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Columns

Il nostro modo di dire la nostra: pensieri spesso sconclusionati, ma veri che emozionano.

WERNER HERZOG AGUIRRE, FURORE DI DIO

Werner Herzog Aguirre, Furore Di Dio

WERNER HERZOG AGUIRRE, FURORE DI DIO [1972] Italia, millenovecentosettantadue. Siamo nel pieno degli anni dello stragismo e della contestazione sociale. L’Italia è un fermento incontrollabile di idee, spesso confuse, in alcuni casi [tutt’altro che sporadici] addirittura sbagliate, gridate a squarciagola e difese come fosse in gioco la vita stessa dei ragazzi che si fronteggiano nelle strade. Siamo in lotta contro “il sistema” statale che soffoca le idee di rinnovamento che infiammano i cuori dei giovani. Il percorso di autodistruzione ancora non è giunto a termine e sono ancora lontani i giorni del distacco e dell’analisi di ciò che sta andando in scena. Le carceri sature di “prigionieri politici” scoppiano, non si contano le rivolte dietro le sbarre dove trovano posto, insieme ai delinquenti comuni, anche un vasto numero di extraparlamentari di ogni tipo di schieramento. Fuori, nei palazzi che contano Giulio Andreotti presiede il suo primo governo in qualità di Presidente del Consiglio, nelle aule di giustizia intanto si celebra il processo per la strage di piazza Fontana, muore in seguito al fallito attentato da lui stesso ordito Giangiacomo Feltrinelli. Dopo pochi mesi medesima sorte toccherà anche al commissario Luigi Calabresi, mentre in estate vengono casualmente ritrovati da un sub nel mare della Calabria due statue bronzee che saranno rinominate i Bronzi di Riace, e alle Olimpiadi di Monaco di Baviera va in scena il massacro degli atleti israeliani ad opera di Settembre Nero. Nel cinema per l’Italia è un anno memorabile. A Berlino l’Orso d’Oro è vinto da Pier Paolo Pasolini con “I racconti di Canterbury”, a Cannes vicono la Palma d’Oro ex aequo due film italiani: “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri e “Il caso Mattei” di Francesco Rosi, infine a Los Angeles Vittorio De Sica vince l’Oscar con “Il giardino dei Fintzi Contini”. Ma è in Germania che il cinema [quello con la C maiuscola] lascia il proprio segno indelebile. Esce infatti a fine anno nelle sale il primo film vero e proprio del regista bavarese Werner Herzog. AGUIRRE, DER ZORN GOTTES il titolo originale, prontamente [e per una volta correttamente] tradotto in AGUIRRE, FURORE DI DIO. Dopo una serie di documentari dedicati a tematiche soprattutto sociali, Herzog decide di fare il grande passo e realizza con un budget piuttosto ridotto per l’epoca [di cui almeno un terzo destinato a Klaus Kinski, l’interprete principale] un piccolo capolavoro che non tarderà a diventare un cult movie assoluto per tutte le generazioni a seguire. L’idea viene a Herzog in modo del tutto casuale, legge infatti distrattamente un trafiletto riguardante la vicenda di tale Lope de Aguirre, condottiero spagnolo che si recò in Sud America sulla scia dei suoi predecessori Cortez e Pizarro in cerca del fantomatico El Dorado alle sorgenti del Rio delle Amazzoni [luogo inventato dagli Incas per portare a morte tramite autodistruzione i conquistadores oppressori] finendo per andare disperso nella giungla insieme ai suoi fedelissimi. È il tema legato al grande fallimento [in questo caso legato all’impresa dei conquistadores] che spinge Herzog a partire per il Sud America senza uno stralcio di sceneggiatura, eccezion fatta per il viaggio sul fiume che concluderà la pellicola, unico storyboard preparato per l’occasione. Le riprese durano all’incirca due mesi e sono caratterizzate dal “realismo herzoghiano” che impone di non ricostruire alcun set ma di svolgere tutto sul campo, in totale regime di improvvisazione. Stesso discorso per tutte le comparse, che vennero infatti reclutate al momento dell’arrivo in Perù senza accordi preventivi. Per il ruolo di Aguirre la prima scelta di Herzog cadde sul presidente algerino Boumedienne, che per ovvie ragioni declinò l’invito. Fu allora che Herzog decise di interpellare Klaus Kinski, senza immaginare che quel momento avrebbe segnato il loro futuro insieme. Tutti i film principali [e meglio riusciti] del cineasta bavarese infatti sono da iscrivere al periodo d’oro del loro rapporto, nato in modo del tutto casuale, visto che i due condividevano due stanza del medesimo appartamento, pur