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Columns

Il nostro modo di dire la nostra: pensieri spesso sconclusionati, ma veri che emozionano.

Illuminare I Punti Ciechi: Un’alternativa Al Dominio Della Paura Parte 2

Illuminare i punti ciechi: Un’alternativa al dominio della paura Parte 1 SEI UN “VERO UOMO”? IO NO Se avessi un euro per ogni volta che ho sentito il sintagma “vero uomo” – in così tanti contesti e con così tanti significati diversi – non avrei più bisogno di lavorare. Adotteró due etichette per descrivere due distinte ma strettamente correlate convinzioni totalmente idiote: il ‘machismo’, per riferirmi all’idea che le donne debbano essere subordinate agli uomini e il “verouomismo”, per definire le caratteristiche che un “vero uomo” deve avere, perché chiaramente essere un umano adulto di sesso maschile non è sufficiente. Infatti, fin dalla prima infanzia, abbiamo ricevuto un messaggio piuttosto chiaro su quello che gli “uomini” dovrebbero fare, no? Tutta quella storia di giocare coi soldatini, pisciare in piedi, guardare i film di Rambo e Terminator, ricordate? Fortunatamente, quando ero un ragazzino, riferirsi alle donne come il “sesso debole” era già abbastanza fuori moda; tuttavia, era abbastanza comune per un bambino venire apostrofato “femminuccia”, nel caso fosse riluttante al contatto fisico pesante coi coetanei, parlo di cose come spintonarsi e altre manifestazioni di… boh, io la chiamerei idiozia, ma definiamola “esuberanza maschile” (non solo dai coetanei – attenzione! – lo facevano anche i loro genitori!). Era anche peggio negli anni dell’adolescenza, quando un cocktail letale di ormoni e insicurezza spingevano aspiranti maschi alfa in cerca di attenzione a riunirsi in branchi e cercare potenziali vittime. Non sto dicendo che non esista il bullismo tra le ragazze, ma comunque rimane una cosa molto “macho”. Certamente, é radicato non solo negli uomini ma nella società nel suo complesso. Controintuitivo? Forse, ma vero, credo. Qualche mese fa la television brasiliana ha trasmesso un concorso di bellezza per bambine di 10 anni (10!), giudicate in base ai loro visi (!), alle loro gambe (!!!!!) e alla forma complessiva del loro corpo (!!!!!!!!!!!!). Beh, alcuni dei giudici erano donne, che evidentemente non trovavano nulla di sbagliato nello spettacolo (beh, se questa non è aperta apologia del sessismo e della pedofilia allo stesso tempo, non so che cosa sia). Oppure erano pagate abbastanza da non curarsene, può essere.   La nostra società si basa totalmente sull’oppressione a diversi livelli e ne siamo così immersi da esserne anestetizzati. Spesso nemmeno ce ne accorgiamo (probabilmente, il lettore medio di IYE probabilmente è più sensibile della media ai problemi sociali). L’oppressione delle donne continua, è ovunque e non credo sia necessario aderire al “femminismo radicale” per vederlo (che poi, cosa significherà mai “radicale” in questo caso?). Rimane naturale pensare che questa situazione avvantaggi gli uomini e, in una misura considerevole, soprattutto in molti contesti pratici, è così. Tuttavia, dando uno sguardo d’insieme, in questa situazione ci perdiamo tutti. Il “machismo” e il “verouomismo” sono giocatori-chiave nella creazione del mondo – fondamentalmente infelice – in cui viviamo. Il “machismo” uccide, uccide le donne, questo si vede ogni giorno (salvo voltare lo sguardo). La combinazione di “machismo” e “verouomismo” uccide anche gli uomini e distrugge l’ambiente. Ok, cosa dovrebbe essere un “vero uomo”? Se mi si permette di usare uno stile iperbolico e caricaturale (scusatemi, ma mi piace un sacco), direi: devi essere quello che porta i soldi a casa, senza dubbio – meglio se fai un lavoro manuale (non ti spaventa sporcarti le mani, vero?), ma oggi non è più obbligatorio (un “machismo” progressista?) Poi, secondo la narrativa tradizionale, devi assolutamente pisciare in piedi – che è il modo migliore per sporcare il bagno rapidamente e senza nessun motivo (io ho abbandonato questa abitudine anni fa, evidentemente non sono un vero uomo), intanto un vero uomo avrà una donna che gli pulisce il bagno, no? Quindi che gli frega? Inoltre, il vero uomo, idealmente, non dovrebbe mai chiedere niente (com’era la pubblicità dei rasoi Gilette? “per l’uomo che non deve chiedere mai” – “Gilette, il meglio di un uomo”… tra l’altro, boh, se il meglio di te è una lametta da barba, io mi porrei qualche domanda), dovrebbe avere un’idea delle cose in base all’intuizione e fregarsene se questa sia corretta o meno. Va da se che non deve mostrare alcuna vulnerabilità e – Dio ce ne scampi! – ovviamente non piangere mai. Dovrebbe assolutamente bere alcoolici ma reggerli meglio possibile (io sono diventato da tempo totalmente astemio, non perché ritenga che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato o maligno