Intervista No Man Eyes
Intervista al chitarrista della band genovese No Man Eyes Spane, che ci spiega la genesi del loro ultimo ottimo disco “Harness the sun” e di tanto altro.
Dalla letteratura all’attualità, dalla filosofia all’arte: a noi interessa tutto. Purché non ci si annoi.
Intervista al chitarrista della band genovese No Man Eyes Spane, che ci spiega la genesi del loro ultimo ottimo disco “Harness the sun” e di tanto altro.
Lasciati incantare dallo sciamanesimo e dalla magia di Alos con Stefania Pedretti. Scopri il significato nascosto di Embrace the darkness in un’intervista straordinaria a cura di Massimo Argo.
Recentemente ho scelto di portare sulle pagine di Libroguerriero “La vita di chi resta”, il romanzo di Matteo B. Bianchi dedicato a chi si ritrova catapultato in quell’inferno terreno conseguente al suicidio di una persona cara. Nonostante l’argomento mi tocchi molto da vicino, non ho pensato nemmeno per un istante alla possibilità di chiedere a qualcun altro della redazione di farlo al mio posto. Non ci si libera del dolore di queste dinamiche mettendo la testa sotto la sabbia, fingendo che non sia toccato a noi, illudendoci che riempiendo la nostra vita di mille altre cose, si possa dimenticare la sofferenza. Finiremmo per fare come chi colleziona acciacchi immaginari, pur essendo sanissimo, convinto che questo possa in qualche modo proteggerlo dalle malattie reali. L’oblio non serve a nulla. Nella mia vita, priva, o quasi, di certezze, uno dei pochi punti fermi è rappresentato dall’impossibilità – e dall’inutilità – di evitare il confronto con il passato, ostentando sicurezze irreali. Esacerbare il dolore può, razionalmente, non essere la via maestra per venire a patti con la vita. Ma è senza ombra di dubbio il modo migliore per iniziare a conviverci. Fingere che non sia toccato a noi, o semplicemente allontanarne il ricordo, possono, nell’immediato, farci star meglio, ma alla lunga dovremo esser pronti a fare i conti con noi stessi. Come dice anche Bianchi nel suo romanzo, questo è un dolore da cui non è semplice affrancarsi. Affermazione incontrovertibile, cui però sento di dover aggiungere che ce lo porteremo dietro per sempre, e, anche quando penseremo di essere riusciti a metterlo in quell’angolo del cuore più nascosto, in cui può farci meno male, ce lo ritroveremo davanti, forte e fiero come se fosse successo tutto il giorno prima, e il tempo passato non fosse mai esistito. Il suicidio non è un dolore qualunque. È un qualcosa che uccide sia chi lo mette in atto che chi resta. È uno spartiacque nelle nostre vite, e che sancisce, in modo inappellabile, che non saremo mai più quelli di prima. Quello che ero un tempo non esiste più, è morto in quel sabato di settembre del duemiladiciannove, e non tornerà. Ora sono “altro”. Un qualcosa di indefinito che non ha preso la sua forma definitiva, che si sta modellando sotto i colpi di un incontro scontro con me stesso che non mi lascia tregua, ricondizionato da tutto quello che il destino mi mette tra le ruote in questa nostra corsa verso l’estinzione. Secondo Bianchi “Il dolore è un anestetico. Avvolge, protegge. Mi rende inattaccabile anche dalle cattiverie del mondo. Possono dirmi, farmi qualunque cosa, non reagisco, non mi importa Sono già passato attraverso il peggio. Non può succedermi nient’altro.” Io invece credo che al peggio non c’è mai fine. Il ricordo di quei drammatici momenti