senza aver legato in modo particolare, almeno fino a quel momento. L’intuizione di Herzog fu quindi fondamentale per entrambi, ma soprattutto per il film. Kinski, nonostante le follie durante le riprese, diede spessore al personaggio, andando a caratterizzarlo in modo decisivoa livello di presenza scenica con la caratteristica claudicatio, lo sguardo allucinato e al tempo stesso esaltato, estatico e superomista. Ovviamente da qualche parte la presenza ingombrante di Kinski doveva farsi sentire. E infatti i problemi non tardarono ad arrivare, con ritaradi e disguidi in sede di realizzazione. Ma non solo. Sono passate alla storia le litigate tra i due, ma anche tra Kinski [che pretendeva un trattamento di favore, quasi da star, sia in termini economici che di sistemazione alberghiera] e il resto della troupe ma anche nei confronti degli indios. Scena che si ripeterà anche sul set di Fitzcarrado dove gli indios arriveranno addirittura a offrirsi ad Herzog come assassini materiali di Kinski per conto suo. Alla fine, nonostante Kinski, il film andò in porto e tutto venne accantonato, per poi riesplodere puntuale alla pellicola seguente. Il percorso di distacco dalla realtà per l’attore era difatti solo all’inizio. Celebre la litigata in cui apostrofa Herzog come “regista di nani” [evidente riferimento a “Anche i nani hanno cominciato da piccoli” di due anni prima] con quest’ultimo che pistola alla mano minaccia di ucciderlo con otto pallottole riservando l’ultima per se stesso. Con un contorno del genere AGUIRRE, DER ZORN GOTTES non poteva non diventare un capolavoro. Sin dalle prime batture. Il film ha infatti nella sua scena iniziale uno dei momenti più alti della filmografia non solo di Herzog ma del cinema tutto. Indimenticabile la sequenza che segue i titoli di testa con la spedizione carica di bagagli che avanza scendendo dalla montagna, attraverso impervie mulattiere in mezzo a mille difficoltà, accompagnata dalle note sognanti di Popol Vuh. Il tutto prima preso in campo lunghissimo e poi pian piano ravvicinato fino al dettaglio grossolano. Spunta infatti anche la mano di Herzog stesso, che si muove a fatica negli spazi disagevoli, con la cinepresa in spalla che aiuta il passaggio dei conquistadores in un momento di particolare difficoltà prima che cadano a terra. È solo una frazione di secondo, un movimento quasi impercettibile ma che racconta tutto il mondo di Herzog attraverso un gesto. Anzichè girare nuovamente la scena la lascia esattamente com’è. Fregandosene della propria mano che irrompe nello schermo. Che dire ancora di Kinski/Aguirre senza rovinare la visione a coloro che ancora non hanno visto il film? Aguirre, inizialmente defilato, diventa il personaggio cardine della pellicola nel momento in cui si ribella al volere di Pedro de Ursua, il condottiero scelto da Pizarro per la missione esplorativa. Gli eventi nefasti che stanno spingendo la truppa verso il ritiro sono il pretesto da cogliere al volo per prendere il comando della situazione e come dice Herzog “diventare il primo conquistatore ribellatosi al colonialismo”. Ma, aggiungiamo noi, anche il simbolo del fallimento improcrastinabile. Ben consapevole che la missione non potrà che terminare in disfatta Aguirre decide comunque di non abbandonarla. I veri nemici della spedizione catastrofica alla fine non saranno tanto gli indios che in tutti i modi cercheranno di ostacolarne l’avanzamento ma la natura stessa [il fiume, ma anche la vegetazione] che si oppone alla profanazione altrui guidata da Aguirre. Il contorno che diventa personaggio. E con il proprio infinito propagarsi risucchia nel ventre della follia la combriccola esplorativa. Sarà proprio il finale del film con l’inversione dei ruoli a sancire un altro momento indimenticabile. Mentre la zattera di Aguirre, con l’equipaggio ormai più che decimato, va alla deriva si ha il ribaltamento dell’azione. La natura è ora a dominare i giochi, con i vortici del fiume e le correnti, con Aguirre e il cadavere della figlia [con cui avrebbe voluto incestuosamente creare la razza pura] immobili attendono il proprio destino, mentre le scimmie assaltano la zattera e ne prendono possesso. Si realizza l’inevitabile fallimento di un’ascesa indirizzata ad un obiettivo irragiungibile e fuori dai propri limiti. Un film epocale, sotto tutti i punti di vista. Che aspettate a farlo vostro?