nel bere occasionalmente qualche birra o qualche bicchiere di vino o anche ubriacarsi occasionalmente, ma è per radicalizzare il punto – intanto, posso anche permettermi di fregarmene, intanto io non sono un vero uomo) e, non serve dirlo, dovrebbe mangiare bistecche e hamburger ai quattro palmenti – Ricordo un adesivo che diceva ‘Boston! Where men are men and meat is red’ (io sono vegano ma, poiché non sono un vero uomo, posso permettermelo). Preferibilmente dovrebbe essere un donnaiolo, ma anche aspirante va bene – non ti serve flirtare con successo, qualche grossolana battuta da bar sul fondoschiena della prossima passante e sei al sicuro. Qui non sto parlando del parlare di ragazze carine – anche le donne parlano di uomini e lo fanno anche gli omosessuali di entrambi i sessi – non c’è nulla di male. Parlo delle battute da fogna che si sentono troppo spesso e non solo “nei peggiori bar di Caracas” (cos’era, la pubblicità di un rum? Pampero, forse?). Tipicamente, si tratta di un commento su una passante o una donna conosciuta, accompagnata un gesto facciale (e, nel peggiore dei casi, un suono con la bocca). Ultimo, ma non meno importante: non istigare nemmeno il dubbio che tu possa essere gay – piuttosto lebbroso! Ok, tornando seri, questa roba è fisicamente rivoltante. Ora, sareste perdonati a pensare che siano tutte stupidaggini o, almeno, che io stia esagerando enormemente le cose. Vi capisco ma, mentre è vero che sto usando uno stile iperbolico, i contenuti riguardano un fenomeno reale che permea le nostre vite e avvelena il nostro mondo ogni giorno. Credo che tutti siano consapevoli della frequenza con cui una donna viene uccisa nel mondo e non cominciamo nemmeno a parlare degli episodi di stupro e violenza domestica – sia l’abuso di natura fisica o psicologica. Ma il problema è ancora più profondo. Sono arrivato al punto di provare fastidio fisico per termini come “puttana”, “troia”, etc. Anche quando si tratta di un coro da stadio contro la tifoseria avversaria, anche quando è usato come imprecazione, anche quando è usato da una donna. E non è nemmeno solo una questione di aggressione di genere. E’ uno dei simboli che incapsulano il caleidoscopio di oppressione in cui viviamo – dell’uomo sulla donna, ma anche del ricco sul povero, del sano sul malato, del normodotato sul disabile e così via fino a raggiungere dell’umano sull’animale (vedi sotto). Ora, cos’ha tutto questo a che vedere con la paura? Provate a dare voi una risposta, prima di andare avanti a leggere. Beh, la mia risposta è duplice. Il “verouomismo” è collegato al meccanismo atavico generale per cui si adotta un determinato comportamento per paura di non essere accettati dai componenti di un gruppo. Chiamatelo, se volete, “mentalità da branco”, in un certo senso – anche se impropriamente – “saltare sul carro del vincitore” potrebbe andare. Funziona nella stessa maniera del bullismo, in effetti è un tipo di bullismo. A proposito, avete notato l’aumento di suicidi maschili negli ultimi anni? Niente a che fare con questo? “Come, no, mio caro, come no…” (citando un’introduzione di Maurizio Maggiani a ‘Stato e Anarchia’ di Bakunin). Il ·machismo” invece è collegato alla paura perché – fidatevi, sono un uomo (anche se non uno vero) – non è alimentato dalla convinzione che le donne siano inferiori agli uomini, ma dalla consapevolezza della falsità di questo mito e una totale incapacità di accettarlo, che risulta nel diniego. Che lo crediate o no, l’idea di avere un confronto aperto con una donna terrorizza l’uomo machista. Ora, un punto distinto ma collegato: ho scritto sopra che il “machismo” e il “verouomismo” impattano la società in generale, non solo gli uomini. E qual è l’argomento che fa più paura (specialmente, ma non esclusivamente, agli uomini) affrontare – sinceramente, non vantandosi di cose che solo succedono nei loro sogni più arditi (socialmente imposti?) Esatto, la sessualità! Eccolo lì. Questo è probabilmente L’argomento che davvero poco gente si sente di trattare apertamente. Ovviamente, non sto dicendo che la gente dovrebbe raccontare i fatti propri all’autista dell’autobus o al barista all’angolo, parlo della comunicazione all’interno della relazione. Parli apertamente con la/il tua/o partner del tuo modo di vivere la sessualità? Se, onestamente, la risposta è “sì”, ciò è fantastico, congratualazioni sincere. Ma temo che si tratti di una sparuta minoranza. La dottoressa Emily Nagoski ha scritto un libro straordinario su questo argomento (Come As You Are, link), affiancando all’analisi teorica la proposta di soluzioni pratiche ai problemi legati alla sfera sessuale. Il mio discorso è semplice: le società occidentali trattano questo argomento come qualcosa da mostrare nella pubblicità e sui social media ma privatamente la gente la nasconde con vergogna. È tempo di

