico surf “Pipeline” (che negli anni Ottanta gli valse i complimenti di Johnny Thunders, il quale diceva che la loro versione suonasse meglio della sua!) “Primitive” dei Groupies/Cramps, “I need somebody” degli Stooges, “Venus in furs” dei Velvet Underground, una concitata “Fire of Love” dei Gun Club e l’incendiario rifacimento di “I just wanna make love to you” di Willie Dixon con cui i NM chiudono sempre le loro esibizioni. Un concerto dei Not Moving (LTD) è sempre un evento da ricordare. Lo stile e la mentalità sono qualità che si acquisiscono con pratica, sudore, attitudine ed esperienze di vita e non si comprano al (super)mercato (e del resto, se hanno ricevuto apprezzamenti e attestati di stima da gente come Joe Strummer/Clash e Johnny Thunders, tra gli altri, non è certo per grazia ricevuta, ma per la caparbietà/costanza della loro proposta e del loro talento. P.S.: Iggy Pop, smettila di fare il coglionazzo coi Maneskin e passa i Not Moving sul tuo programma radiofonico alla BBC!) e i nostri confermano di essere parte, in Italia, dell’underground che resiste alle mode mainstream e alle derive del mercato/marketing musicale di algoritmi, autotune e altre aberrazioni spersonalizzanti. E finalmente la loro autenticità è stata omaggiata da un riconoscimento (meritatissimo, aggiungiamo) “alla carriera” assegnato a Dome e soci alla ventiseiesima edizione del premio intitolato al cantautore Piero Ciampi a Livorno, un avvenimento che sicuramente ripaga questi/e eterni/e ragazzi/e di tanti sforzi e sacrifici fatti, dal 1981 a oggi, per portare in giro la loro musica senza compromessi e coltivare un sogno R’N’R. La battaglia va avanti (speriamo ancora per tanti anni) e lo spirito continua. Lunga vita agli outsider!
JIM JONES ALL STARS LIVE: Quando una delle figure più esplosive della scena garage rock mondiale come Jim Jones chiama, i cuori impavidi amanti del rock ‘n’ roll dovrebbero sempre rispondere e partecipare calorosamente.
Lo scorso 21 ottobre si è svolta presso lo Slaughter di Paderno Dugnano la quinta edizione del Doom Earth Fest, una rassegna che è diventata ormai un punto fisso per gli appassionati del doom estremo, organizzata come sempre da Alberto Carmine (alias Morpheus, fondatore e motore della pagina FB Doom Heart), anche quest’anno coadiuvato dai musicisti appartenenti band death doom bresciana (Echo).
Gli Strike Anywhere sono uno di quei gruppi che delineano in maniera netta un periodo della mia vita. Li vidi live quasi per caso al Pacì Paciana di Bergamo, 25 agosto 2002 (grazie internet, non ho una memoria così sviluppata), e rimasi folgorato.
TURNSTILE – AMA Music Festival-Romano D’Erzellino. 23/08/2023: Parte “i wanna dance with somebody” di Whitney Huston come warm up e il pubblico inizia a gasarsi. “Chissà che pubblico di hipsters e bimbiminkia vi ritroveretehhh!!!”
Ciao gente , oggi vi faccio lo spoiler di una band Toscana , vi parlo dei Dirty Blade, che ho avuto modo di vedere sabato 17 giugno al concerto che hanno organizzato in località S.Miniato basso (PI), presso la SCUDERIA DI BARONE
THE MUMMIES LIVE IN BOLOGNA (2-6-2023): arrivato a Bologna, al TPO, insieme a un amico, subito notiamo però la totale assenza di banchini a tema, zero merchandising ufficiale del quartetto californiano
THE FUZZTONES live: Sul palco i Fuzztones, gruppo storico garage rock statunitense, il cui nome è stato ispirato dall’effetto di distorsione fuzz tone appunto, inventato nel 1962 e che sentiamo sempre in Satisfaction dei Rolling Stones.