non serve per anestetizzare tutto il male del mondo con cui mi devo confrontare quasi quotidianamente, in ogni sua forma e manifestazione. Sono due dolori diversi, figli di due dinamiche contrapposte. La prima ci ha ucciso, la seconda ci tiene vivi. Quando ripenso a DR capisco che quello che oggi mi manca di più sia la sua voce, intesa come capacità di analisi e di giudizio. In un mondo in cui è sempre più difficile trovare qualcuno che abbia davvero qualcosa da dire, e che sia soprattutto capace di ascoltare, anziché specchiare il proprio ego in conversazioni unidirezionali, DR rappresentava la mia necessità di confronto. Non fatico a individuarlo come la persona da cui abbia tratto i maggiori (e migliori) insegnamenti, quella che non solo mi ha ridato la voglia di fare, ma che mi ha anche ricordato l’importanza dei sentimenti, e della necessità di rallentare mentre tutti corrono sempre più velocemente incontro all’estinzione. L’unico mio rammarico sta nel non esser riuscito a intercettare il suo pensiero in quei giorni. Avrei voluto che avvisasse della sua intenzione di scendere in corsa prima dello schianto finale cui siamo destinati. Non lo avrei giudicato per la scelta. Non avrei cercato di disilluderlo dal suo progetto. Mi sarei limitato ad abbracciarlo sapendo che sarebbe stata l’ultima volta in cui ci avremmo sorriso insieme. È fin troppo ovvio che qualunque cosa gli avessi detto non sarebbe servita a nulla, men che meno a farlo desistere dalle sue intenzioni. Mi sarei accontentato di parlarne insieme, cercando il modo più indolore per evitare di ferirci ulteriormente, perché, come sottolinea il romanzo, il problema è tutto per “quelli che restano”. L’avrei fatto. E potendo tornare indietro lo farei. Consapevolmente incurante di andare a infrangere l’articolo 580 del Codice di Procedura Penale, “Istigazione o aiuto al suicidio”, che recita testualmente: Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, e’ punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, e’ punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. Non mi sono mai preoccupato della legislazione. In tutte le occasioni in cui ho ritenuto di doverla infrangere l’ho fatto, consapevole dei rischi e delle conseguenze, ma fermamente convinto dei miei propositi. Non è mai stata, e non sarà, una legge che considero iniqua il freno alle mie intenzioni. Le ho infrante e continuerò a infrangerle. Pagherò quello che ci sarà da pagare, in nome di un reato che lo Stato considera tale, ma che non solo non riconosco, ma che inquadro come l’unica strada per esercitare il mio libero arbitrio. Rileggendo quest’ennesima “confessione” sorrido pensando che sono oltre trent’anni che sono pagato per tenere in vita le persone, e stavo per aiutarne una a morire. Un paradosso, ma solo per chi ragiona in modo unilaterale e superficiale. Non per me, e non per chi, come me, tocca il dolore e vede spegnersi gli occhi delle persone a cui tiene, e non può nemmeno immaginare la disperazione che si cela dietro a freddi sorrisi di circostanza, e routine che mascherano l’attesa per il gesto liberatorio.
I centri commerciali dai soffitti come cattedrali, che si innalzano verso quegli dèi creatori che fanno loro percepire le compere come atti di fede…
Ho raggiunto via email gli Space Yantra nel bel mezzo del loro viaggio in Amazzonia per una chiacchierata, ecco cosa ne e venuto fuori. Di Andrea Parodi.