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Tre Sogni Di Neil Young

Neil Young: Il mondo sta girando spero che non si allontani. Tutte le mie foto stanno cadendo dal muro dove le avevo appese.

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Illuminare I Punti Ciechi: Un’alternativa Al Dominio Della Paura

PROLOGO Questo testo (troppo lungo, scusate) è stato pensato e scritto in maniera intermittente originalmente in inglese durante mesi, principalmente in Italia ma in parte in Germania, nella seconda metà del 2019. In questi giorni di quarantena, in cui mi trovo nel nord-ovest della Spagna, da solo e senza wifi, ho deciso di tradurlo in italiano. Il punto di partenza di questo testo si trova a dire il vero in altre teste e in un Paese lontano, precisamente il Brasile. Qualche mese fa, avevo guardato il primo episodio della nuova stagione di Panelaço, il programma YouTube di João Gordo sulla cucina vegana:   . L’ospite principale era il graffittaro paolista Mundano, che deve la sua fama, tra le altre cose, alla sua protesta del 2016 alla cerimonia della torcia olimpica (link) e alla sua polemica del 2017 con il sindaco di São Paulo, João Dória (link). L’altro ospite era Rodrigo Lima, il vocalist dei veteran dell’hardcore punk Dead Fish che, mentre cucinava una feijoada vegana, ha presentato il nuovo album della band, intitolato –appunto- Ponto Cego (‘Punto Cieco,’ se non l’avete ancora ascoltato, vi consiglio di farlo: ottima musica e ottimi testi. Capita di rado di sentire gente che dice così tante cose di buon senso. Le tre persone nella cucina hanno affrontato un’ampia gamma di temi riguardanti questioni di natur sociale, politica, ambientale ed economica, a livello tanto ‘micro’ quanto ‘macro’, ma in un’atmosfera giocosa e allegra. La forza dell’espressione ‘punto cieco’ (brillante l’idea di inserire il sintagma nei testi di ogni canzone del disco, senza però dare il titolo a nessuna) è stata per me spunto di riflessione durante i mesi successivi. Poco più tardi, altra ispirazione è stata fornita dall’intervista del Gordo con il rapper Eduardo Taddeo (ex Facção Central), che ha sollevato diversi punti pertinenti, in particolare riguardo alla lotta di classe che, no, non è quella portata avanti dagli oppressi contro gli oppressori ma precisamente il contrario: la spietata guerra portata avanti dai ricchi, dalla classe media e perfino dalla ‘classe operaia’ (in senso ampio) contro i più poveri, i più deboli e i più disperati. E tutto questo parlare di un Brasile che non si conforma allo stereotipo carnevalesco del Paese che abbiamo in Europa mi ha riportato al 1997 e alla prima volta che ho ascoltato la cassetta registrata dell’album “Roots” dei Sepultura. Questa verbosissima column può, pertanto, essere vista come il culmine di un ciclo euro-brasiliano diffuso su 23 dei 36 anni della mia vita ed in un certo senso rappresenta l’opportunità di riflettere su esperienze fatte e lezioni (spero!) apprese nell’arco di questo lungo periodo. ACCECATI DALLA PAURA La paura é un grosso business. Basti chiedere a qualunque content writer, copywriter, o chiunque si guadagni da vivere con il marketing quali bottoni cercano di premere nella gente quando scrivono i testi promozionali. Menzioneranno sicuramente questi due elementi: la ricerca del piacere e la paura del dolore. Questi sono i fattori che guidano la maggior parte delle nostre decisioni di acquisto. Entrambi sono importanti, ma la gerarchia è chiara: se i due entrano in contatto, é sempre la paura ad avere la precedenza. Io credo che l’egoismo, l’egocentrismo, l’indifferenza, ecc. siano tutti effetti collaterali: le società occidentali sono dominate della paura. La paura del fallimento, dell’inadeguatezza, del rifiuto. La paura muove montagne di soldi. Considerate semplicemente quante pubblicità lá fuori potrebbero parafrasarsi semplicemente come “Amico, da solo non ce la fai. Tuttavia, se ci dai un sacco di soldi, lo risolviamo al posto tuo”. Ad esempio, prima di scrivere questa column, ho voluto fare la prova con diversi seminari online e posso dire che, mentre alcuni sono davvero utili, c’è pieno di specchietti per le allodole. Tuttavia, hanno successo perché fanno leva sulla paura. Lo stesso vale per i politici: abbiamo visto negli ultimi anni referenda ed elezioni vinte diffondendo paura sulle reti sociali. Brexit, Trump, Salvini, Bolsonaro hanno vinto prima di tutto mentendo e terrorizzando la gente su Twitter (approfittando, chiaramente, della mentalità da branco del tipo “non pensare, condividi e basta” tipica di troppi utenti dei social media. Di conseguenza, alla radice della mia column c’è l’idea che la paura stia alla base di molti (anche se forse non tutti) i punti ciechi della nostra società. Le mie riflessioni seguenti abbracceranno sia il livello individuale sia quello collettivo, che tendono in parte a riflettersi l’un l’altro. Tutti noi abbiamo una dimensione “io” e una dimensione “uno di noi”, che in parte si sovrappongono ma in parte divergono. Se vogliamo ipersemplificare, potremmo dire che il primo è il nostro vero essere, che solo noi possiamo vedere (anche se spesso ci manca il coraggio di guardare). Il secondo, invece, è il nostro essere pubblico, quello che aderisce a dei “codici” (di comportamento, di abbigliamento, ecc.) per essere parte di qualche tipo di “noi”, un gruppo di persone. Tutti siamo parti di molteplici gruppi di persone, ognuno dei quali normalmente ha i suoi codici. Questo è molto importante perché i punti ciechi che affronterò ora hanno ache fare con tutti i livelli: il livello “io”, che è quello strettamente individuale, il livello “noi”, quello collettivo ed il livello “uno di noi”, che effettua una specie di mediazione tra i due citati anteriormente. Prima di andare avanti, c’è un nodo molto importante che vorrei esplicitare: se qualche volta suono troppo “tranciante”, vi prego di non interpretare in questo senso le mie parole: non sono qui per condannare nessuno; infatti, se ho potuto identificare questi punti ciechi è solo perché sono stati parte di me per molto, moltissimo tempo (e, probabilmente, non me ne sono liberato ancora del tutto).