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Gemini Festival Il Primo Network Di Radio Indipendenti

Radio, networking, libertà di contenuti. Il sogno di una comunicazione diversa si concretizza nella prima rete di radio indipendenti italiane, Gemini.  Dal 18 al 20 settembre si svolgerà a Perugia nella caratteristica cornice del parco Sant’Angelo, all’interno delle attività previste dal T.Urb.Azioni – Azioni Urbane con il turbo! promosso dall’associazione, Ya Basta! Perugia, il primo festival di Gemini, il network nazionale di radio indipendenti. Al momento si tratta di una decina di realtà interessate, disseminate in tutto il territorio nazionale, che si sono unite nei mesi scorsi per dare vita a una piattaforma web su cui inserire i materiali delle varie webradio – dirette, podcast, video – e costruire anche contenuti condivisi, con una redazione nazionale in costante contatto. Il network si è costituito nel mese di maggio, in seguito a un’assemblea telematica partecipata, oltre che dalle realtà radiofoniche anche da molte singole figure che si sono messe a disposizione del progetto. Ma la gestazione della rete affonda le sue radici in Press To, una rassegna radiofonica organizzata da alcune delle radio fondatrici di Gemini nell’aprile 2018 (ripetutasi l’anno successivo nello stesso periodo). Queste le realtà al momento presenti in Gemini: Radio Sherwood (Padova), Radio Sonar (Roma), Lautoradio (Perugia), Radio Roarr (Pisa), Radio Ciroma (Cosenza), Radio Città Aperta (Roma), Radio No Borders (Milano), Radio Rogna (Sarzana), Radio Beatnik (Campobasso), Neu Radio (Bologna), Better Radio (Biella), Radio Quarantena (Roma), Free Underground Tekno (Milano).   Il Festival, oltre a permettere quindi l’incontro tra le tante radio presenti nel network, avrà diversi momenti laboratoriali e di dibattito riguardanti le tematiche della comunicazione radiofonica, emerse in maniera forte durante il lockdown.  La chiusura totale dovuta alla pandemia di Covid19 in Italia, come nel resto del mondo, ha stimolato la proliferazione di numerose webradio con la relativa produzione di contenuti originali come podcast, approfondimenti e inchieste. Durante il Gemini Festival si cercherà dunque di definire collettivamente sia lo stato attuale della situazione sia le future traiettorie che lo strumento-radio potrà percorrere a partire dall’attuale contesto. In attesa del programma definitivo è possibile seguire Gemini al sito https://gemininetwork.it/ e sui canali social:   Facebook: https://www.facebook.com/GeminiNetworkRadioIndipendenti Instagram: https://www.instagram.com/gemini_network_/

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Video In Esclusiva: Trip Takers

Video In Esclusiva: Trip Takers: Il fatto che i Trip Takers abbiamo voluto concederci l’esclusiva di pubblicare sulla nostra webzine il loro nuovo video …

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Torino Disco Cross – Volume 8

Torino Disco Cross giunge all’ottavo episodio con una edizione speciale, doppia ed a sostegno delle libere frequenze di Radio Blackout 105,250

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Parliament Square 07.06 Tracy, 9 anni ci insegna ad urlare contro le ingiustizie

Diario Di Uno Stronzo Anarchico A Londra In Una Delle Settimane Più Calde Del 2020