Recentemente gli amici di Riserva Indie hanno condiviso sui loro spazi parte di un nostro intervento tratto proprio da questo spazio (Confessioni di una maschera “La virulenza della viralità“), che non ha mancato di scatenare un putiferio mediatico, fatto di reazioni scomposte, al limite della lesa maestà e della denuncia penale. Al netto di repliche piccate, più o meno stilisticamente e grammaticamente corrette, quello che ci ha maggiormente sorpreso è stato notare come la quasi totalità degli intervenuti non abbia minimamente capito di che cosa stessimo parlando, limitandosi al virgolettato dei ragazzi di Riserva Indie. Una reazione di pancia, a volte tristemente adolescenziale, che nei toni, ma soprattutto nelle argomentazioni, ha mostrato come non ci sia stata la voglia di scomodarsi a leggere per intero il testo da cui era tratta la citazione. Tutti copiosamente incolonnati con commenti bidirezionali, chi pro e chi contro, che nulla hanno aggiunto al ragionamento che il team di Riserva Indie voleva innescare. Tutti pronti a dire la loro, fermandosi però all’estratto, al campionamento per dirla in musica, che guardava alla fruizione contemporanea dei concerti da parte delle generazioni moderne, troppo spesso, a nostro avviso, legata ad un uso indiscriminato e fuori luogo del cellulare, diventato oggetto imprescindibile anche in questi contesti. Restando in argomento “generazionale” pensavamo che, essendo i nostri figli abituati ad una soglia di attenzione online che si assesta a poco meno di dieci secondi, noi più adulti potessimo vantare un approccio più analitico. E invece ci siamo dovuti ricredere. Non esiste alcuna differenza, non esiste un Noi e un Loro, siamo tutti irrimediabilmente nella stessa – pessima – situazione. E a poco servono i recenti studi del Brain & Mind Institute della University of Western Ontario, che indica come il nostro cervello non sia in fase di regressione, ma stia soltanto adattandosi ai nuovi scenari, fatti di una pluralità di fonti e di contenuti. Dinamica che rende necessaria una maggiore velocità di metabolizzazione, ma che però – cosa che i canadesi non dicono – non sottintende l’analisi del testo, intesa come verifica dell’autenticità del contenuto. In pratica è come se l’importante fosse leggere, indipendentemente dal fatto che si tratti di una belinata o meno. Quella riportata da Riserva Indie era una considerazione da collocare in un diverso contesto. Non si trattava di impartire ordini su come ci di deve comportare ai concerti, ma solo evidenziare, tra i tanti, uno di quegli atteggiamenti che sancisce, oggi più che mai, una sorta di dipendenza da smartphone. Non era e non doveva essere il concerto – e le riprese dello stesso – il focus, ma un discorso più ampio. Purtroppo però, nessuno o quasi, si è preso la briga di leggere tutto il testo, realizzando che stava commentando dieci righe di un articolo molto più corposo. Atteggiamento che sposa alla perfezione il senso globale del ragionamento, e che sottolinea, una volta di più, come la dipendenza tecnologica vada a minare la libertà intellettuale e l’indipendenza. A noi di come approcciate e di che fate ai concerti non frega nulla. Il punto è un altro. E, francamente, non pensavamo fosse così difficile da capire. Ma, evidentemente, è proprio questa vostra spiccata approssimazione che vi impedisce di accedere a contenuti più approfonditi, perorando le nostre tesi, anche se in modo – per voi – del tutto involontario. Nonostante la soglia di attenzione si limiti ad otto soli secondi, questo non impedisce e non raffredda la pulsione da interventismo, che si rende manifesta in modo tanto frenetico quanto frettoloso, senza nemmeno provare a pensare di guardare le cose da altri punti di vista che non siano il proprio. Noi non ci crediamo migliori o più intelligenti degli altri. Siamo solo più attenti a quelle che sono le reali intenzioni, e quindi il fine, di coloro che scelgono di pubblicare un approfondimento, un ragionamento. Cerchiamo cioè di calarci nell’ottica di provare a capire le loro ragioni, e a confrontarle con le nostre. Atteggiamenti che riconosciamo essere al di fuori del pensare comune, e del comune agire, e che mal si sposano con la incontrollata frenesia di tutti coloro che vivono cellulare alla mano la maggior parte della giornata. È ovvio che auspichiamo un cambio di passo. Lo diciamo da tempo. Ma se queste sono le premesse, se si guarda solo a creare in ogni occasione una dicotomia, tanto inutile quanto inesistente, che va a sancire la nascita di due schieramenti opposti, non esiste alcun futuro. Nel caso in questione, non c’era e non c’è da scegliere da che parte stare. Non c’era nessun confronto/conflitto generazionale. C’era semplicemente da leggere un testo, nella sua totalità, e provare a capirlo. Un gesto immediato, diremmo quasi banale, che però, la maggior parte degli intervenuti non è stata in grado di fare. Il segno dell’ennesima occasione perduta. [button size=’medium’ style=” text=’Date un’occhiata a tutte le confession! ‘ icon=’fa-arrow-circle-o-left’ icon_color=” link=’https://www.iyezine.com/articoli/confessioni-di-una-maschera’ target=’_self’ color=” hover_color=” border_color=” hover_border_color=” background_color=” hover_background_color=” font_style=” font_weight=” text_align=” margin=”]
Time Bomb Fest Vol.2: festival di musica punk/oi! che si terrà il 13 gennaio 2024 presso la Bottega26 di Poggibonsi, in Toscana.