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Illuminare I Punti Ciechi: Un’alternativa Al Dominio Della Paura – Parte 3

Illuminare i punti ciechi: Un’alternativa al dominio della paura Parte 2 Illuminare i punti ciechi: Un’alternativa al dominio della paura Parte 1   MASSACRA IL PIÙ DEBOLE   Stazione ferroviaria di Manchester Piccadilly, una mattinata nuvolosa dell’estate del 2018. Ho un appuntamento con un notaio in centro, a 15 minuti da qui (una menatata burocratica da risolvere, per la modica cifra di 250 sterline). Esco dalla stazione e attraverso la strada. C’è un uomo che dorme sul marciapiede al lato di una caffetteria (Costa? Starbucks? Non ricordo). È bianco, britannico, dimostra 45 anni ma è probabilmente più giovane. Dopo 5 minuti, ne ho giá contati tre. Al momento di arrivare a destinazione, ne ho contati 16. Se non conoscessi il nord ovest dell’Inghilterra (ovvero, molto lontano dalle ingannevoli luci della megalopoli londinese e dalla montagna di stupidaggini sulla ‘cool Britannia’ che ci sono state propinate dalla fine della guerra in poi), sarei basito. A Liverpool, la situazione è simile, e a Lancaster, dove ho vissuto per quasi sei anni, anche. A Morecambe è peggio, ed è ancora peggio a Blackpool, dove la Trainspotting generation è stata macellata in modo tragico. Ci sono buone sacche di solidarietà, ma devo dirvelo, in Inghilterra come in Italia e ovunque, la narrativa sta prendendo piede: “la povertà l’hanno scelta loro.” E qui arriviamo ad un cencro che ha sempre divorato la nostra società: l’aporafobia. Sì, la pattumiera ideologica che conosciamo sotto diversi nomi può essere riassunta in una parola, che denota il disprezzo verso il più debole, il più povero, il più disperato. Non è solo una questione di soldi, ma partiamo da lì. Ad esempio, è cristallino che il razzismo sia vivo e in buona salute ovunque, ma che cos’è davvero? Ha senso chiamarlo “razzismo”? Sono l’unico ad avere l’impressione che il “negro” sia tale solo finché è povero? Voglio dire, è facilissimo insultare il tizio che chiede l’elemosina in una strada del centro, ma qualcuno avrebbe il coraggio di fare lo stesso con Colin Powell? Ok, questo è perfino troppo ovvio, ma non serve puntare così in alto: è molto probabile che troverete il vostro razzista medio a farsi un selfie con la barista caraibica in un locale della passeggiata, che potrebbe essere anche essere “non proprio bianca” ma alla fine chissenefrega, è carina e se fai il simpatico, magari, un giorno… (spoiler, frae, non succederà mai: ti sopporta perchè è abituata a considerarla parte del suo lavoro – e già non dovrebbe essere cosí – ma si taglierebbe le vene piuttosto che fare “qualcosa” con te… giustamente, aggiungerei io). Il punto è che il razzismo non colpisce tutti allo stesso modo e, come sempre, quelli che lo subiscono di più sono quelli che non si possono difendere, non lo scopro certo io. Gente come Salvini prospera alimentando ogni giorno la gente disperata che arriva qui con i mezzi più improbabili… qualcuno insulta mai gli sceicchi per questioni di pelle o religione? Ma va, sono ricchi e potenti. C’è un codice di vigliaccheria vigente qui: non mostrare pietà, ma solo con quelli più deboli di te. Sii forte con i deboli e zerbino coi potenti (sí, nel giro di 20 parole ho citato gli Slayer e Frankie Hi Nrg). Non è tanto una questione di razzismo o xenofobia, l’aporofobia è la chiave.  Un certo numero di inglesi che ho conosciuto a Lancaster sono confusi dagli italiani che odiano gli immigrati: gli italiani sono sempre stati migranti. Certo, ma qualcuno tirerà fuori la storia che noi eravamo “migranti migliori”. Se poi menzioni il fatto che i gruppi della criminalità organizzata più violenta negli USA all’inizio del ventesimo secolo fossero italiani, comincerà un demente scambio di accuse tra italiani del nord e del sud. Non puoi vincere, c’è sempre una narrativa del cacchio per giustificare qualunque stupidaggine. Il punto, tuttavia, è che non si tratta di essere immigrati, ma di essere vulnerabili. Ripeto, non é necessariamente una questione di denaro e potere, a volte riguarda semplicemente la capacità. Oh sì, si sentono spesso frasi banali e, francamente, prive di significato come “si dovrebbe giudicare una società dal modo in cui si tratta la categoria X”. Beh, non ho mai visto questo X = i disabili perchè altrimenti ci toccherebbe ammettere a noi stessi quanto siamo vergognosi (e anche smetterla con il mito di “tutte le minoranze sono discriminate allo stesso modo” – mi spiace essere brusco ma semplicemente non è vero – e qualcuno prima o poi doveva dirlo). Potreste pensare che la situazione non sia così male, beh, vi prego, pensateci meglio. Se vivete in Europa, la prossima volta che fate un giro per la vostra città fate caso: quante rampe di scale troverete che non hanno nessuna ragione valida per essere lì? Quanto spesso potrebbero essere semplicemente