Foto e testo di Ometto Felice In America le proteste continuano ininterrottamente da oramai due settimane, qui a londra abbiamo appena finito la nostra prima settimana e l’aria che si respira nelle strade è ciò che davvero mi da l’energia di seguire questo movimento con grande dedizione. Dal 25 Maggio sono venuti a susseguirsi una serie di avvenimenti che hanno decisamente scosso le strade americane, dalla morte di George Floyd, ennesima vittima di colore uccisa dalle cosiddette “forze dell’ordine” il movimento #BlackLivesMatter ha definito la sua battaglia in 3 parole riguardo il loro pensiero sulla polizia: disarm, defound, dismantle(vi leviamo le armi, tagliamo i fondi e poi vi smantelliamo).       Chiunque sappia un minimo di inglese e abbia deciso di andarsi a informare sulla questione a livello internazionale probabilmente si starà mettendo le mani nei capelli, questo anno sembra essere decisamente pronto a scrivere la storia in maniera molto intensa, nel mezzo di una pandemia che ha portato il mondo ad una crisi sanitaria ed economica mai assaporata da noi millennials le strade si riempono di persone che vogliono liberarsi della polizia in quanto oramai obsoleto strumento di controllo e repressione delle masse, a Minneapolis il Council della città a maggioranza sta dicendo che intendono smantellare l’apparato della polizia per sostituirlo con servizi sociali che assicurino una vita serena a tutti i cittadini, mentre molte altre città valutano grossi tagli al loro dipartimento di polizia, cosa più divertente di tutte, nel mentre che la casa bianca è circondata da una barriera alta due metri per stare bene attenti a tenere lontani i manifestanti la polizia si sta dimostrando estremamente violenta con gli americani commettendo deliberatamente crimini di guerra e brutalità contro i propri stessi cittadini come sparare rubber bullets ad altezza viso, l’uso di gas lacrimogeni quando un virus trasmissibile tramite tosse e starnuti si muove tra di noi o l’attacco a campi medici indipendenti allestiti a supporto delle proteste. Anche in Europa non si fanno mancare momenti di calore nella rivolta e degli arresti a Londra, Berlino, Amburgo, Lille e marsiglia, citt .che da questa ultima settimana assieme a molte altre stanno protestando a supporto del movimento americano per sostenere gli stessi principi di uguaglianza sociale che ogni etnia dovrebbe avere un paese che si possa dire civile. Il numero di morti per il colore della loro pelle e semplice pregiudizio degli agenti coinvolti anche qui in inghilterra non è da ignorare, cosa che le persone in strada non stanno assolutamente facendo, lottando contro le discriminazioni sistemiche legate ai corpi di polizia. Si sottolinea anche quanto bisognerebbe far luce nei libri di storia sul terribile passato colonialista della cultura inglese, sempre lasciato un po’ troppo passare come un passato legittimo per la prosperità dell’impero inglese, ma in sempre di più in questo mondo sappiamo che la storia non è altro che un susseguirsi di ingustizie da parte delle popolazioni più potenti da che abbiamo ricordi dell’uomo. Quindi manifestazioni si fanno sentire in tutto il Regno Unito, a Bristol i manifestanti decidono di buttare nel fiume la statua di Colston, in Parliament Square a Londra si vandalizza la statua di Churcill e la presenza di polizia si dimostra superflua o controproducente. Nella manifestazione di sabato la polizia ha tentato una carica a