Intervista con Meghistos, Death metal anni novanta, esoterismo, cuore e rabbia la formula di Meghistos,
Cosa c’è di meglio di un concerto rock ‘n’ roll per riscaldare le fredde notti d’autunno/inverno? E se poi il live in questione è suonato da una band come i Not Moving (LTD) che in Italia, da decenni, rappresenta IL rock ‘n’ roll, quello vero e meno celebrato “istituzionalmente” dal mainstream, che fai, non vai a vederli? Certo che si va! I nostri, lo scorso weekend, sono stati impegnati in una 3 giorni tra Toscana, Emilia e Piemonte con tre nuove date a supporto del loro nuovo (comeback) album uscito nel 2022, “Love Beat“, promuovendo il disco in un tour che va avanti dallo scorso anno e dovrebbe concludersi agli inizi del prossimo (e, ci giuriamo, siamo certi che non sarà la loro ultima tournée, nonostante la didascalia social “This could be the last time” che accompagna gli annunci e i resoconti delle loro esibizioni in giro per lo Stivale) e nella sera del primo giorno dell’ultimo mese del 2023 sono stati di scena nei dintorni di Pisa, al Caracol, uno di quei piccoli club in cui si può ancora vivere la vera essenza di un concerto R’N’R: a pochi centimetri dal palco e da chi suona on stage, con la possibilità di condividere le emozioni in tempo reale (e non filtrate da palchi situati a chilometri di distanza dal pubblico) con la band che si sta guardando, e poi interagire, salutare e scambiare parole, commenti e impressioni coi musicisti, interfacciarsi con chi suona/canta senza barriere multimediali e senza chiedere il permesso a guardie del corpo che proteggono le “rockstar” di turno. Dovrebbe essere sempre così, e Antonio “Tony Face” Bacciocchi, Rita “Lilith” Oberti e Dome La Muerte lo sanno bene e, da persone vere, umili e genuine quali sono, si dimostrano sempre alla mano e felici di stare a stretto contatto con l’affetto dei loro fan ed estimatori, non si risparmiano (sul palco come nella vita) e a dispetto del tempo carogna e delle sessanta primavere sul groppone (a eccezione della giovane chitarrista Iride Volpi) sono ancora in giro a sbattersi, a diffondere il verbo del rock ‘n’ roll a coloro che ne sanno godere e a offrire live shows grintosi che si mangiano a colazione tanti gruppi anonimi di sciatti e noiosi ventenni. Per chi vi scrive, questo è stato il primo concerto dei Not Moving a cui ha assistito dal vivo (essendo nato a metà degli Eighties, e poi in seguito ancora pargolo, ai tempi della line up “storica” dell’ensemble tosco-emiliano) e poco importa se, dopo la reunion, al moniker è stata aggiunta la sigla “L.T.D.” (cioè, Lilith, Tony e Dome) perché la sostanza non è cambiata e, come già scritto nella recensione di “Love Beat“, la chimica di gruppo è rimasta intatta, la scorza dura e il feeling ribelle sono ancora lì a sorreggere un sound sempre elettrico, sebbene meno viscerale e d’impatto, rispetto al selvaggio passato, ma più ragionato e maturo e ugualmente infuocato in sede live. Vinti i malanni di stagione che, il mese scorso, li avevano costretti a cancellare alcune date, i quattro si presentano sul palco del Caracol con una setlist generosa e compatta che intrattiene e diverte la platea accorsa per vederli in azione. Rita “Lilith”, lady in black e frontwoman che sa prendersi la scena molto meglio di tanti colleghi maschietti, interpreta ogni canzone con passione e coinvolgente trasporto; Tony, coi suoi immancabili occhiali scuri, è sempre garanzia di precisione, essenzialità e solidità alla batteria; Iride fa