sostituite con degli scivoli? Quanto spesso le porte dei locali pubblici sono abbastanza ampie da permettere l’accesso con sedia a rotelle? È deprimente vedere per quanti locali pubblici sia più importante fornire l’accesso ai cani che non ai disabili (fermo restando che è importante che i cani possano accedere ai locali, soprattutto i cani guida). Quanti bar e ristorante sono -davvero, aldilà della dichiarazione d’intenti- attrezzati per accogliere persone che hanno disabilità motorie? Fate caso ai bagni. Vi sembra accettabile che qualcuno debba godere di meno diritti degli altri perché vivono in una condizione diversa (più difficile già di suo, tra l’altro). Dov’è l’indignazione? Un silenzio assordante sarebbe la risposta, probabilmente, ma non arriviamo nemmeno lì, perché la domanda non viene nemmeno posta. Questo è particolarmente assurdo visto che chiunque un giorno potrebbe trovarsi nella stessa condizione. Sì, il nostro corpo è stupendo ma tremendamente fragile. Sono sempre stato un cosiddetto “normodotato” fino ad oggi, ma sul domani non ci sono garanzie… a volte un secondo può bastare per cambiare la vita nostra completamente – potremmo trovarci all’improvviso a raccogliere i frutti della nostra indifferenza. Certo, siamo cosí abituati a questa impostazione mentale per cui ci sembra naturale pensare che queste cose non ci riguardino. Per fare un esempio pratico, faccio una domanda a tutti i guidatori: quanti di voi non hanno mai parcheggiato l’auto su un marciapiede, onestamente? Vi chiedete mai se state causando un potenziale impedimento per gli utenti di sedia a rotelle? È importante guardarci allo specchio. Certo, ha la massima importanza opporsi al razzismo, al sessismo, all’omofobia, alla transfobia, alla xenofobia, ecc., ma l’oppressione si manifesta in molteplici forme. Beh, nel caso in questione, credo che molto pochi di noi possano dichiarsi “non colpevole”. Una catena è forte quanto il suo anello più debole e le persone con disabilità sono sempre state l’anello più debole – non per la loro condizione fisica (o mentale, ci sono tanti tipi di disabilità) ma a causa della nostra sconcertante indifferenza, ovvero perché non ci disturbiamo a muovere un dito per rendere la loro vita più facile e migliore. Contrariamente a uno stereotipo diffuso, i disabili non sono necessariamente infelici, molti in realtà amano la propria vita più di molti “normodotati” (o “privilegiati”, forse rende meglio l’idea) – il vero mostro che devono affrontare non è la loro condizione, ma le limitazioni che noi, come maggioranza dominante, gli imponiamo. Finché tutti gli anelli saranno rafforzati al massimo, le fondamenta della nostra società sono condannate alla fragilità. Che sia ora di smettere di scrollare le spalle e dare un seguito pratico a quello che spesso predichiamo?   NUTRENDOCI DI DISTRUZIONE Ho sentito parlare di veganismo per la prima volta quando ho cominciato ad interessarmi di musica rumorosa e punti di vista politici poco convenzionali: era il 1998 e avevo 14 anni, molto prima che il veganismo prendesse campo, al punto da diventare quasi di moda (si vedono perfino vegani di estrema destra!). Immediatamente, mi sono trovato a simpatizzare con l’idea di smettere di nutrirmi dello sfruttamento di altri esseri viventi. Certo, ero poco più che un bambino e non c’era assolutamente possibilità che potesse realizzarsi presto. In realtà, non la volontà è rimasta latente fino a poco tempo fa, risvegliandosi occasionalmente ogni tanto. Nel 2016 sono diventato vegetariano e, più recentemente, mi sono detto “ok, basta con la pigrizia!”. Qui cercherò solo di menzionare alcuni argomenti che ritengo degni di essere presi in considerazione (ognuno valuterà se accettarli, rifiutarli, o qualunque cosa stia nel mezzo). Normalmente, quando si chiede a un vegano la ragione della sua scelta, vengono menzionati tre aspetti: l’etica, la salute e l’ambiente. Mentre credo che tutti questi siano validi, sospetto che la situazione sia più complessa di come venga spesso dipinta, tanto dai detrattori quanto dai sostenitori del veganismo, come succede in molti dibattiti. Io qui mi focalizzerò solo su alcune ragioni che mi hanno portato a smettere di mangiare carne e, progressivamente, eliminare gli altri derivati animali. È un misto di etica e coerenza, nel mio caso. Sí, sono cosciente che gli esseri umani abbiano sempre mangiato animali, ovvio. La carne ci ha sostenuto per molto tempo. Tuttavia, mi chiedo che rilevanza possa avere questo fattore oggi. Non siamo all’Età della

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Keep Big Calm In A Worst Case Scenario

Entrati nel 2020, si è sparsa in alcuni paesi mondiali (ed ora minaccia di estendersi all’intero globo) una epidemia che ha paralizzato la totalità degli abitanti, se si eccettua coloro che ne escono per lavorare non in telelavoro e per ragioni strettamente di sopravvivenza, dentro casa.