cavallo, bloccandosi per colpa di un poliziotto che ha perso il controllo del proprio animale e ha colpito un semaforo suscitando ilarità in tutta la manifestazione ma anche un pericolo per tutte le persone a manifestare pacificamente con un cavallo libero e impaurito in strada, l’ennesima dimostrazione dell’utilità della loro professione, umiliazione pubblica in diretta su sky news 24 e il giorno dopo una squadra di poliziotti è stata costretta alla fuga dai manifestanti che non li volevano con loro in strada, nemmeno una bella figura per la polizia. Rido nel guardare questi video che mi arrivano per messaggio dagli amici con cui ero a manifestare, sono a casa e sto editando le foto che ho fatto alle proteste qui a Londra e la cosa che mi nausea di questa situazione è quanto la polizia stia puntualmente aspettando il momento giusto nelle manifestazioni per trovare un pretesto di farla sembrare tutto un putiferio il giorno dopo nelle news andado a provocare i 4 gatti che rimangono fino alla fine a protestare, ennesima dimostrazione di quanto il lavoro del poliziotto sia inutile e controproducente a queste circostanze, le testimonianze da chi è rimasto in Parliament square sabato raccontano di una polizia intenta a tenere le persone in stallo fino allo sfinimento come ostaggi nella speranza che la stanchezza potesse suscitare qualche reazione violenta dai manifestanti che sono stati lasciati andare avendo fatto apparentemente niente di male solo dopo aver dato i loro documenti e ricevuto un foglio di via dalla zona di 24 ore obbligandoli a saltare il giorno successivo di proteste. Bloccato lo schermo del telefono invece quello che mi appare sono tutti i momenti che o vissuto nelle strade, momenti magici dove una variopinta comunità multietnica riempiva il centro di Londra di sorrisi e speranza per un mondo da chiamare tale, dai bambini agli anziani dai neri ai bianchi londra era piena di persone a protestare perchè i soprusi razziali che ancora intasano la nostra società finiscano al più presto possibile, insomma tutta un’altra faccia rispetto a quello che vedo descritto in molti giornali e da una certa opinione pubblica. Fratelli anarchici scendono nelle strade con cibo e acqua da offrire nella folla ai bisognosi, alcuni portano con se materiale medico di primo soccorso nel caso ci fosse qualsiasi problema con cartelli a segnalare la loro presenza, ma raramente di loro si parla, come se si potesse definire anarchici solo coloro che spaccano le vetrine dei negozi. La voce della protesta si fa sentire anche con il supporto esterno della città, dalle padelle battute alle finestre ai clacson dei mezzi che transitano nei pressi dei cortei i pugni tesi al cielo non mancano in ogni angolo delle vie Londinesi, nelle metro il personale di colore balla e se la ride al vedere quante persone stanno affollando la città nonostante la crisi sanitaria dovuta alla pandemia ancora viva. Questa settimana vedrà le prossime proteste svolgersi venerdì e sabato per quanto riguarda Londra, nella speranza che il movimento prosegua e cresca in tutte le città europee, cosa che spero vivamente anche per l’italia dove non mancano certo le nostre storie di problemi con le cosiddette forze dell’ordine che a differenza dei paesi più sviluppati non mostrano nemmeno un numero di riconoscimento sulle divise, e nessuna camera che riprenda il loro operato, rendendoli liberi di agire come bulli legittimati dalla loro divisa in troppe circostanze.