da efficace supporto elettrico alla seconda chitarra (quartetto senza basso, in omaggio ai primi Cramps) e poi c’è lui, Dome La Muerte, osannato idolo locale, ma anche leggenda del rock ‘n’ roll italiano tutto, il figlio che Keith Richards avrebbe voluto avere. Un’ora e mezza tirata e senza pause tra una canzone e l’altra, una scaletta che ha ripercorso quasi tutta la discografia del gruppo, tra brani della primissima ora come “Baron Samedi” (contenuta nell’Ep “Strange Dolls” del 1982, registrato prima dell’arrivo di Dome La Muerte) altre gemme provenienti dagli “altri” anni Ottanta come “Goin’ down“, “Crawling” (ripescata dall’Ep “Black ‘n’ wild“) “Land of nothing” (dal mini-album del 1983, ma pubblicato solo nel 2003 da Area Pirata) “I stopped yawning” (da “Flash on you“) lo strumentale “Surfin’ dead blues” (posto in apertura delle danze e tratto dall’Ep “Jesus loves his children“) “Lost bay” e “Suicide temple” (dal primo vero e proprio Lp, “Sinnermen“) passando per il nuovo corso (“Lady Wine“, dall’Ep omonimo, e poi una selezione di pezzi del nuovo long playing: “Love beat“, “Down she goes“, “Dirty time“, “Deep eyes“, “Don’t give up“) il tutto condito dalla consueta manciata di cover: dal classico surf “Pipeline” (che negli anni Ottanta gli valse i complimenti di Johnny Thunders, il quale diceva che la loro versione suonasse meglio della sua!) “Primitive” dei Groupies/Cramps, “I need somebody” degli Stooges, “Venus in furs” dei Velvet Underground, una concitata “Fire of Love” dei Gun Club e l’incendiario rifacimento di “I just wanna make love to you” di Willie Dixon con cui i NM chiudono sempre le loro esibizioni. Un concerto dei Not Moving (LTD) è sempre un evento da ricordare. Lo stile e la mentalità sono qualità che si acquisiscono con pratica, sudore, attitudine ed esperienze di vita e non si comprano al (super)mercato (e del resto, se hanno ricevuto apprezzamenti e attestati di stima da gente come Joe Strummer/Clash e Johnny Thunders, tra gli altri, non è certo per grazia ricevuta, ma per la caparbietà/costanza della loro proposta e del loro talento. P.S.: Iggy Pop, smettila di fare il coglionazzo coi Maneskin e passa i Not Moving sul tuo programma radiofonico alla BBC!) e i nostri confermano di essere parte, in Italia, dell’underground che resiste alle mode mainstream e alle derive del mercato/marketing musicale di algoritmi, autotune e altre aberrazioni spersonalizzanti. E finalmente la loro autenticità è stata omaggiata da un riconoscimento (meritatissimo, aggiungiamo) “alla carriera” assegnato a Dome e soci alla ventiseiesima edizione del premio intitolato al cantautore Piero Ciampi a Livorno, un avvenimento che sicuramente ripaga questi/e eterni/e ragazzi/e di tanti sforzi e sacrifici fatti, dal 1981 a oggi, per portare in giro la loro musica senza compromessi e coltivare un sogno R’N’R. La battaglia va avanti (speriamo ancora per tanti anni) e lo spirito continua. Lunga vita agli outsider!
In occasione dell’uscita del suo disco di debutto “Invisible pathways” abbiamo avuto il privileglio di fare due chiacchere con la cantante, compositrice e improvvisatrice Martina Di Roma, artista molto interessante e dalle idee molto chiare.
JIM JONES ALL STARS LIVE: Quando una delle figure più esplosive della scena garage rock mondiale come Jim Jones chiama, i cuori impavidi amanti del rock ‘n’ roll dovrebbero sempre rispondere e partecipare calorosamente.
Quale posizione, quali modalità, e quale lotta occorrono ed è giusto portare avanti?