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Sottoscala Pandemico #10-La Cassetta che mi cambiò la vita

In pratica è accaduto che qualche giorno addietro, proprio su questa webzine presso la quale scrivo, collaboro e faccio il fanfarone, è comparsa all’improvviso questa recensione....

In pratica è accaduto che qualche giorno addietro, proprio su questa webzine presso la quale scrivo, collaboro e faccio il fanfarone, è comparsa all’improvviso questa recensione (non proprio all’improvviso, in realtà era già stata annunciata nel gruppo telegram di noi collaboratori, ma vabbè…) sul ben noto documentario The Montage of Heck, opera atta a celebrare, almeno credo, l’altrettanto ben noto cantante/chitarrista/autore/leader dei Nirvana Kurt Cobain:

https://www.iyezine.com/kurt-cobain-montage-of-heck-di-brett-morgen

Sinceramente non ho visto il film e, a dirla proprio tutta, penso anche che non lo farò mai; la ragione è che di Cobain non me ne frega poi un granché e per i Nirvana non è che mi sia rimasta appiccicata tutta questa venerazione.

Tuttavia questo articolo ha stimolato in me una profonda riflessione e mi ha costretto ad andare indietro nei giorni e interrogare me stesso su me stesso e sui miei inizi come ascoltatore e appassionato di musica, perché, a dirla tutta, contrariamente all’autore dell’articolo, io, appena sentii Smells Like Teen Spirit, non dormii la notte tanto rimasi affascinato e avviluppato da quella melodia.

Era il 1991, avevo dodici anni, e di musica non capivo un cazzo: mi fiondai al negozio di dischi e comprai la versione in cassetta di Nevermind e lo riascoltai per mesi e mesi.

Allora, mi chiedo, come mai The Montage of Heck non ha sortito in me interesse alcuno?

Perché mi riconosco nelle parole di uno che, ai tempi dell’uscita di Nevermind, aveva già gusti ben definiti e orecchie allenate ed era un metallaro senza compromessi (cosa che, per altro, io non sono mai stato: sia metallaro che, ahimè, senza compromessi)?E, soprattutto, perché, pochi anni dopo, vendetti quella cassetta per comprarmi le sigarette?

Perché, insomma, quando si parla di Nirvana, non mi scende la lacrima, la tenaglia della nostalgia non mi stringe il cuore e, in soldoni, rimango indifferente come un burocrate democristiano di fronte alle collusioni stato-mafia?


Il motivo è che se mi metto a interrogare i miei gusti personali, le mie esigenze estetico-sonore e la mia collezione personale di dischi, tutto mi riporta a un solo disco che, a dirla tutta, proprio un disco non è ma una, rullo di tamburi, cassetta TDK da 90 con su, in ordine:


Senza Benza “Peryzoma” LP
Frammenti “S/T “ 7”
Fichissimi “Un mondo fichissimo” 7”
Derozer “144” 7”
Mudhoney “Touch Me I’m Sick/Sweet Young Thing Ain’t Sweet No More”7”


Il disco dei SenzaBenza era registrato bassissimo e il resto del nastro non è che proprio suonasse un granché meglio, eppure come mi somigliava in toto:

basso profilo, sporco, claudicante, incerto, ironico, indefinito, aggressivo, per certi versi, pure disperato, ma non di quella disperazione che abbondava nell’immagine pubblica di Cobain: una disperazione fatta di vita di tutti i giorni, un mondo che ti circonda e non ti somiglia e allora ti arrangi e provi a incanalare la tua inadeguatezza in qualcosa che ti aiuti a esprimere quello che provi e che, anche se provi a spiegarti, nessuno capisce: scrivi, suoni, ti senti un genio per poi, dopo pochi secondi, sentirti un perfetto coglione. Cercare mezzi di fortuna per esprimerti alla bene e meglio: quaderni a sconto, registratori a cassetta, chitarre comprate di seconda mano, amplificatori che non amplificano e microfoni rubati al karaoke.