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Luciano Floridi, Il Verde E Il Blu (raffaello Cortina, 2020)

Abbiamo già parlato di Luciano Floridi su queste stesse pagine. Qui vi ho recensito Pensare l’infosfera, un interessante saggio sulla necessità della società attuale di riavviare la filosofia, all’insegna di un ridisegnamento concettuale che ha nel design il suo principio ispiratore. Nel saggio di cui vi parlo oggi, Il verde e il blu, pubblicato sempre da Raffaello Cortina, l’autore, professore di filosofia ed etica all’Università di Oxford,  cerca, come da sottotitolo, di formulare delle idee ingenue per migliorare la politica, quella internazionale e dei grandi numeri, quella globale e che da qualche anno è fortemente in crisi. Il punto di partenza di Floridi è sempre la rivoluzione digitale. Nei primi capitoli del libro infatti ci tiene a sottolineare quanto sia stata pervasiva la tecnologia informatica e quanto i campi del sapere, del conoscere e del relazionarsi siano stati sconvolti da Internet. Tra questi c’è naturalmente quello di fare politica, intesa nel senso più ampio possibile, ossia come “Progetto umano”, ovvero direzione globale da intraprendere. Il percorso che l’autore costruisce, in modo razionale ma anche divulgativo, tocca i più importanti temi della contemporaneità: l’intelligenza artificiale (che egli afferma non essere affatto intelligente in senso stretto), le criptomonete (i bitcoin di cui si sente tanto parlare, ma anche Libra, la moneta di Facebook), la struttura stessa delle relazioni della società globale, che ha ormai la forma di una rete e che solo in tale maniera può essere interpretata. La posizione politica di Floridi, lo afferma lui stesso, è centrista e liberista. Ma questo è più un atteggiamento sul quale costruire il futuro di una umanità rinnovata, e non come accettazione delle politiche europee e internazionali degli ultimi anni. Il “Progetto umano” che il filosofo immagina dovrà essere “anzitutto etico per poi essere politico, e solo successivamente economico”, dovrà essere laico, perché solo in questo modo ci potrà essere tolleranza per tutte le religioni e quindi una vera e propria libertà di culto, e infine dovrà fondarsi, tra le altre cose, sull’istruzione dei giovani, al fine di prevenire le ricadute barbariche del populismo e preparare le nuove generazioni a ripulire il sistema dal virus delle fake news. Di qui la necessità di coinvolgere nel dialogo politico le grandi aziende multinazionali, collezioniste dei Big Data, nonché direttrici di un mondo, quello di Internet, che ormai non è più semplicemente una utility, ma un interlocutore fondamentale della realtà (anche) politica. “Internet ha finito per essere come un parco, ma invece di gestirlo in modo comunitario, lo abbiamo affidato a poche multinazionali statunitensi. Non credo facciano un pessimo lavoro, ma certamente non è quello che ci aspettavamo negli anni Novanta. Oggi le politiche di Internet, intesa come habitat sociale globale, sono determinate dal settore privato. C’è un solo parco, è pubblico, ma gestito da aziende che spesso operano come se la protezione della privacy fosse un ostacolo […] e la libertà di parola un diritto non negoziabile […]. La contraddizione è ovvia, i pasticci che ne derivano sono sotto gli occhi di tutti, ma l’attuale risoluzione sta dando ancora più potere a queste aziende.” Una posizione moderata dunque, quella di Floridi, ma che vede (forse ottimisticamente) nella cooptazione di Facebook, Google e compagnia bella la risoluzione dei grandi problemi di oggi: il riscaldamento globale, i diritti umani, la salute pubblica, più in generale quella che Zuboff chiama “una rete occidentale capace di esprimere la visione di un futuro digitale compatibile con la democrazia.” In due concetti molto semplici, due colori da tenere insieme, il verde (quella dell’economia green, circolare e della condivisione) e il blu (l’economia digitale e dell’infomazione), che possano lavorare insieme per non far ingiallire la società globale. Al termine del saggio l’autore ha voluto aggiungere un Poscritto dedicato alla pandemia di covid-19 e alla crisi che il mondo intero sta affrontando. Qui l’autore evidenzia tre questioni virali, un errore un’opportunità e un rischio, che metteranno in luce contraddizioni e possibilità di questo periodo complesso che stiamo vivendo.

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Orizzonti Bloccati.