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A 61 anni è morto David Roback.

David Roback

A 61 anni è morto David Roback. Figura importantissima del cosiddetto Paisley Underground prima con i Rain Parade….

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Sanremo 2020

Perché Sanremo 2020 ha riconquistato i giovani e perso i non giovani. Questa notte, facendo le 3 come non succedeva da anni ormai alla sottoscritta, ho visto la finale di Sanremo, dopo averlo seguito con grande coinvolgimento per tutta la settimana . Sanremo non è solo musica, ma partiamo da questa, vedendo canzone per canzone, in ordine inverso di classifica finale. FUORI GARA Bugo (feat. Morgan) – Sincero “Le buone intenzioni, l’educazione”, è l’incipit della canzone. Forse andavano pesate meglio dall’interprete della canzone scritta da Bugo. Quando hai un amico che è un cavallo pazzo, a cui chiedi di partecipare con te, fino a che punto ti assumi la responsabilità di quello che potrebbe fare e fino a che punto speri non lo faccia? Non so come siano andate davvero le cose, chissà se nei prossimi giorni lo capiremo, davvero, al di là dei rigidi schieramenti innalzati fino ad ora. Dal mio punto di vista, se mi dovessi sposare, non chiederei a Morgan di fare da testimone e di portare le fedi, diciamo così. (“Sono sincero, me l’hai chiesto tu, ma non ti piace più”) 23 RIKI – Lo sappiamo entrambi Ho la sensazione di averla già sentita… senza infamia e senza lode. Personalmente d’accordo con la classifica, che comunque non vuol dire aver fatto schifo: ha pur sempre cantato a Sanremo, no? 22 Junior Cally – No grazie Dissento. Per me è sì, grazie. Si è sentito di peggio in questo Festival. Purtroppo temo abbia pagato il prezzo di essere stato tacciato come nemico, settimane prima dell’inizio della competizione. E invece lui si è tolto la maschera ed ha dimostrato di non essere peggio di alcuni suoi colleghi molto più famosi. 21 Elettra Lamborghini – Musica (e il resto scompare) Questa canzone mi è piaciuta tantissimo, è una hit allegra che rimane in testa, lei mi fa ridere, in senso positivo, non perché la trovi ridicola ma perché mi mette proprio il buonumore. Davvero qualcuno ha pensato che si sarebbe presentata con un pezzo “tipicamente sanremese”? Cos’è il tipicamente sanremese? Siamo nel 2020, nella settantesima edizione! Ma su questo punto tornerò dopo. Brava! 20 Giordana Angi – Come mia madre Mmm. Qui torno ad essere d’accordo con la classifica. Una giovanissima cantante, travestita o mascherata da una di 15/20 anni più di lei, nello stile cantato e in quello mostrato nello styling. Forse davvero solo troppo personale per arrivare al di fuori della sua cerchia? Non so. 19 Enrico Nigiotti – Baciami adesso “Baciami baciami adesso” è scritta sopra “credimi credimi sempre”. Va bene avere un genere, ma scrivere due volte la stessa canzone mi sembra un po’ troppo da comfort zone. Peccato, o forse no. 18 Michele Zarrillo – Nell’estasi o nel fango Myss Keta nel “DopoFestival”, commentava i look dei partecipanti, tramite emoticon, senza l’uso di parole (superflue). Vorrei poter fare lo stesso. 17 Rita Pavone – Niente (Resilienza 74) Non capisco assolutamente come si sia potuta stroncare la Ritona nazionale. Se io arriverò alla sua età in quel modo, mi farò l’applauso da sola! Fantastica, dai. 16 Paolo Jannacci – Voglio parlarti adesso La troppo criticata Elettra Lamborghini, ha lasciato la strada che quando è nata si è trovata bella profilata all’orizzonte, per fare altro e non seguire il mestiere di famiglia. Qualcosa da cui imparare, anche se il cognome famoso non fosse Lamborghini ma un altro… 15 Marco Masini – Il confronto Chi se lo è trovato davanti, dopo anni che non lo vedeva, ossia persone attratte da Sanremo in quanto Sanremo e non in quanto programma di Rai1, sono rimaste basite dal suo cambio di look, che in realtà non ha adottato da pochissimo. Grande, fedele a se stesso, mi è piaciuto moltissimo! 14 Alberto Urso – Il sole ad est Tornare alle 18 di Michele Zarrillo, rileggere e stare fermo un giro 13 Anastasio – Rosso di rabbia Quando canta di essere rosso di rabbia e dice di avere 22 anni in una strofa, per partito preso mi si scioglie il cuore. Conosciuto ad X Factor, ad un primo ascolto la musica, scritta da lui, con l’arrangiamento rock, non mi aveva affatto convinta. Dal secondo ascolto in poi è cambiata completamente la percezione! 