Con quella cassetta capii il mio posto nella vita: l’underground. Sentii il bisogno irrefrenabile di entrare in quel mondo, stabilirmici, capirne la storia, le dinamiche, le motivazioni.

Il primo concerto che ho visto in vita mia son stati i Senza Benza, in un centro sociale durato una frazione di secondo: odore di pavimenti intrisi di birre, erba e fumo, sigarette, creste, sguardi persi, sguardi cattivi. Ero giovane ed era il mio primo concerto Punk Rock e la prima volta che entravo in un C.S.O.A.;

dite cosa vi pare ma fu un’esperienza unica e la vivevo come uno qualsiasi avrebbe potuto vivere un concerto dei Nirvana ma, lasciatemelo dire, le due cose non si somigliano neanche da lontano:

se nel C.S.O.A. sei parte di qualcosa, al concerto dei Nirvana sei solo spettatore di qualcosa;

nel Centro Sociale la volontà è quella di partecipazione e condivisione, ci sono manifesti, volantini, una buona politica dei prezzi (derivata da un’idea di consumo differente), distro e dibattiti; ad un concerto dei Nirvana trovavi solo prezzi dei biglietti esorbitanti, fila, attesa, fischi al gruppo di supporto (che magari è anche meglio di quello principale, ma coi fan si può discutere?), venditori ufficiali di merchandise costosissimi, requisizione sistematica di bevande e viveri e buttafuori cattivissimi.
Capire dove fosse il mio posto non era poi così difficile…

Potrei anche dire che Nevermind mi ha aperto un mondo o, per lo meno, mi ha quasi sussurrato ad un orecchio che non era tutto nello schermo di un televisore, ma a conti fatti torno a pensare che in realtà è stata sempre quella cassetta a farlo anche perché, parliamoci chiaro, non me lo ha neanche sussurrato:

un grido di battaglia, una chiamata alle armi, un richiamo che solo chi ha orecchi e cervelli predisposti può udire.

Il modello Nirvana, in fin dei conti, apparteneva ad uno stampo fabbricato dall’alto: i lustrini degli anni ’80 erano venuti a noia al consumatore medio e bisognava, copiando un po’ l’idea del punk di fine ’70, tornare all’essenziale: il trio venne usato come prima pietra e poi si cercò, con successo, di creargli una scena cittadina intorno: Soundgarden, Pearl Jam, Alice in Chains…gruppi che fra di loro vantavano in comune solo la residenza e null’altro, ma che servirono bene a tale scopo.

I gruppi di quella cassetta invece, eccetto magari Mudhoney (anche loro di Seattle e buttati nel calderone di cui sopra ma, lasciatemelo dire, una spanna sopra chiunque), provenivano da posti differenti d’Italia (eccetto Fichissimi e Frammenti, entrambi di area Torinese) ma circuitavano negli stessi ambienti, e cioè i C.S.O.A., e vantavano una fiera attitudine indipendente e una scarsa propensione a quella che oggi verrebbe chiamata visibilità: se li volevi vedere i posti da seguire erano quelli, le situazioni in cui ritrovarsi inequivocabili: la musica era un magnete per attirare chi da un disco non si aspettava solo dei suoni piacevoli, ma anche un senso di appartenenza o, più semplicemente, un posto nel quale stare per ripararsi dalla competizione e dal frastuono umano che, già a quei tempi, stava diventando insopportabile.

Ho scritto tutto questo perché mi pare necessario rinfrescare certe cose e condividerle, far capire, cioè, che cosa significhi essere parte di un qualcosa che cerca continuamente di eludere la realtà vigente ed imposta e creare un qualcosa, non di “alternativo” (una squallida definizione vigente negli anni ’90 e, per fortuna, morta entro il decennio) ma di veramente diverso.

Ai tempi, inutile sottolinearlo, non ci riuscì, ma quei posti ci sono ancora e, nonostante mille difficoltà, resistono e servono ancora come punti di riferimento per musicisti, artisti grafici e attivisti;

ignorarli e pensare che sia tutto finito è un errore di fatto.



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