Fregiandosi della libertà di fare ognuno la musica che più gli piace, estinti tutti i collegamenti con le grandi scene, oggidì nessuna band è portabandiera di una nuova filosofia (primariamente sonica) che inglobi valori nuovi e illuminanti per cui valga la pena di aderire anima e corpo: ossia, roba che faccia perdere realmente la brocca. Di fatto non si aderisce a niente – i più fortunati seguono in surplace le piccolissime scene locali che poi potrebbero prendere piede, e nel migliore dei casi diffondersi notevolmente, interpretando quella sensibilità già serpeggiante tra i fruitori di quella nascente musica che non è ancora saltata fuori macroscopicamente tanto da richiedere l’intervento delle major, la cui funzione è di poterne fare un totem commerciale (ovviamente detto nella valenza positiva del termine, vedi ad es. la più che matura scena nù jazz inglese di questi ultimi lustri: A Comet Is Coming, Zara McFarlane, Yussef Dayes, Joe Armon-Jones and more…) – e perciò nel rimestamento del generale calderone musicale (l’archivio immenso della musica on line) le linee direttive creative restano notevolmente affini al genere di musica che piace ascoltare, ma soprattutto i musicisti diventano dei chimici, alchemici del suono, mescolando attraverso formule elementi forgianti e lambiccando nei laboratori sonori le personali ricette che pescano spesso (inevitabilmente) in un già sentito, semplicemente poi ricomposto secondo nuovi incastri. Questa INTERLOCKING MUSIC (che si adatta bene alla filosofia standard IKEA e che sfocia nel bricolage) a mio parere è la semplice continuazione della contaminazione musicale che ha prodotto la migliore musica pop universale, nel senso di moderno ed epocale, e che non ha mai smesso di spingerne in avanti, avvalendosi dei suoi tempi di sviluppo, i confini. Quello che asserisco è che, essendo diventato il bagaglio della musica pop talmente gonfio di cianfrusaglie (per carità tutte rilevanti), alla stregua dell’interno smisurato della borsa di Mary Poppins, ed essendo pure di pari passo aumentata la propensione a suonare musica dagli addetti ai lavori (gli artisti), qualcosa si è ingolfato nel fine ultimo di questo procedimento, stagnando nel mero esercizio di stile. Il passo successivo sarebbe trovare un equilibrio musicale degno di nota che ponga gli artisti all’attenzione degli ascoltatori, ma non basta: la musica pop odierna è una reiterata riproposizione di vecchi e rodati schemi ove crogiolarvisi dentro, una sorta di alcova ben riscaldata e protetta dove fare buon pop, che ha un sapore, seppur nuovo, comunque oldie, benché produttori, ingegneri del suono, del remastering e della post-produzione, facciano del loro meglio per tentare di far distinguere il lavoro grezzo degli artisti accuditi e conferirgli quella freschezza, unicità e particolarità (già invero posseduta dagli artisti) migliorata secondo la loro esperienza e che tenga conto dell’aggiornamento della tecnologia e delle tendenze di fruibilità del mercato. I più bravi, i più alchemici e ingegnerizzati, già tecnolocici in avvio, forniti di buone idee, di misture ritrovate ed esperite nei loro laboratori, non fanno altro che affinare sempre più il prodotto che dovrà fascinare il mercato degli ascoltatori, secondo una rinnovata proposta, e in tal modo plasmare la storia della musica pop (pensiamo a Beck)! Niente di nuovo sotto il sole, d’accordo, ma di tutta questa miriade di geni e geniucci, cosa resterà se non attecchiranno al palo monolitico generazionale da cui far ruotare una rivoluzione universale che resterà memorabile segno di un’epoca e di un vissuto (di ricordi duraturi), foriera di ripercussioni e di imitazioni sgorganti a cascata? In quest’ottica rimangono in piedi due teorie, o ci siamo frammentati l’anima con la sovrabbondanza di materiale sonoro oggi a disposizione incline a farci ascoltare di tutto (dal vecchio al contemporaneo) senza affiliarci, non più, a nulla in particolare di viscerale, oppure non c’è in atto alcuna rivoluzione sonora, tale nella portata, che coinvolga (e volevo scrivere, ‘i kids’) quell’alieno substrato rinvenibile nella popolazione che sono invece ‘gli ascoltatori’ in toto, dettandone tirannica legge in quanto apportatrice di novità e di una edificazione del credo (e del gusto) cui obbedire ciecamente e prima di tutto. Probabilmente la colpa è di quelle band mostruosamente micidiali che, per un mix protratto di filosofie e atteggiamenti, di look e buona musica svisceratamente espressa, abbiano incastrato (intrippato) tutti con il proprio potere ammaliante ed infinitamente più mediatico del mediatico. Citare a questo punto la saga dei Rolling Stones, dei King Crimson, della Swiging London, del Power Flower, del Be-Bop, dell’Heavy Metal, del pUNK e così via, non fa altro che sottolineare il valore intrinseco di quegli scenari che hanno attecchito lungo un sentimento diffuso, reale e genuino, permettendo di far filtrare la percezione di una consapevolezza che prevaricasse la stessa musica