12 Levante – Tikibombom Beh, qui andiamo sul personale ragazzi. Seguo ormai da anni Levante, che posso dire di avere visto maturare, evolversi. La amo, Questa canzone non poteva non piacermi, anche se avesse rifatto Ambarabacicicocò. Cosa che per il momento non è successa. Godetevela: dietro un motivetto stra-commerciale, c’è un bella persona, e per rimanere nella musica, anche un bel testo. 11 Raphael Gualazzi – Carioca Cito Elena Mariani, che seguo su Instagram per definire il Gualazzi che emerge da questa canzone: “Gualazzi è la forma umana di Sebastian della Sirenetta”. 10 Rancore – Eden La parte che mi è piaciuta di più di questo brano, è lo zampino di Dardust, presente in diversi pezzi questo Sanremo. Ha reso speciale quello che rischiava di rimanere solo bello. Bravissimi. 9 Irene Grandi – Finalmente io Ennesima dimostrazione che non potrei mai fare il lavoro di un discografico, perché se mi fidassi solo della mia prima impressione, non si canterebbe più nemmeno nelle recite scolastiche. Non mi era piaciuta per niente, mi era sembrata fuori posto, ripetitiva. Trovo invece questa sua posizione in classifica, onesta. 8 Achille Lauro – Me ne frego Dirò tutto completamente nella seconda parte di questo mio piccolo pezzo, ma rimanendo negli spazi del momento dirò: fantastico. Si ripresenta, Achille, con un pezzo simile nel genere, essendo un genere, a quello dell’anno scorso. Il personaggio è però anni luce avanti. 7 Elodie – Andromeda Avevo perso il contatto con la reale natura di questa artista per due motivi. Il primo è che viene dal programma di Maria De Filippi (e con il senno di poi posso chiedermi: e con ciò?). La seconda, che fortemente mi ha ingannata più della prima è che quelle come lei, bel viso, corpo statuario, è come se dovessero fare uno sforzo in più per dimostrare di non essere solo una bella statuina, con una bella vocetta. Ma una forte personalità, con una grande voce, e una forza interpretativa come le sue, ci mettono poco a venire fuori. Se non siete convinti, ascoltatela ad occhi chiusi e non fatevi ingannare. 6 Tosca – Ho amato tutto Qui, invece la classifica, non l’ho capita. 5 Piero Pelù – Gigante Il titolo la dice grossa su di lui. E chi se lo aspettava? Pezzo davvero gigante, interpretazione degna degli anni 80. 4 Le Vibrazioni – Dov’è Non potevano che stare qui. Non tanto per gusto mio personale quanto per onestà nei confronti dell’andamento del Festival. Bravi dai, ma non da podio. Va bene un passo indietro (sono sicura che vada bene anche a loro). 3 Pinguini Tattici Nucleari – Ringo Starr “In un mondo di John e di Paul io sono Ringo Starr”. Già questo basterebbe. I Pinguini sono di una simpatia ed autenticità rara. Sarà che sono un gruppo e mi sembra che si divertano proprio mentre quello che fanno, e lo fanno anche bene. Sembra di sentire gli amici che provano in saletta, ma per genuinità, non per inesperienza. Amati. 2 Francesco Gabbani – Viceversa Faccio un grosso sforzo ad essere onesta intellettualmente: il motivetto è carino. Ma purtroppo più forte dell’onestà, è la voglia di non voler vedere la palma in mano a chi pecca di presunzione. 1 Diodato – Rumore Ho 55 buoni motivi per dire che questa canzone doveva vincere. Ne dirò meno. Diodato è un artista non (ancora) mainstream, dolce, sensibile, bravo e che ha scritto una bella canzone. Doveva vincere lui e grazie alle sue capacità, ci è riuscito   Ma tiriamo le somme su cosa questo Sanremo ha significato…   Sembra pazzesco che da un fenomeno di costume possano impararsi così tante cose, ma così è stato per la sottoscritta. Non so se perché ho dormito poco da martedì a sabato per seguire tutto, o perché mi sono talmente tanto divertita che a momenti la mattina, maledicendo la sveglia, mi chiedevo se la notte prima fossi stata a Sanremo davvero. Gioie e dolori intendiamoci. Quindi se avete avuto la pazienza di leggere fino a qui, farò una leggera digressione su quello che una giovane, giovanissima (lasciatemelo dire) 35 enne ha percepito. La prima cosa che mi ha stupita, è stata: ma davvero Achille Lauro è il nemico numero uno? Perché ha dei costumi? Perché manda avanti il personaggio e non la persona  mentre canta, interpreta? In questo periodo particolare, c’è dietro di lui, a fianco a lui, il genio creativo di Alessandro Michele di Gucci, che ha reso i suoi costumi per questa messa in scena meravigliosi, spettacolari. Un personaggio androgino ho notato, disgusta più di tutte, le persone over 50, ho notato, e quelli ancora più over. Mi viene da dire: ma veramente? C’eravate quando c’era Jareth in Labyrinth, interprato da un MAESTRO quale David Bowie? Sì, c’eravate. E, un momento: Frank’n’Furter interpretato dal sogno, Tom