prodotta, senz’altro convertita, in second’ordine, a mezzo allegorico pertinente di dar voce ad altro da cogliere al volo e che fosse già presente nell’aria, ma appartenente esclusivamente a quel periodo preciso. Tanto che forse oggi – ad es. dopo i Nirvana o i Radiohead – non ha alcun senso riacciuffare o intercettare alla maniera passata tale percezione di consapevolezza, invece conducibile attraverso nuovi altri termini radicali, indicando con la parola ‘radicale’ le qualità sviluppatesi nel DNA dell’artista quale imprescindibile (e che non costituisca l’eccezione) espressione del suo tempo. Sorgono naturali alcune domande. In quale tempo viviamo? Come gli artisti odierni incarnano e comunicano questo tempo contemporaneo? Artisticamente sono radicalmente valenti? I loro lavori rappresentano solo un supericiale easy listening perché i contenuti esposti comunicano temi e sensazioni da cogliere solo dal lato della leggerezza o da quello sempre uguale a se stesso? Cosa c’è di nuovo aprendo la scatola di montaggio di un disco o mirando la personale versione di un CD che ricorda la copia di altri trascorsi e famosi? A distanza di 50 anni, dopo aver ingollato a ettolitri Led Zeppelin, Deep Purple, Black Sabbath, Uriah Heep, Motorhead e tutta la miriade di perle oscure che son da essi derivate (fedeltà di attitudine e di genere) accrescendone la leggenda e rafforzandola nelle decadi, si incappa però nella mancanza di sorpresa che soffre pesantemente del confronto, dell’anacronismo, della moda effimera che fa tendenza e mercato, dell’esperienza scaturita in nome di quella libertà di scelta che in fondo niente aggiunge e nulla toglie al già detto. Perché giunta ormai fuori tempo massimo e accomodata da un restyling. Sarebbe opportuno ricordare che l’ascolto onnivoro della musica può certo raggiungere livelli maniacali fattivi e da ricovero, eppure passibili d’aprire il ventaglio uditivo nel senso di ampia tolleranza di generi, e questo va bene ed ancora meglio calzerà alle generazioni nate sotto lo scettro dello sharing e della youtube/spotify music: il sogno di possedere il patrimonio mondiale musicale a portata di click e ‘gratis’. Ma allora da quel calderone ‘cloud’ illimitato, che comprende i più disparati generi, dovrebbe uscirne fuori una cosmic music che inabissi le esperienze passate di Brian Eno, di Miles Davis, di Frank Zappa, Sun Ra, Coltrane, che fulmini i The Doors, che distrugga i Rolling Stones facendoli apparire come Gli Antenati della Hanna & Barbera, che ridicolizzi i Depeche Mode, la techno, la dancing music e le colonne sonore tutte, e che si distanzi totalmente dai vecchi schemi risplendendo di un nuovo sentire che deve per forza conciliarsi con un risveglio attivo e controtendenza delle coscienze avverso le componenti esterne – sociali, politiche, di costume, di sviluppo e reazionarie – piombanti l’anima dell’artista, capace di suggerire il compimento di un atto trasgressivo reale (concreto e diversificato, non solo composto di note e pentagramma) che innalzi l’ascoltatore e/o il musicista. Cosicché la conseguente rottura di questi schemi, la creazione e il rinnovamento artistico, potranno avvenire solamente sperimentando un nuovo mondo che ne attesti e decanti il sogno e la speranza di essere quello giusto, messo in pratica sul campo compiendo determinate azioni susseguenti alla formazione di idee e sentimenti che abbiano un valore estrinseco deflagrante da cui iniziare una nuova vita. Altrimenti, il nulla sarà dietro l’angolo. Avremmo giusto buoni professorini, una governance di tecno-burocrati della musica che hanno imparato bene la lezioncina e che in sostanza sanno fare bene i DJ, o scimmiottare diligentemente i loro predecessori artisti epocali strimpellando, o virtuosisticamente incantando, una tastiera, una chitarra, un bongo e un pc. Così come un po’ fanno anche i critici musicali. Che convenga puntare le nostre scommesse sulla trap music?  

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Carichi Di Bassi

CARICHI DI BASSI. Vi lasciamo qui alcuni links utili a chi ama la musica elettronica e non solo piena di bassi e rigorosamente underground. I primi collegamenti sono del collettivo genovese GTK.ORG attivo da anni per l’organizzazione di free parties ed eventi collegati alla tekno, alla breaks, alla drum and bass ed alla jungle. Oltre al loro Soundcloud ultimamente hanno aperto un canale Youtube. Arriviamo poi all’ultimo nato Bass Invasion Free Underground Music Liguria, uno spazio libero nato con lo scopo di diffondere la buona musica elettronica underground. Produttori ed esploratori elettronici mandate i vostri lavori a bassinvasion2020@gmail.com Grazie a In Your Eyes Webzine per lo spazio e l’attenzione. GTK.ORG : https://www.youtube.com/channel/UCxz_ZPg34nPNBSxfPdCOOag https://www.facebook.com/Gtk.Org/ BASS INVASION : https://www.facebook.com/Bass-Invasion-Free-Underground-Music-Liguria-112309123754448/?modal=admin_todo_tour

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