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Pensare L’infosfera Di Luciano Floridi (raffaello Cortina, 2020)

Il 6 febbraio è uscito Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale, un saggio di Luciano Floridi pubblicato da Raffaello Cortina nella collana Scienza e idee diretta da Giulio Giorello. Luciano Floridi è professore ordinario di Filosofia ed Etica dell’informazione all’Università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab. È chairman del Data Ethics Group dell’Alan Turing Institute, l’istituto britannico per la data science, nonché una delle voci più autorevoli della filosofia contemporanea. Posso vantare di aver seguito un corso di Logica all’Università di Bari, nel 2007 e aver assistito a diversi suoi seminari sugli argomenti più disparati. Pensare l’infosfera è la traduzione, rivista e parziale, del terzo libro di una tetralogia di libri dedicata ai fondamenti della filosofia dell’informazione, branca nella quale Floridi è ricercatore e in qualche maniera creatore. Come lo stesso autore afferma nell’Introduzione, il volume ha l’intento di riavviare la filosofia, al fine di rinfrescarne la memoria (intesa in senso prettamente informatico) e prepararla a una delle più grandi rivoluzioni della storia, quella che stiamo vivendo oggi: la rivoluzione digitale. Le nuove tecnologie infatti sarebbero re-ontologizzanti, cioè modificherebbero la natura intrinseca di quello che toccano, aprendo scenari interpretativi che necessitano di nuovi modelli filosofici e concettuali per essere studiati. Ma che cos’è l’infosfera? Vediamo come risponde Floridi: “A partire dagli anni Cinquanta, l’informatica e le tecnologie digitali hanno iniziato a mutare la concezione di chi siamo. Sotto molti profili, abbiamo scoperto che non siamo entità isolate, quanto piuttosto agenti informazionali interconnessi, che condividono con altri agenti biologici e artefatti ingegneristici un ambiente globale, costituito in ultima istanza da informazioni, che ho chiamato infosfera. […] Il nostro comportamento libero si trova posto a confronto con la prevedibilità e la manipolabilità delle nostre scelte, nonché con lo sviluppo dell’autonomia artificiale. Le tecnologie digitali sembrano talora conoscere i nostri desideri meglio di noi stessi.” Per affrontare questa nuova sfida Floridi divide il libro in quattro sezioni. La prima è dedicata alla domanda filosofica, alle caratteristiche che essa deve avere e al saper domandare della (buona) filosofia. Qui l’autore parte da una citazione di Bertrand Russell dal libro I problemi della filosofia (1912) sulle domande fondamentali della disciplina, per Floridi ancora viva tutt’oggi, e apre la strada a una definizione precisa, spazzando il campo da qualsiasi tipo di ricadute scientiste o dogmatiche. La seconda parte si occupa di indagare cosa sia una risposta filosofica. Qui la questione diventa più complessa e ancora più interessante: l’autore fornisce una serie di strumenti concettuali e di metodo che permettono di interpretare in maniera analitica il processo di re-ontologizzazione al quale le nuove tecnologie digitali ci sottopongono. La densità e la forza del materiale in questione affondano le radici nella nostra quotidianità e aprono scenari, etici e noetici, di grande impatto e dal carattere anticipatorio. Si trattano qui i temi più controversi della nostra contemporaneità, dalla pornografia online alla privacy, al fine di capire come è cambiata oggi la concezione di identità, soprattutto quando siamo online (o per dirla alla Floridi, onlife). Il metodo fornito per rispondere filosoficamente a tali questioni, che qui ci limiteremo a chiamarlo genericamente metodo dell’astrazione, è tutt’altro che relativistico e vede nel disaccordo informato (cioè nel razionale e genuino pensarla diversamente) la possibilità di un contraddittorio costruttivo. La terza sezione è dedicata invece all’idea di design concettuale, che cosa significhi e in che modo essa rappresenti un mutamento di prospettiva radicale. Basandosi poi sui risultati ottenuti nelle prime due parti, e dopo aver fatto le pulci a Platone, l’autore accenna all’impostazione di una metodologia di realizzazione di un design filosofico che sia costruzionista, “vale a dire una filosofia che prende sul serio l’idea per cui la conoscenza orientata al costruttore sia il corretto approccio per interpretare ogni espressione della conoscenza umana.” Infine la quarta parte è dedicata a cinque lezioni filosofiche sui nodi centrali spiegati nei precedenti capitoli. Centocinquanta pagine dense di nuovi modelli nelle quali Floridi ci insegna come sia possibile oggi continuare a fare filosofia, quali siano le domande legittime, o meglio quale sia il modo corretto di porle (e come rispondere), e che tipo di rapporto deve avere il pensiero con la realtà che ci circonda, sempre più pervasa di tecnologia, globale e ricca di parametri nuovi. Vi mentirei se vi dicessi che è un libro per tutti. Tuttavia lo ritengo un tassello fondamentale per comprendere, almeno da parte degli addetti ai lavori, i termini della sfida a cui siamo chiamati, in un vero e proprio rinnovamento delle idee e del pensiero. Ma per quanti di voi siano interessati ad approfondire le questioni, da domani 10 febbraio, presso il Teatro Franco Parenti (ore 19:00), avrà inizio una serie di tre incontri (nei restanti tre lunedì del mese, 10, 17 e 24) dedicati al tema dell’infosfera e tenuti da Floridi stesso. Sarà un’occasione imperdibile per capirne di più e per confrontarsi di persona sulla rivoluzione, concettuali e di valore, che stiamo vivendo e che non si esaurirà tanto presto.

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Lo Sfascio Dei Mass – Media

Che senso ha far rimbalzare sulle cronache nazionali nel Giorno della Memoria una scritta antisemita su un muro di una casa, seppur di una ex-deportata nei lager nazisti? È un po’ come se uno scrivesse sul muro del municipio “ASSESSORI LADRONI” non condividendone le operazioni truffaldine di gestione della ‘cosa pubblica’ (ma forse questa è già un tantino più umana e comprensibile dell’altra scritta): quale risonanza di cronaca avrebbe mai?

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